Le tentazioni atlantiche del governo Renzi

La notizia dell’invio nel 2017 di 140 militari italiani in Lettonia, nell’ambito della spedizione Nato decisa in luglio nel vertice di Varsavia, ha suscitato una polemica abbastanza vivace fra il governo e chi ritiene questo atto una aperta provocazione nei confronti della Russia, foriera di ulteriori danni economici per l’Italia.

A Varsavia si era deciso anche il prolungamento della spedizione in Afghanistan, con una nutrita presenza italiana, senza suscitare una analoga levata di scudi.

In entrambi i casi si evidenzia un coerente allineamento del governo Renzi alle scelte dell’imperialismo statunitense.

Ma nel caso dell’Afghanistan (e dell’Iraq), come ci è già capitato di chiarire in precedenti articoli (cfr.), l’intervento militare italiano corrisponde a coincidenti interessi di grandi e piccoli gruppi italiani legati all’impiantistica, all’industria petrolifera, alla farmaceutica e all’industria militare.

Nel caso dell’intervento Nato in Polonia e Paesi baltici, gli interessi dei gruppi economici italiani non sono coincidenti.[1]

I governi Berlusconi, fra il 2002 e il 2011, hanno segnato l’acme degli accordi commerciali fra grandi gruppi italiani e Russia di Putin, oltre a vedere un forte sviluppo degli investimenti russi in Italia e viceversa. A partire dal 2014 e dalla crisi ucraina, le sanzioni prima e la contrazione del PIL russo poi, ma anche il crollo del prezzo del petrolio, hanno inciso pesantemente sull’export italiano e sugli investimenti.

L’export italiano passa dai 3,8 miliardi del 2002 ai 8,9 miliardi del 2011, ai 10,8 del 2013

Poi il calo a 9,4 nel 2014 e ai 7,1 miliardi del 2015 (fonti dati ICE rielaborati da Istat).

Le perdite si concentrano in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna e riguardano prevalentemente piccole e medie aziende che operano nel tessile-abbigliamento, alimentare, macchinari. Anche se è evidente che le sanzioni non sono l’unica causa del crollo, Lega e Forza Italia cavalcano il malcontento di questi settori.

È ironico frutto del multipolarismo e del tramonto delle ideologie da guerra fredda che a scegliere una linea filo-atlantica sia Renzi e che i più decisi difensori di una linea favorevole ad accordi con la Russia siano i Salvini, i La Russa e i Berlusconi.

La politica estera di ogni stato borghese è la sintesi imperfetta delle esigenze dei gruppi borghesi, sintesi realizzata più o meno efficacemente sulla base dei rapporti di forza delle varie frazioni borghesi.

Nel caso del vertice di Varsavia ha evidentemente pesato in modo signicativo l’interesse del gruppo militar-industriale, rappresentato in primis da Finmeccanica (ristrutturata e centralizzata con un nuovo nome: “Leonardo”).[2] Per Leonardo-Finmeccanica la collaborazione con la Nato è oggi un interesse prevalente, mentre la collaborazione con la Russia (ad es. la joint venture con Sukhoi-Scac) non ha dato gli esiti sperati. La Nato è un utile ombrello degli intrecci di interesse fra Finmeccanica e industria bellica americana, che passa anche per le esercitazioni militari integrate e per la collocazione sul mercato Usa e inglese dei propri prodotti di punta.

Finmeccanica ha già incassato, in questo senso, un dividendo dal governo Renzi, che per il 2016 ha aumentato del 20% le spese militari, per adeguarsi all’obiettivo tendenziale, posto nel vertice Nato 2014 in Galles, di una spesa militare pari al 2% del PIL.

Dopo sei anni di riduzione di questa spesa si è tornati alla ricetta “meno burro più cannoni”. Se qualcuno si aspettava che l’Eni facesse un’azione di lobby a favore di una posizione filo-russa, va ricordato il fallimento di South Stream, e che sul piatto c’è anche la collaborazione Italia-Usa in Medio Oriente e il nuovo interesse Eni a ridurre la dipendenza dal gas russo e sviluppare gli investimenti nel Mediterraneo orientale (giacimenti offshore in Egitto e davanti a Gaza).

Tutta la politica estera italiana in Medio Oriente è schierata in funzione di un accordo con gli Usa. Ed è qui che Finmeccanica ha utilizzato le spedizioni italiane come vetrine commerciali per potenziale il proprio export e l’Eni spera di recuperare terreno. E pozzi da sfruttare. Questa linea il governo Renzi l’ha tenuta ferma anche quando Putin si presentò all’Expo sottolineando i danni inferti dalle sanzioni al nostro export.

Oggi Gentiloni minimizza l’invio di militari in Lettonia sottolineando che è un contingente minimo (140 uomini sui 4-5 mila complessivi, di cui 1000 statunitensi in Polonia, 650 inglesi divisi fra Estonia e Polonia), riaffermando che comunque la linea italiana è di dialogo con la Russia.

L’invio a Est di soldati Nato è stata giustificata come contrappeso al nuovo interventismo russo (Georgia 2008, Ucraina 2014, annessione della Crimea) e all’intensificazione delle esercitazioni militari russe nella regione baltica.

