Le origini storiche dell’indipendentismo curdo

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I curdi, che ritengono di discendere dagli antichi Medi, vivono in Medio Oriente almeno dal II millennio a.C. La parola kurd significa nomade ed era il nome dato loro dai popoli vicini. In realtà non tutti i kurdi erano nomadi, ma solo gli allevatori delle aree montane, perché esistevano anche curdi dediti all’agricoltura e sedentari. Per un lungo periodo conservarono una struttura sociale legata al clan gentilizio, tenuto insieme da legami tribali e dominato da principi guerrieri e razziatori (il furto era tenuto in alto pregio, come presso i greci antichi la pirateria).

Parlano una lingua indoeuropea, del gruppo iranico, simile all’armeno; esiste una tradizione poetica antichissima (tramandata oralmente e distinta tribù per tribù).

Solo intorno al 1500 d.C. si cominciò a scrivere il curdo e vennero utilizzati gli alfabeti esistenti dove le singole tribù vivevano: alfabeto latino, alfabeto arabo in Iraq e Siria, alfabeto persiano in Iran; oggi alfabeto cirillico nelle aree ex sovietiche. È la lingua oltre che le tradizioni a identificare il popolo curdo.

Nel settimo secolo d.C. si convertirono all’Islam, ma restarono comunità cristiane. Inoltre l’Islam curdo è stato spesso considerato eretico per le influenze dello zoroastrismo.

Fino alla prima guerra mondiale vissero parte in Persia, nell’area dei monti Zagros e parte a cavallo fra l’Anatolia e il Caucaso. Dopo il 1000 esistette una nazione curda indipendente (che espresse a quanto pare anche il famoso Saladino) e che fu poi assorbita dall’impero ottomano intorno al 1500. In quest’epoca escono dall’anonimato storico e vengono identificati come popolo a sé in un libro del 1596, scritto in lingua persiana, intitolato “Fasti della nazione curda” in cui i curdi vengono definiti in contrapposizione ai turchi e ai persiani. Pur conservando una certa autonomia i curdi erano tenuti a fornire all’impero ottomano contingenti militari. La struttura sociale tribale nel tempo si “feudalizzò”, aumentando il potere dei principi curdi che erano contemporaneamente autorità politica e religiosa (sceicchi) e che accumularono estese proprietà terriere.

Nel corso dell’800, con la decadenza economica dell’Impero, il governo centrale fu costretto a imporre anche ai curdi tasse pesanti, che i principi non volevano pagare perché ledevano la loro autorità. Non fu per loro difficile organizzare la rivolta dei contadini, doppiamente irritati per il servizio militare obbligatorio per tutti e più lungo (fu abolito il corpo militare dei giannizzeri) e le nuove tasse. A metà dell’800 il sultano abolì i principati curdi, nel tentativo di centralizzare il potere; per ritorsione nel 1853 gli sceicchi curdi boicottarono la partecipazione alla guerra di Crimea; sia nel 1853 che durante la guerra russo turca del 1877 si ribellarono.

Nel 1880 la Gran Bretagna e in misura minore la Russia, fomentarono le rivolte curde sia dentro l’Impero ottomano che in Persia prospettando l’indipendenza del popolo turco; allettato da questa prospettiva lo sceicco Obeydullah attaccò la Persia e arrivò a conquistare Tabriz in Azerbaijan, sicuro della protezione russa, ma fu abbandonato al suo destino e catturato dagli ottomani.

Ai primi del ’900 il governo di Istanbul ritenne più utile cercare di assorbire gli strati dirigenti curdi nell’amministrazione assicurando loro carriere remunerative e privilegi in cambio di collaborazione nell’esercito e negli alti gradi della polizia. Sul modello dei Cosacchi, fu istituito il corpo degli “Hamidiyye“, forze irregolari curde, formate sulla base dell’organizzazione tribale. Queste truppe giuravano fedeltà al sultano e si “distinsero” nella repressione del movimento armeno (1896-1898), durante la quale furono massacrate decine di migliaia di persone. Erano soprattutto i proprietari terrieri a fare questa scelta anche perché il tema della obbedienza in nome della Umma islamica garantiva il potere del sultano ma anche il loro potere rispetto ai contadini.

