La “TREGUA RUSSA” per il conflitto del Nagorno Karabakh

La tregua firmata fra Armenia e Azerbaijan, con la regia russa, pone temporaneamente fine al massacro, almeno fino alla prossima puntata.

La Russia è intervenuta con un tempismo molto preciso. Storica “garante” per l’Armenia, non ha in realtà sostenuto a fondo militarmente l’esercito armeno; ha aspettato che Yerevan fosse al limite, vicina al crollo, per ammissione dello stesso esercito armeno, perché non potesse rifiutare una mediazione favorevole a Baku. L’Armenia, infatti, ha accettato un’amputazione territoriale secca. In pratica perde tutti i distretti azeri di cui si era impadronita nel 1993 (nota 1). L’alleato Nagorno Karabakh perde la città di Sushi e il sud del Karabakh, conquistati dagli azeri, con un taglio del territorio totale secondo i russi del 20%, secondo i turchi del 40%. Il premier armeno Pashinyan, che aveva tentato di affrancarsi dal controllo russo per avvicinarsi all’Europa, intessendo rapporti diretti con la Germania, è politicamente molto ridimensionato, anzi deve affrontare le manifestazioni di protesta dei suoi concittadini. Nel frattempo Putin si è garantito fino al 2044 la base militare di Gyumri in territorio armeno. Era importante per lui non aumentare le tensioni con la Turchia e nello stesso tempo conservare buoni rapporti con l’Azerbaijan, grande cliente della sua industria nucleare (e in procinto di acquistare sistemi missilistici S-300).

A garanzia della tregua, con decisione del tutto autonoma, la Russia invierà 1960 militari, 90 veicoli corazzati, 380 veicoli militari e attrezzature speciali. La forza di interposizione resterà in loco per 5 anni (rinnovabili se nessuna delle parti si oppone).

Come avvenne nel 2008 per la Georgia (quella del Caucaso, non quella contesa a suon di ricorsi legali fra Trump e Biden), Putin ha riconquistato un altro tassello del suo “cortile di casa” e ora ha sue truppe in Armenia, in Georgia (dove sono ci “forze di pace” in Abkhazia e Ossezia del Sud) e in Azerbaijan. Infatti i russi controlleranno i corridoi strategici, ancora da costruire, di Lachin e del Nakhichevan (nota 2), e, in quanto forza di interposizione, dovranno disporre di una base anche in territorio azero (da Analisi Difesa 10 novembre).

Da un punto di vista della legalità internazionale Putin può richiamare ben quattro risoluzioni Onu approvate fra aprile e novembre 1993 che prevedevano la restituzione dei distretti azeri occupati (nota 3).

La Turchia non può protestare perché i suoi “protetti” hanno ottenuto buona parte di quello che volevano.

Erdogan è nel bel mezzo di un terremoto rovinoso che ancora una volta ha dimostrato come le città turche siano tenute insieme col vinavil.

Ha tentato di salvare la faccia dichiarando che esiste un memorandum concordato coi russi che dà ad Ankara un ruolo di osservatore del cessate il fuoco presso un Centro di Monitoraggio Congiunto.

I comunicati di fonte russa,però, escludono la presenza di forze militari che non siano russe.

Gli Usa sono giustappunto in un interregno confuso in cui Biden, il presidente eletto, non può metter piede alla Casa Bianca e Trump nomina un nuovo ministro della Difesa, destinato a essere tale probabilmente per 70 giorni. Esclusa, quindi, una reazione significativa degli americani.

Ai francesi, alle prese col Covid, resta solo di far buon viso a cattivo gioco. L’Europa appare in politica estera ancora una volta un nano, come valuta un articolo di German Foreign Policy del 12 novembre, che lamenta anche la nessuna influenza esercitata sugli avvenimenti dalla Germania. Lo stesso articolo dà ormai per defunto il Gruppo di Minsk.

L’autarca azero può cantar vittoria, perché recupera 11 mila Kmq di territorio, pari al 20% circa di tutto il paese, ma in ogni caso non rimette le mani sull’intero Karabakh, dove continueranno a stazionare truppe armene ostili, cui viene garantito il collegamento stabile con la madre patria attraverso il corridoio di Lachin.

