L’asse Italia-Usa, da Mosul a Sirte

Fonti americane attribuiscono il recente bombardamento Usa su Sirte in Libia contro l’ISIS a esigenze elettorali: accreditare la “fermezza” dei democratici in Libia come in Iraq e in Afghanistan in funzione anti-Trump.

In tutti questi scenari l’Italia funge da junior partner. E se la scelta del periodo può anche essere funzionale alla campagna elettorale della Clinton, non c’è dubbio che la collaborazione Italia-Usa è stata decisa da tempo (cfr. Le guerre della “pacifica” Italia N°39 Pagine Marxiste – Gennaio 2016).

Il governo Renzi ha contrattato, tramite i ministri Gentiloni e Pinotti, la propria presenza in Iraq e Afghanistan in cambio di un intervento Usa in Libia, che non danneggi, come invece è avvenuto nel 2011, gli interessi italiani.

Per bombardare Sirte, gli Usa hanno utilizzato la base di Sigonella e hanno goduto della “copertura” legale del premier Fayez Serraj, che non è ansioso di sacrificare altri uomini per conquistare la città (che l’ISIS ha circondato di mine).

La battaglia di Mosul

I profughi

Ma il fronte più caldo in queste ore, anche se lontano dai riflettori, è a Mosul, l’antica Ninive, in Iraq.

Se ne ha indirettamente sentore per il fatto che la Croce Rossa ha lanciato l’allarme per un milione di civili che si apprestano a lasciare la città, la metà dei 2 milioni di abitanti, quelli rimasti dopo l’esodo di 500 mila fuggiti nel 2014 quando l’ISIS conquistò quella che era la seconda città dell’Iraq. Del resto il “fuoco amico” americano ha già ucciso 28 bambini di un centro gestito da Save the Children, e raso al suolo l’Università. Le organizzazioni umanitarie hanno chiesto l’allestimento di campi con tende, servizi igienici, acqua, medicinali e cibo per accogliere i profughi. Almeno per 3-12 mesi, il tempo previsto per la conquista della città. Un grosso interrogativo è dove potrebbero rifugiarsi questi profughi. Non a Baghdad, che da mesi non fa entrare sunniti nella sua provincia col pretesto che stravolgerebbero la “bilancia settaria” che in qualche modo si è stabilita. Anche il Kurdistan iracheno, a est, ha già fatto sapere che ha raggiunto la saturazione con 2 milioni di profughi iracheni e siriani già ospitati. Solo curdi e cristiani ottengono ancora qualche lasciapassare. A ovest ovviamente non possono andare perché c’è l’ISIS e il conflitto siriano. Se si rifugiassero nella zona di Anbar rafforzerebbero la regionalizzazione settaria dell’Iraq.

Le forze militari in campo

A Mosul si muovono vari contingenti militari ognuno portatore di istanze spesso in contraddizione fra loro e non sempre fra loro coordinati (scrive il Brooking Institute. “il nemico è lo stesso, ma le motivazioni e gli obiettivi sono molto diversi”).

Quel che si teme è che lo Stato Islamico combatta fino all’ultimo uomo, ma i precedenti di Ramadi e Sinjar fanno sperare che alla fine non tutti sceglieranno il martirio.

Gli Usa hanno inviato di recente 560 nuovi soldati, che fanno arrivare il totale a 4.647, secondo il comando militare.

Da nord, est e ovest reparti curdi stanno via via tagliando le vie di comunicazione, hanno ripreso il controllo della città cristiana di Teleskof e presidiano, grazie anche alla copertura aerea dei caccia americani, i villaggi di Zahra Khatoon, Mufti e Wadi Jaham. Gli Usa hanno stanziato 415 milioni di dollari per questa partecipazione militare del KRG, il governo regionale curdo dell’Iraq, e in generale il KRG sta ricevendo equipaggiamento militare di ogni tipo da Usa, Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Ungheria, dalle munizioni ai missili anticarro, dagli elicotteri ai cannocchiali. Anche contingenti organizzati del PUK e del PKK hanno promesso di dare manforte, come pure l’YPG di Kobane. I curdi hanno fatto capire che non arretreranno dalle aree della provincia di Ninive che hanno liberato e che distano 10 miglia da Mosul. Gli Usa considerano i curdi gli unici combattenti affidabili (e lo dimostrano le loro perdite), ma hanno tuttavia garantito al governo di Baghdad che non prenderanno possesso di quartieri della città, che è prevalentemente sunnita, anche se non mancano piccoli nuclei di sciiti, curdi e turcomanni (i cristiani se ne sono invece andati nella quasi totalità).