Nelle città invece, negli ambienti del commercio e dell’artigianato si forma in Kurdistan una intellighenzia moderna, che ha studiato per la maggior parte in Europa o a Istanbul, fautrice delle idee “progressiste” e patriottica. Altri intellettuali curdi ripongono le loro speranze nel movimento dei “Giovani Turchi”, che nel 1908 rovescia il sultano. Il clima di riforma degli anni successivi incentiva la formazione di circoli culturali e politici curdi che fanno propaganda per l’indipendenza. Ma la cosa resta limitata alle élites urbane e soprattutto non si traduce in organizzazione.

Ben presto il nazionalismo turco prende il sopravvento e tutte le iniziative curde represse.

Ma all’inizio della I guerra mondiale molti turchi rispondono al richiamo del sultano e si arruolano, tranne le tribù meridionali (area di Dersim). Nel 1912 il petrolio era stato scoperto dalla Turkish Petroleum Company a Kirkuk e Mosul, un’area che nel corso del conflitto fu occupata e rioccupata da turchi, russi e inglesi.

Il governo turco, d’altro canto, deportò per “ragioni di sicurezza” 700 mila curdi.

Le potenze dell’Intesa firmano segretamente nel 1916 l’accordo Sykes Picot che prevedeva una suddivisione del Kurdistan in tre zone d’influenza: 1) il Kurdistan occidentale assegnato alla Francia; 2) il Kurdistan settentrionale alla Russia; 3) il Kurdistan meridionale all’Inghilterra. Anche i capotribù curdi si riunirono nel luglio 1917 in Persia con emissari inglesi russi e francesi e molti garantirono di abbandonare al suo destino il governo turco morente in cambio della promessa dell’indipendenza. Scoppiata la Rivoluzione d’Ottobre furono gli inglesi a gestire i rapporti coi capotribù. I quali si spaccarono fra gli indipendentisti (guidati dalla famiglia Bedir Khan) e coloro che rimasero fedeli alle sorti della Turchia trasferendo la loro fedeltà dal sultano a Kemal Ataturk, pur aspirando all’autonomia dentro la Turchia (leader Saudi Kadir).

Si delinea un elemento fisso della protesta curda: i movimenti di protesta sono sempre saldamente dominati da sceicchi, che spesso e volentieri si contrappongono fra loro e in ogni caso si appoggiano o alla Turchia o a una potenza occidentale,

Dopo la prima guerra mondiale nel trattato di Sèvres del 1920, agli art.62-64 si riconosceva uno stato curdo autonomo i cui confini sarebbero stati poi definiti dalla Società delle Nazioni; non se ne fece nulla perché la guerra di indipendenza turca guidata da Kemal Ataturk costringe le potenze europee a un nuovo Trattato firmato a Losanna nel 1923, in cui i curdi vengono riassorbiti in quattro stati: Turchia, Iraq, Iran e Siria; minoranze restano in Afghanistan, Armenia e Azerbaijan… In Turchia i curdi vengono “cancellati”: proibita la lingua, cancellata ogni autonomia amministrativa dei villaggi, sottoposti a legge marziale. Buona parte della borghesia e dell’intellighenzia curda espatria in Europa. Il centro dove si concentrano gli attivisti del movimento separatista è Parigi.

Si calcola che fra il 1923 e il 1927 i due terzi del bilancio statale turco fu utilizzato per pagare i soldati che reprimevano i curdi.

Un Comitato d’indipendenza curda, che aveva assunto il nome Azadi (Libertà), promosse un incontro a Diyarbakir con le autorità turche per ottenere un margine di autonomia, ma Ataturk rifiutò qualsiasi mediazione perché riteneva che la soluzione definitiva per la questione curda fosse la turchizzazione forzata. Azadi fu ben presto controllato dagli “Hamidiyye”, che si distinguevano per il pesante sfruttamento dei contadini curdi e degli aleviti con cui i curdi convivevano.

Nel 1925 scoppiò, forse su istigazione di infiltrati turchi, una rivolta a Piran guidata dallo sceicco Said, che sognava di far rivivere il Califfato e aveva il sostegno dell’intera tribù Zaza, ma non riuscì a coinvolgere le altre minoranze oppresse. I turchi impiegarono l’arma dei bombardamenti aerei contro i ribelli, che furono sconfitti e Said impiccato. Il governo turco ritenne Said responsabile di averlo indebolito nel momento in cui trattava per annettersi i pozzi petroliferi di Mosul e Kirkuk, che furono invece assegnati alla Mesopotamia britannica.