L’Azerbaijan d’altronde ha la garanzia di poter costruire un parallelo corridoio che unisca il territorio azero all’enclave del Navichevan che è amministrativamente azero, ma circondato da territorio armeno.

La logica brutale dei rapporti di forza ha determinato la superiorità dell’Azerbaijan, meglio armato, perché in grado di mettere in campo un budget di gran lunga superiore. Secondo l’Huffington Post l’esercito armeno ha perso in battaglia quasi il 35% del suo arsenale militare impiegato nel conflitto, tra carri armati, artiglieria e camion, e ha perso il 10% degli effettivi del suo esercito.

Il commentatore di Analisi Difesa afferma che l’Azerbaijan in questo momento potrebbe mettere le mani su tutto il Nagorno Karabakh e la stessa Armenia. Ma è un ragionamento che non tiene conto della presenza e delle finalità russe. La Russia è certamente interessata a un indebolimento dell’attuale governo armeno e a un avvicendamento politico a Yerevan, in cui tornino al potere i filo-russi; ma non certo a un grande Azerbaijan che cancelli l’Armenia. Putin non si attesta nel Caucaso solo per rinverdire le glorie del passato, ma per interferire nel progetto turco di gasdotti e oleodotti che taglino fuori della partita la Russia, la quale comunque ha anche bisogno di Georgia e Armenia per un collegamento con l’Iran attraverso paesi amici.

Per ora Mosca si è garantita una presenza militare che potrebbe durare ben oltre i 5 anni previsti. Certo l’Armenia a breve non sarà in grado di mettere in discussione la situazione. Ma la tregua è gravida di nuovi scontri. L’accordo firmato prevede il ritorno a casa degli oltre 700 mila azeri cacciati nel ’93 dal Nagorno Karabakh e “dai distretti adiacenti”. E’ evidente che ci saranno armeni che perderanno case, attività ecc. , con la creazione di altri risentimenti, altri odii, altri desideri di rivalsa.

Già oggi 100 mila armeni hanno lasciato l’area occupata dall’esercito azero e il numero dei profughi aumenterà nei prossimi mesi. I Russi affidano all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati il compito di sovraintendere a queste operazioni, che difficilmente saranno tranquille. Il 15 novembre euronews informa di armeni che bruciano le loro case piuttosto di lasciarle a chi ritorna, come fecero gli israeliani nel Sinai, quando fu restituito all’Egitto.

In questa situazione il “divide et impera russo” avrà buon gioco.


Nota 1) dei sette distretti occupati dal 1993 ad oggi dagli armeni, Kalbajar e Agadam dovranno essere riconsegnate entro il 20 di novembre, e Lachin (Latsjien) entro il 1 dicembre di quest’anno. Il corridoio di Lachin tuttavia, vitale per il collegamento fra Armenia e Karabakh sarà controllato dalle truppe russe.
Gli altri 4 distretti (Zengillan, Jabrayil, Fizuli, Qubadli) collocati a sud del Karabakh sono stati occupati dalle truppe azere e sono già di fatto tornati all’Azerbaijan.

Nota 2) Nel corridoio di Lachin esiste un’autostrada che consentiva il collegamento fra Armenia e Stepanakert la capitale del Karabakh. Questa via di comunicazione passava per Sushi, quindi occorre farne un’altra, con un percorso alternativo, entro tre anni. Contemporaneamente l’Azerbaijan ha imposto la costruzione di un corridoio sicuro tra l’Azerbaigian e la sua exclave, la Repubblica Autonoma di Nakhichevan.

Nota 3) In particolare la risoluzione n. 822 del 30 aprile 1993 chiedeva il ritiro immediato di tutte le forze di occupazione armene dal distretto di Kelbadjar e da altre aree dell’Azerbaigian “recentemente occupate”. La N° 853 del 29 luglio 1993 condannava la conquista del distretto di Agdam e di tutte le altre aree della Repubblica azera recentemente occupate e chiedeva il ritiro immediato di tutte le forze di occupazione armene.
N° 884 del 12 novembre 1993: condannava l’occupazione del distretto di Zangelan e della città di Goradiz.

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