Ma dal punto di vista Usa le motivazioni di questa operazione sono molteplici, sia nei confronti della Russia che nei confronti della Germania. Prosegue infatti la linea di controbilanciare la penetrazione economica tedesca con la presenza di proprie basi o contingenti militari. Essa è comunque un richiamo all’ordine per Germania e vertici della Ue in un momento in cui la Brexit ha visto il rafforzamento dell’asse franco-tedesco e dell’ipotesi di tempi più rapidi per la costruzione dell’esercito europeo, da sempre osteggiato dalla Gran Bretagna, che ora non è più al tavolo europeo per rallentare il processo.

Del resto ai tempi della Guerra Fredda non c’è mai stata una contrapposizione frontale reale fra Urss e Usa, ma entrambi i capofila utilizzavano le alleanze militari internazionali (Nato e Patto di Varsavia) per imporre alle nazioni comprimarie una disciplina di scuderia.

Nel mutato contesto internazionale la Nato è comunque ancora un utile utensile per gli Usa per creare contraddizioni fra i paesi europei, istallandosi alla grande in Polonia coi suoi mille uomini, presentandosi come i “difensori” dei paesi dell’Est europeo, costringendo la Germania ad assumere la direzione di una delle quattro “missioni”, per non lasciare troppo spazio alla Gran Bretagna che ne comanda un’altra, mentre anche la Francia deve abbozzare, salvo sottolineare che il dialogo con Putin è aperto e che la Nato farebbe bene a darsi da fare sul fronte sud e in Libia in particolare. Che la Germania abbia perfettamente recepito il messaggio e prepari le contromisure ce lo dimostra il recente vertice di Berlino in cui Merkel ha giocato non per la prima volta il ruolo di mediatrice fra Putin e Poroshenko sulla crisi ucraina, presente Hollande.

L’enfasi dei media Usa sulla nuova Guerra Fredda con la Russia, quindi, è in parte strumentale e certo Obama gioca la carte del rigore antirusso anche in polemica con le aperture di Trump.

Ma attestare la Nato in Polonia e nel Baltico è sicuramente un avvertimento alla Russia: contro il rischio di un accordo russo-turco per il Mar Nero che aggiri completamente la Nato, contro l’intervento militare russo in Siria e in generale per le sue conseguenze in tutto il Medio Oriente.

Il recente asse che si sta delineando fra Turchia e Russia e la tenuta, per ora, dell’utilizzo da parte americana delle milizie curde in Iraq, cui l’Italia collabora non poco, porta ad accentuare le divergenze tattiche fra Usa e Russia in Medio Oriente. In particolare in Siria la Russia non intende arretrare rispetto alla sua sfera di influenza, anche se questo significa conservare il regime di Assad. Un braccio di ferro che coinvolge l’Iran (con eventuali ripercussioni sul recente accordo Iran-Usa), i gruppi islamici foraggiati dalle monarchie del Golfo e dai Sauditi, con riflessi significativi sulla Nato di cui la Turchia è un membro non di secondo piano.

 

In tutti questi scenari l’Italia è sempre più coinvolta in operazioni militari

E non importa se i toni utilizzati dal governo non sono bellicosi, il basso profilo propagandistico non muta il carattere imperialistico degli interventi italiani.

Per questo denunciamo con forza la politica di guerra portata avanti dal governo Renzi, con qualsiasi potenza sia esso alleato, a fianco degli Usa o a fianco della Russia. Non si può comunque non rilevare che Obama incoraggia Renzi a restare al governo anche in caso di sconfitta al referendum (avrà ragione chi ipotizza che dopo la Brexit gli Usa puntino sull’Italia come nuovo “cavallino” di Troia dentro la UE?).

 

Potrebbe sembrare che, rispetto agli anni ’50, la classe operaia in Italia sia oggi meno esplicitamente arruolata sotto le bandiere del proprio imperialismo. Ma in realtà sono mutati solo i temi utilizzati.

Oggi l’arruolamento del proletariato al carro dell’imperialismo utilizza ideologie come “interveniamo in Libia per bloccare i profughi” “combattiamo i terroristi” (“difendiamo la democrazia” ha perso smalto), ma comunque mira a legittimare conflitti che producono le centinaia di migliaia di morti, di sfollati, di profughi.

 

Il no deve essere esplicito e pressante. Ci associamo perciò alla denuncia della guerra messa al primo posto in diverse prossime manifestazioni, anche a carattere sindacale.

Ma che la parola d’ordine sia contro le guerre di tutti gli imperialismi, a partire dal nostro.

[1] Interesse dell’Italia per la Lettonia è marginale. Si tratta di un paese di 2,3 milioni di abitanti, che importa dall’Italia prevalentemente impianti industriali, macchine utensili e alimentari. Gli investimenti italiani raggiungono i 27,27 milioni di €; sono presenti in Lettoria 950 imprenditori italiani, per lo più microimprese nel settore commerciale, turistico, ristorazione e immobiliare. Tutti sostenuti da Unicredit, unica banca italiana presente.

[2] Finmeccanica è presente in modo significativo con un asset produttivo e commerciale oltre che in Italia, in Gran Bretagna, Usa e Polonia, ha 47 stabilimenti all’estero in 15 paesi e vende i suoi prodotti a 150 paesi nel mondo. Su 47.200 dipendenti quelli impiegati in Italia sono 30 mila, 7.300 in GB, 6 mila negli Usa, 3 mila in Polonia (dati dicembre 2015). All’inizio del 2016 si è trasformata in “one company” concentrata unicamente in Aerospaziale e Difesa.