La rivolta non era stata preparata e non ebbe una grande eco nemmeno fra i curdi. Fu invece la legge marziale proclamata dal governo turco a risuscitare lo spirito di rivolta in tutta l’area curda diventando un elemento di coesione. Si tenne un congresso nella città libanese di Bihamdun per creare un’unica organizzazione curda. Il governo turco allarmato pose fine alle deportazioni e scarcerò parte dei detenuti politici; poi a sorpresa inviò 60 mila uomini contro quella che fu definita la “rivolta dell’Ararat”, che nel momento di massima estensione coinvolse almeno 20 mila combattenti curdi. L’esercito turco fu sconfitto e accettò di trattare: nel 1927 amnistiò 2 mila deportati e allentò la stretta militare sui villaggi curdi.

Nel 1929 i curdi persiani si uniscono alla rivolta. Questo porta i due governi di Persia e Turchia a stringere un accordo di collaborazione; in più la Turchia ottiene nel 1930 armi e copertura aerea dalla Russia sovietica, irritata per una rivolta curda in Azerbaijan. Il fronte di attacco turco nell’estate del 1930 è lungo 130 km. La politica del governo è di distruzione sistematica dei villaggi col massacro dell’intera popolazione. Il governo persiano consentì all’esercito turco di sconfinare nel suo territorio e colpire i curdi alle spalle. Nell’agosto 1930 la rivolta si estese ai curdi iracheni subito repressa dagli inglesi, che dal 1925 avevano ottenuto di aggregare all’Iraq Mosul e i suoi pozzi di petrolio. I turchi riuscirono a sconfiggere i curdi solo a fine ottobre.

Si trattò del punto più alto di unità fra tribù curde di diverse aree e stati, ma anche un raro esempio di ampio appoggio popolare, cui, in contrasto col tradizionale conservatorismo curdo, parteciparono come combattenti anche molte donne. Le nuove frontiere volute dagli imperialismi occidentali ostacolavano gli spostamenti dei pastori in cerca di pascoli, ma anche i commerci. Molti piccoli contadini indebitati dopo lunghi anni di servizio militare, perdono la terra e si riducono a sottoproletariato urbano. D’altro canto la capacità del governo turco di presentarsi in Europa come un movimento progressista e moderno e l’interesse dei paesi occidentali, in particolare Francia e Gran Bretagna, a conservare lo status quo (i mandati) lasciarono nel totale isolamento il movimento curdo, che comunque scontava la mancanza di un comando militare centralizzato e con obiettivi chiari; la leadership era frammentata fra i clan, ognuno dei quali difendeva il proprio territorio. Nel 1932 la Società delle Nazioni rifiuta di riconoscere l’etnia curda.

Alla rivolta del 1927-30 seguì una repressione di violenza inaudita. Una legge del 1932 stabiliva che i curdi fossero dispersi e controbilanciati dall’insediamento di nuclei turchi.

Da quel momento ad ogni primavera scoppiarono piccole rivolte subito sedate (se ne contano 15 in tutto); ma la politica delle deportazioni esasperò a tal punto i curdi che nel 1937 una nuova rivolta scoppiò a Dersim, quando contro i curdi vennero usate armi chimiche, artiglieria pesante e bombardamenti aerei, molti villaggi vennero distrutti e fu dichiarato lo stato d’assedio fino al 1950.

Nel Kurdistan iracheno, appena gli inglesi concessero la libertà formale al regno, i curdi subirono analoghe restrizioni. Questo fu alla base della rivolta del 1931 e 1932, guidata dai due fratelli Barzani (il maggiore era lo sceicco Ahmad, ma più famoso diventerà Mustafa, vengono da una famiglia di proprietari terrieri) e terminata per l’intervento della Raf inglese che bombarda i villaggi. Deportati nel Kurdistan persiano, i due tornarono all’attacco nel 1942 con una rivolta presto sconfitta. A questo punto Mustafa Barzani e mille uomini si rifugiarono in Persia per sostenere la Repubblica curda di Mahabad, proclamata nel dicembre 1945, sotto la protezione dei sovietici. Ma nel maggio 1946 i sovietici si ritirarono sulla base degli accordi di Yalta; i curdi vennero massacrati dopo essersi arresi all’esercito dello shah. Barzani, alla guida di 500 curdi iraniani, iracheni e turchi con un viaggio rocambolesco riparò in Azerbaijan. Catturato dai sovietici torna in libertà solo nel 1958.

