L’Italia in Kurdistan: finché c’è guerra c’è speranza

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Dopo l’approvazione delle commissioni parlamentari Esteri e Difesa di Camera e Senato, l’Italia si appresta a fornire armi alle forze armate del Kurdistan iracheno. Come faceva notare il ministro della Difesa Roberta Pinotti, “non era necessario un voto ma il governo ha voluto comunque questo passaggio parlamentare”: le scelte politiche le fanno i governi, al più i parlamenti ratificano.

Le forniture belliche saranno uno strumento per contenere l’avanzata dell’IS, per tenersi aperta la strada verso il mercato iracheno, per piazzare armi italiane in una regione che ne ha costantemente bisogno.

Non è certo la prima volta che l’azienda Italia fornisce armi utili ai massacri nella regione: all’epoca della sanguinosissima guerra fra Iran e Iraq l’industria bellica italiana realizzò enormi profitti sulla pelle delle popolazioni del golfo, fornendo armi ad entrambe le forze in campo contemporaneamente. Oggi torna a farlo, ovviamente “a fin di bene”: bisogna salvare le popolazioni locali dalla furia dei criminali integralisti, esattamente come un anno fa bisognava supportare questi stessi criminali nella loro “sacrosanta” lotta contro il sanguinario regime siriano, o come pochi anni prima aveva fornito armi e supporto ai rivoltosi libici che, prima di diventare anch’essi banditi integralisti, combattevano contro un governo a cui la stessa Italia aveva fornito grandi quantitativi d’armi (sempre “a fin di bene”: bisognava aiutare Gheddafi a contenere l’immigrazione clandestina, non importa se poi migliaia di migranti morivano nelle prigioni libiche o nel deserto).

E’ presto per dire quanto le forniture belliche italiane possano essere determinanti. E’ sicuro il carattere pretestuoso delle motivazioni: finché i massacri e la pulizia etnica riguardavano i 500 mila curdi e turkmeni di Musul nessuno era intervenuto, ora che l’avanzata dell’IS minaccia le sedi delle multinazionali occidentali e i loro investimenti, l’Europa e gli Stati Uniti devono mobilitarsi, ovviamente “per motivi umanitari”.

Intanto, sia attraverso forniture belliche, sia con un intervento militare diretto, l’Europa e gli USA supportano non solo il governo regionale curdo, di fatto uno stato autonomo, ma anche il governo centrale di Baghdad trovandosi così di fatto al fianco di Iran e Siria, i “cattivi” di ieri. A quando il prossimo rivolgimento di fronte?

In realtà intervenire nelle guerre del Golfo Persico aiutando la parte più debole per poi avversarla quando diventa più forte non è segno di miopia politica o di improvvisazione, ma risponde a un preciso obbiettivo: impedire l’emergere di una potenza egemone in una regione strategica per le forniture energetiche. Per questo tutte le potenze hanno spalleggiato ora l’Iraq, ora l’Iran, ora l’Arabia Saudita, e oggi il governo filoiraniano di Baghdad. Uno stato di guerra permanente permette loro di intervenire anche militarmente a proprio vantaggio. In altre parole, le potenze mondiali vogliono la guerra e l’instabilità politica.

Finché nel Golfo c’è guerra c’è speranza. E’ la logica conseguenza di un sistema economico basato sullo sfruttamento e sulla competizione economica, che produce inevitabilmente scontri militari e guerre di rapina. Solo rovesciando tale sistema l’umanità potrà liberarsi delle guerre oltre che dello sfruttamento.