E’ una “clausola di salvaguardia” imposta dal governo di Baghdad.

E che è stata sollevata anche nei confronti delle milizia sciite formate da iraniani, le uniche ben addestrate e combattive ma che, secondo gli Usa, non dovrebbero avere un ruolo nel dopoguerra perché potrebbero compiere vendette sui civili sunniti, mentre Baghdad è possibilista sul fatto di poterle inquadrare nell’esercito regolare sia pure (come è tradizione in Iraq) in reparti settariamente omogenei. Va da sé che queste milizie sciite (dette Asa’ib Ahl al-Haq) deplorano la presenza dei curdi nella battaglia di liberazione di Mosul.

Da sud avanza l’esercito iracheno sulla cui affidabilità e capacità restano ragionevoli dubbi, fatta eccezione per alcuni reparti scelti addestrati dagli Usa e dall’Italia. I governativi hanno preso il villaggio di Kharaib Jabr e la base aerea di Qayara, a 37 miglia a sud di Mosul.

Non manca anche un contingente di forze speciali turche (150 uomini e 20 carri armati), intervenute a nome dei turcomanni che pure abitavano Mosul e che stanno addestrando gruppi armati, di lingua turca e di origine siriana e irachena presso Bashiqa, una città 32 km a nord di Mosul. Il governo di Baghdad li ha diffidati, ma senza grande successo, ovviamente.

Un prevedibile complicato dopoguerra

Ma i problemi veri, secondo tutti i commentatori, cominceranno dopo la conquista della città e dipenderanno da chi occuperà materialmente gli spazi lasciati liberi dall’ISIS. Il rischio di un nuovo scoppio di guerra settaria non è immaginario, ma reale. Sulla capacità degli Usa di gestire questa fase delicata vengono da più parti sollevati dubbi e anche sulla loro capacità di impedire vendette nei confronti dei sunniti di Mosul che non hanno mai nascosto la loro diffidenza e ostilità verso il governo di Baghdad considerato un “fantoccio” dell’Iran e invece per un certo periodo hanno simpatizzato per l’Isis. L’alternativa di un dopoguerra “presidiato” dall’esercito Usa è stato per ora vigorosamente escluso da Obama. Gestire una pacifica convivenza nella città non sarà una passeggiata, ma neppure in generale gestire la città, un tempo centro industriale e di interscambio e oggi per buona parte in macerie e con scarse o nulle attività produttive e commerciali.

E gli italiani?

Quello italiano è il secondo contingente militare in Iraq dopo quello Usa: 1200 uomini di cui 700 circa dislocati a Erbil ad addestrare i peshmerga curdi di Barzani (circa 8000 i militari addestrati, il 36% del totale), 50 a Baghdad con lo stesso compito (e 450 a difesa della diga di Mosul, pericolante, la cui sistemazione è stata affidata, come è noto alla italiana Trevi, una holding nel cui CdA siede Marta Dessù, viceministro degli Esteri nei governi guidati da Mario Monti ed Enrico Letta e membro della Trilaterale. E non a caso quello per l’Iraq è il secondo stanziamento per entità fra i finanziamenti di missioni militari all’estero, circa 254,8 milioni di € (cfr https://www.combat-coc.org/afghanistan-la-guerra-infinita-litalia-aumenta-il-suo-contingente/).

Analisi di Difesa descrive entusiasta il ruolo militare italiani, sottolineando che a Erbil opera un assetto di “Personnel recovery” per tutta la coalizione e che solo gli Usa ne gestiscono uno simile, confermando che le “missioni di pace” non sono altro che delle prove generali di futuri conflitti in cui testare la preparazione degli uomini e l’adeguatezza dei mezzi di distruzione.

I ministri Gentiloni e Pinotti hanno partecipato il 21 luglio al summit congiunto dei ministri degli Esteri e della Difesa dei 40 paesi che a vario titolo sono presenti in Iraq. Ufficialmente gli italiani non combatteranno a Mosul, resteranno a presidio della diga, ma l’allarme lanciato dalla rivista Stratfor, che dice in sostanza che gli italiani, volenti o nolenti, saranno coinvolti in questa battaglia, chiarisce una cosa ovvia. L’ISIS in ritirata non può non considerare la diga un obiettivo allettante, visto la minaccia oggettiva che rappresenta.

Quindi dopo essere “morti per Nassirya” (e relativo petrolio) i soldati italiani rischiano di morire per Mosul, cioè per le commesse della Trevi e per i futuri affari che Eni e Finmeccanica sperano di concludere col governo di Erbil e con quello di Baghdad.