Nel secondo dopoguerra le organizzazioni curde operano dentro i confini del paese che li ospita, ma sono spesso finanziate dai governi dei paesi vicini. I finanziamenti contrapposti li condizionano, tanto che si arriva a scontri fratricidi. Costretti a cambiare spesso sponsor conducono quindi una guerriglia ondivaga, durante la quale in certi periodi la dirigenza curda svolge il ruolo di mercenario al servizio delle mire egemoniche delle singole potenze regionali mediorientali. Sono costretti a credere a promesse di indipendenza, sempre disattese. Mentre i governi di Turchia, Iraq, Iran e Siria sviluppano la loro economia, la struttura tribale dei curdi viene lentamente erosa. In Turchia la volontà del governo di sradicarli dalle loro aree e di disperderli nel territorio li trasforma nella manodopera di riserva della manifattura e dei servizi, spesso ridotti a sottoproletariato urbano.

IRAQ – IRAN

Nel 1958 Barzani è invitato a tornare in patria dal generale Kassem che ha appena abbattuto la monarchia hascemita, ma i due non raggiungono un accordo e nel 1961 riprende la repressione contro i villaggi curdi. Barzani, finanziato da Usa e Persia, riprende la guerriglia e infligge forti perdite all’esercito iracheno e soprattutto blocca il passaggio del greggio e del gas verso i porti del Golfo Persico, facendo saltare le condotte presso la città di Erbil e minacciando l’incendio dei pozzi. Gli iracheni usano per la prima volta il napalm contro i villaggi curdi nel 1963; in certi casi i villaggi curdi sono isolati con la posa di mine. Nel 1964 il suo ex braccio destro, Jalal Talabani, fonda un gruppo indipendente. Nel ’68 Saddam Hussein e Barzani firmano una tregua e in Iraq viene riconosciuta l’uso della lingua curda nelle scuole e nei giornali.

La famiglia Barzani viene foraggiata dal governo iracheno perché guidi i curdi in Iran in una guerriglia contro lo shah. Dalle memorie di Kissinger sappiamo che nel ’73 emissari Usa ricontattano Barzani e lo rifinanziano (16 ml di $ in armi). Gli Usa erano interessati ai pozzi di petrolio che si trovavano nel territorio del Kurdistan iracheno. Questo incontro è probabilmente all’origine dello scoppio della rivolta per l’indipendenza in Iraq nel 1974. Durante la rivolta del 1974-75 i due tronconi curdi si riuniscono per fare fronte comune contro Saddam Hussein. Ma nel’75 i governi di Iran e Iraq firmano ad Algeri un patto che consente la divisione pacifica fra i due paesi dello Shatt-el-Arab (fiume formato dalla confluenza fra il Tigri e l’Eufrate); l’Iran interrompe quindi il sostegno finanziario e militare ai curdi, che vengono sconfitti. Barzani fugge negli Usa, dove muore nel ’79. La sconfitta mette in crisi il movimento curdo. Talabani fonda l’Unione Patriottica del Kurdistan e nel 1976 riprende l’azione armata in Iraq.

Allo scoppio della guerra Iraq-Iran (nel 1979 Khomeini ha sostituito lo shah di Persia e Saddam Hussein attacca l’Iran pensando di piegarlo facilmente) i curdi di Barzani fanno azioni di disturbo in Iraq e ottengono finanziamenti dall’Iran; Talabani invece tiene un atteggiamento lealista verso l’Iraq. Il risultato è che sono considerati entrambi infidi e i civili vengono repressi nell’uno e nell’altro paese (in Iraq gira un proverbio: “ci sono tre calamità al mondo: le locuste, i topi e i curdi”). Temendo che i curdi funzionino da “quinta colonna”, Saddam ammassa la popolazione seminomade delle montagne in veri lager (mezzo milione di deportati, 3 mila villaggi rasi al suolo). I deportati erano in maggioranza donne, vecchi e bambini. I maschi venivano arrestati e imprigionati senza alcuna accusa: 8.000 curdi “sparirono” nel 1983 da Erbil e tutt’oggi di loro non si sa più nulla; nel 1985 altri 3.000 ragazzi curdi furono stati arrestati e torturati dalle forze di sicurezza irachene per obbligare i loro parenti “a consegnarsi alle autorità”. Nel 1988 furono uccisi 5.000 civili curdi in soli due giorni a seguito di un attacco chimico nella città di Halabja; dieci giorni dopo nel Qaradash venne lanciato un altro attacco chimico e i 400 sopravvissuti vennnero arrestati e poi giustiziati mentre cercavano di raggiungere un luogo di cura. Nel 1988 le autorità turche confermarono di aver dato rifugio a 57.000 curdi iracheni; quelli che vennero convinti a rientrare in Iraq con la promessa di amnistia furono uccisi sommariamente.

Il governo di Teheran da parte sua trattò i curdi con estrema durezza: esecuzioni sommarie, torture e processi iniqui (l’episodio più famoso avviene nel settembre 1981 quando 18 operai curdi furono uccisi in una fabbrica di mattoni nel villaggio di Sarougliamish).

Una statistica del WSJ del 1985 calcolava che i curdi fossero 20 milioni (9 in Turchia, 3 in Iraq, 6 in Iran, 1 in Siria, il resto nei in vari paesi del Caucaso).

TURCHIA

Mentre infuria la guerra Iraq-Iran, Iraq e Turchia nel 1983 firmano un trattato, tuttora in vigore, di reciproco sfondamento delle frontiere per dare la caccia ai curdi, i quali si mantengono taglieggiando imprenditori e ponendo sovrattasse sui convogli di benzina.

I curdi di Turchia, che fino agli anni ’80 sono rimasti relativamente sottomessi, cominciano ad agitarsi. Nel 1979 in Turchia è stato fondato il PKK (Partito del Lavoro del Kurdistan), guidato da Abdullah Ocalan (“Apo”). Il PKK è ospitato dal regime siriano e si esercita nella valle della Bekaa, in Libano, con la consulenza dell’esercito siriano che occupa parte del Libano, ma ha santuari anche nel nord dell’Iraq. Ottiene armi e soldi anche dall’Urss. Per tutti gli anni ’80 i turchi sconfinano più volte in Iraq e massacrano gli aderenti del PKK anche con raid aerei.

Nel 1991 l’atteggiamento siriano verso il PKK cambia: Hafez Assad spera di ottenere dagli Usa una mediazione per recuperare le alture del Golan, quindi appoggia gli Usa contro Saddam Hussein e abbandona il PKK al suo destino. Il PKK cerca di reagire (1991-92) usando l’arma degli attentati (in particolare contro i luoghi di turismo a Istanbul) e tenta di suscitare una rivolta armata. Il governo turco prende a pretesto gli attentati per una repressione a largo raggio nell’Anatolia sud-orientale. In gioco in realtà c’è “la guerra delle dighe”, il famoso progetto GAP, che prevede di sfruttare l’acqua dell’Eufrate per produrre energia elettrica; il piano, varato nel 1985 prevede la costruzione di d ventuno dighe, diciassette centrali elettriche e centinaia di chilometri di canali e condotte. Il piano sottrarrà acqua a Siria e Iraq, ma è ben visto dai paesi europei e dagli Usa, coinvolti negli appalti e nello sfruttamento della manodopera. I curdi, che difendono i loro campo e il loro ambiente di vita, sono un oggettivo ostacolo sulla strada del “trionfante sviluppo” turco. La regione curda viene militarizzata, vi vengono ammassate truppe e mezzi pesanti, interi villaggi vengono svuotati. Il risultato sarà una urbanizzazione forzata a Istanbul e Izmir, con effetti permanenti sulla geografia sociale e di classe del paese.

IRAQ

Talabani si accorda col figlio di Mustafa Barzani, Massud, e con gli Usa per appoggiare la coalizione militare che attacca l’Iraq nel 1991. Nel dopoguerra Talabani chiede agli Usa di appoggiare le richieste di indipendenza curde. WSJ ed Economist conducono una campagna contro, sostenendo che un Kurdistan libero verrebbe immediatamente assorbito dalla Turchia. Nel marzo ’91 comunque i curdi di Talabani occupano Kirkuk, sconfiggendo 5 divisioni di Saddam, e minacciano di far saltare le dighe di Dokan e Darbandikhan con conseguente inondazione in Iraq. Le truppe di Saddam rispondono con piogge al napalm, acido solforico e fosforo sulle popolazioni e cinicamente gli Usa lasciano loro via libera, almeno fino alla sanguinosa riconquista di Kirkuk nell’aprile ’91. Iniziano massacri indiscriminati di civili, circa 800 mila curdi si rifugiano in Iran, 160 mila in Turchia e altri 700 mila fuggono sulle montagne (le scene sono identiche a quelle che oggi riguardano i cristiani e gli yazidi; al posto di Saddam c’è l’ISIS).

La spinta emotiva davanti alle scene raccapriccianti mostrate dai media autorizza il governo Usa a imporre prima una no-fly zone. Saddam negozia con Massud Barzani (PDK) la concessione di un territorio autonomo (e in cambio ottiene che Barzani permetta il passaggio di armi e finanziamenti ai curdi in Turchia). Subito la Turchia, sotto la presidenza Ozal, propone a Jalal Talabani la protezione turca per lo stato autonomo curdo (e ovviamente sui pozzi petroliferi), purché non accolga i peshmerga nel proprio territorio e adotti la lira turca come moneta. Saddam dichiara subito fuori corso la moneta del Kurdistan, azzerando i depositi dei curdi nelle proprie banche.

Dal ’02 inizia un braccio di ferro per la supremazia fra i Barzani e i Talabani; i due gruppi si spartiscono le entrate da contrabbando (benzina, ma anche cereali e manufatti).

I peshmerga si procurano i galloni di petrolio a 5 cent a Sud e lo rivendono a 2 $ in Kurdistan, dove la vita dei civili è molto difficile. Nello scontro fra le due correnti Saddam protegge Barzani, che viene amnistiato coi suoi in Iraq. Barzani si arricchisce coi balzelli imposti ai camion turchi che trasportano petrolio di contrabbando fra Iran e Turchia (un introito calcolato dal NYT in 50 mila $ al giorno).

In questo processo la struttura sociale curda si evolve. In precedenza accanto a una massa di curdi che vivevano solo di una modesta agricoltura di sussistenza, esistevano i grandi proprietari che esportavano prodotti agricoli. Nel Kurdistan degli anni ’90 si sviluppano strati che vivono di traffici, oltre che di mazzette e tangenti; i legami tribali si allentano o sono sostituiti dalle complicità tipiche delle società capitalistiche. E nelle periferie di Erbil, Mosul e Kirkuk si sviluppa un proletariato moderno che lavora nella piccola manifattura, nelle officine e nel settore petrolifero. Le grandi famiglie come i Barzani e i Talebani mandano i figli a studiare all’estero e occasionalmente si vendono come mercenari di lusso a prezzi non proprio di liquidazione.

Un altro aspetto degli anni ’90 è che fra i “pupari” è scomparsa l’Urss e la Russia non è ancora in grado di esprimere ambizioni imperiali. Ogni media potenza medio-orientale vede nei curdi propri una minoranza da reprimere, ma anche un’arma da usare verso il vicino scomodo. L’Europa è troppo interessata agli affari con la Turchia per entusiasmarsi per i curdi come nazione oppressa. C’è però l’imbarazzante arrivo dei profughi: i turchi sostengono che questo “mercato degli schiavi” è organizzato dal PKK, l’Italia, primo partner commerciale di Ankara, cerca di dirottarli verso la Germania e i paesi del Nord.

La guerra del 2003 per rovesciare Saddam e far entrare stabilmente l’Iraq nella sfera di influenza americana, rovesciando il dominio sunnita, diventa un’occasione imperdibile per le aspirazioni di indipendenza dei curdi. Uno stato centralizzato era indispensabile ai sunniti per appropriarsi della rendita petrolifera (i pozzi sono collocati a Nord, area curda, e a Sud, area sciita). Se i curdi si garantissero il controllo di Kirkuk avrebbero risolto il problema della autosufficienza economica. Nel 2005 la scelta come premier di Al Maliki porta a una situazione di scontro con i curdi per la spartizione della rendita petrolifera.

Di fronte comunque all’ondata di scontri settari e di massacri che caratterizzano il resto dell’Iraq, il Kurdistan si presenta come un’oasi di pace e di prosperità, ma vi dominano la corruzione dei funzionari e l’economia sommersa. In particolare la famiglia Barzani tratta lo stato curdo come un suo feudo (la ricchezza personale del premier è valutata 2 miliardi di $). Il figlio del premier, Masur Barzani, dirige i servizi segreti, che nel 2001 si sono resi responsabili di eccidi verso l’opposizione politica. I Barzani hanno collegato propri uomini in tutte le cariche importanti. Sono i Barzani ad avere il monopolio delle concessioni edilizie e il Kurdistan iracheno si sta riempiendo di ricchi centri commerciali, edifici pubblici, e abitazioni di lusso recintate per le élite. Non mancano le mostruosità architettoniche tipo la costruzione di un “villaggio inglese”, un “villaggio italiano”, un villaggio americano” ecc., fuori da ogni legame col contesto.

Il divario fra ricchi e poveri sta diventando sempre più ampio e con questo è erosa la solidarietà tribale, che si trasforma in legame mafioso per l’élite al potere.

Privo di raffinerie, nel 2012 il Kurdistan esporta oltre 150mila b/g di petrolio, ma importa contemporaneamente oltre l’80% del combustibile da Iraq, Iran e Turchia.

Anche il clan Talabani partecipa al banchetto che implica la spartizione del controllo ad es. della telefonia mobile e dei centri commerciali (Asia Times 17 giu. 2013)

La nuova costituzione irachena del 2005 stabilisce che il Kurdistan iracheno è un’entità federale riconosciuta dall’Iraq, e riconosce ai curdi una propria lingua un Parlamento nazionale con 111 parlamentari. Diventa Presidente Massoud Barzani, figlio di Mustafa, che sarà rieletto nel 2009. Le tre provincie di Dohuk, Erbil e Sulaymaniah si estendono su di un territorio di circa 40.000 km quadrati con circa 5 milioni di abitanti.

Il governo di Erbil, capoluogo della regione, rivendica il diritto ad estrarre il petrolio dei suoi giacimenti tenendo per sé i proventi della vendita; Baghdad, invece, ha sempre sostenuto che il ricavato di quel petrolio debba andare al governo centrale, che poi ne devolverebbe una quota al Kurdistan. Il governo curdo nel 2006 aggiudica tre concessioni petrolifere a tre compagnie petrolifere minori, rispettivamente canadese, norvegese e turca, sfidando il governo centrale. Ė l’interpretazione curda della nuova Costituzione, prima ancora che entri ufficialmente in vigore. Ognuno è padrone del petrolio che controlla. Lo scontro centralismo/federalismo è innanzitutto scontro sul controllo della rendita petrolifera. I sabotaggi agli oleodotti hanno praticamente chiuso l’oleodotto del Nord verso Ceyhan (Turchia), limitano la capacità di esportazione al Sud, favoriscono quindi il fiorente contrabbando, fonte di finanziamento per le milizie curde.

Nel 2008 il governo curdo propone un referendum per decidere il destino di Kirkuk, l’ONU lo convince a rimandare temendo una reazione militare della Turchia. Kirkuk, rivendicata dai curdi come la loro Gerusalemme, ha forti minoranze arabe e turcomanne.

La Turchia si è posta come “difensore ufficiale dei turcomanni”; inoltre sostiene che le percentuali relative alle varie popolazioni fornita da Barzani è falsa e quindi pretende un censimento e accusa i curdi di un tentativo di pulizia etnica.

Tuttavia a un certo punto Erdogan si rende conto che il Kurdistan è ormai un’entità consolidata e ritiene più vantaggioso trarre profitto dal petrolio curdo che attardarsi a cercare di impedire ai curdi di sfruttarlo. Un numero crescente di multinazionali del petrolio hanno deciso di investire in Kurdistan (considerato più sicuro del Sud dell’Iraq e della regione occidentale irachena, pericolosamente vicina alla Siria). Tra il 2012 e il 2013 viene costruito un nuovo oleodotto «strategico» che ha reso Erbil indipendente da Baghdad: l’oleodotto (che si dipana solo su territorio curdo) unisce la città di Kurmala al confine turco. Qui si connette a un preesistente oleodotto turco che arriva fino alla città di Ceyhan, sulle sponde del Mediterraneo. In questo modo Erbil, contro il parere di Baghdad ma pericolosamente sostenuta dal governo turco, ha iniziato ad esportare il suo petrolio. Nei primi mesi, il greggio curdo veniva pompato fino al porto di Ceyhan dove veniva stipato senza essere messo in vendita. Il 22 maggio 2014, però, il Kurdistan ha rotto gli indugi mettendosi apertamente contro Baghdad: l’oleodotto ha iniziato a lavorare a pieno regime e la prima petroliera, la United Leadership, è salpata verso un porto mediterraneo non meglio identificato, colma di «oro nero». Le autorità di Baghdad hanno reagito chiedendo ai Paesi occidentali, possibili acquirenti, di non comprare quello che considerano «petrolio illegale». Il 10 giugno, anche una seconda petroliera, la United Emblem, viene caricata di greggio curdo e prende il largo. Fra l’altro l’unica società petrolifera che risponde positivamente all’appello di Al Maliki è l’Eni. Manco a dirlo però subito dopo Al Maliki viene defenestrato perché l’ISIS minaccia Baghdad…

In un primo momento, dopo l’occupazione Americana dell’Iraq, i curdi chiedono l’integrazione delle proprie milizie, valutate in 160 mila uomini, nell’esercito iracheno; la proposta è lasciata cadere dal governo centrale, ma i curdi non disarmano le milizie che diventano un vero e proprio esercito nazionale, la vera garanzia di una indipendenza di fatto che dura dall’imposizione delle no-fly zone dopo la guerra del 1991. A sorvegliare il confine settentrionale con l’Iran non è l’esercito “iracheno” ma quello curdo.

L’avanzata dell’ISIS verso Baghdad e la conquista di Mosul, che non trova resistenza alcuna da parte dell’esercito iracheno, nel giugno 2014 offre ai Peshmerga curdi della regione autonoma dell’Iraq del nord (KRG) la piena giustificazione per occupare preventivamente Kirkuk (viceversa i pozzi di petrolio cadrebbero in mano all’ISIS). Massud Barzani chiarisce che i curdi non restituiranno il controllo della città ad al-Maliki, dal momento che il suo esercito ha abbandonato le popolazioni civili al loro destino e che a protezione dei civili restano solo la forza di polizia curda e turkmena. I Peshmerga si sono dislocati anche a nord-est di Mosul e nella provincia di Diyala a nord-est di Baghdad. Nel vertice Nato di Newport si decide di armare i curdi perché ostacolino sul terreno l’avanzata dell’ISIS.

SIRIA

Dal 2012 le tre province del Nord in Siria sono sotto il consolidato controllo dei curdi del Partito dell’Unione Democratica curda (PYD con la loro milizia YPG); Assad ha abbandonato questa area che non poteva difendere al confine di Turchia e Iraq. Ormai completamente autonomi, ben organizzati sotto il profilo militare, ma anche sul piano amministrativo, i leader curdi, a fronte del disfacimento dello stato siriano, parlano apertamente di diritto all’autodeterminazione dei popoli e della creazione di un Kurdistan siriano che instauri rapporti di buon vicinato col Kurdistan iracheno. È noto che i curdi siriani hanno forti legami con il PKK dei curdi di Turchia.

L’ipotesi di un Kurdistan allargato che varchi le antiche frontiere allarma la Turchia, ma trova un sostegno consistente nei circa 100 mila curdi che vivono in Israele (immigrati negli anni ’40 e ’50). Le autorità israeliane sanno e approvano. Anche politici americani, soprattutto repubblicani, cominciano a puntare su questa ipotesi, vedendo nei curdi un interlocutore valido per gli interessi statunitensi in alternativa al caos “arabo”. Israele ha iniziato ad avere già negli anni ’90 intensi rapporti d’affari con l’autonoma nazione curda irachena (KRG). Dal 2011 intensifica i rapporti con i curdi siriani, con fornitura di armi e assistenza di intelligence perché i gruppi come al Nusra e in genere l’opposizione islamica siriana è considerata pericolosa dagli israeliani, che preferiscono di gran lunga il regime di Assad. Gli aiuti israeliani al KRG sono sempre stati forniti in assoluta discrezione, perché Israele non voleva urtare i turchi con cui vigeva un accordo diplomatico molto stretto. Oggi i rapporti fra Israele e Turchia si sono raffreddati, gli stessi turchi intessono rapporti diplomatici e di affari con il KRG, ma sono i curdi, che vogliono mantenere rapporti di affari con le comunità arabe locali e con i paesi del Golfo Persico, a non voler rendere troppo evidente il rapporto con Israele. Ancora più coperti sono gli aiuti israeliani ai curdi iraniani, che sono i più deboli in termini di opposizione al proprio governo.