L’Italia preme per un intervento militare in Libia. Scendiamo in piazza contro le guerre dell’imperialismo!

Libia-Eni

Il governo italiano dopo essersi dichiarato pronto a guidare una spedizione militare in Libia contro l’avanzare dell’ISIS, e aver chiesto di mettersi alla testa di un esercito europeo con Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, oggi prende tempo, probabilmente in attesa delle reazioni internazionali.
Dopo lo smacco del 2011, quando l’intervento franco-britannico-americano ruppe le uova nel paniere della collaborazione (di Prodi quanto Berlusconi) con Gheddafi, Renzi non vuole perdere l’occasione ISIS per recuperare il predominio in Libia, a un secolo dalla prima invasione coloniale. L’ISIS sua volta ha stigmatizzato l'”Italia crociata” alla testa delle “nazioni atee” nel tentativo di polarizzare un nuovo nazionalismo panarabo-islamico contro le vecchie potenze imperialiste.
Come comunisti ci opponiamo con decisione all’intervento italiano
Riteniamo l’ISIS reazionario nell’ideologia come nella pratica, borghese-parassitario rentier come collocazione di classe, Ma l’intervento italiano, a difesa degli interessi di ENI e grandi gruppi economici e finanziari italiani, non sarebbe meno reazionario e oppressivo.
Alla logica della guerra imperialista contrapponiamo l’unione tra i proletari italiani, arabi, africani per la lotta di classe contro gli oppressori borghesi e imperialisti.
Mobilitiamoci contro l’intervento del nostro imperialismo!

Nel 2011 sull’onda della primavera araba che aveva contagiato anche la Libia, l’imperialismo francese e statunitense scatenarono l’attacco al paese con l’obiettivo dichiarato di proteggere la popolazione civile dalle ritorsioni del “tiranno” Gheddafi. L’obiettivo non dichiarato ma reale era in primis di scalzare la posizione predominante dell’Italia nel gas, nel petrolio e nel settore dei lavori pubblici, ma anche di espellere russi e cinesi diventati concorrenti pericolosi. L’iniziativa ebbe subito l’entusiastico sostegno delle monarchie del Golfo, a partire dal Qatar, interessato alle enormi riserve di gas della Libia, ma comunque complessivamente ben liete di eliminare un concorrente di peso nel settore energetico. L’allora governo Berlusconi – Maroni, incalzato dal presidente Napolitano, si allineò all’intervento per cercare di conservare il controllo di un’area che dalla metà dell’800 l’imperialismo italiano ha visto come “cortile di casa”.

L’intervento militare del 2011 ha avuto effetti devastanti: caduto Gheddafi, la Libia si è disintegrata, è iniziata una guerra intestina fra gruppi tribali, “laici” contro islamici, seguaci dei Fratelli Mussulmani contro salafiti integralisti. Una guerra in cui i paesi del Golfo hanno patrocinato gli uni contro gli altri (vedi da ultimo l’episodio dei bombardamenti di agosto 2014) in una sorta di guerra interna per procura. Fiumi di armi hanno dilagato nel paese, mentre centinaia di migliaia di lavoratori africani e asiatici erano costretti a lasciare la Libia, dove lavoravano. Nazioni africane come il Ciad, il Mali, sono state a loro volta destabilizzate, con una serie di guerre, su cui la Francia è pesantemente intervenuta, con l’appoggio attivo degli Usa. In Libia, paese dove era diffuso un tenore di vita invidiabile per la regione, oggi buona parte della popolazione è a rischio fame, non funzionano più scuole e ospedali, manca l’acqua e la luce elettrica. I gruppi armati spadroneggiano, arrestano arbitrariamente, vessano e taglieggiano gli emigrati, reclusi in piccole prigioni per lo più private, mandati a morire sui gommoni. Certo le imprese russe e cinesi sono state espulse, ma il caos dilagante non ha permesso a europei e statunitensi di godersi i nuovi spazi economici conquistati.

Questo è stato il risultato dell’intervento “umanitario” e non c’è motivo di pensare che un prossimo intervento produrrà qualcosa di meglio.
Non dobbiamo stancarci di denunciare questo fatto perché oggi è partita una campagna esplicita per preparare gli italiani a una nuova guerra, questa volta non dal cielo, ma anche direttamente sul terreno in Libia.

L’Italia, l’Eni in primo luogo, meglio attrezzata perché presente nel paese da più lungo tempo, ha resistito fino a qualche giorno fa, tenendo aperti i pozzi e l’ambasciata di Tripoli; nel frattempo un centinaio di imprese grandi e piccole italiane se ne è andata, con un miliardo di euro di crediti non riscossi. Il 14 febbraio l’Eni ha ritirato i tecnici e i lavoratori italiani e l’ambasciata è stata chiusa.
La nostra stampa, ma non quella straniera, ha dato grande rilievo al fatto che l’ISIS, lo Stato islamico che sembrava confinato nel conflitto siriano e iracheno, ha conquistato Sirte “a 200 chilometri dalle nostre coste”.
Gentiloni, ministro degli esteri italiano, Roberta Pinotti per la Difesa e Renzi hanno proposto un intervento di peacekeeping, naturalmente sotto l’egida dell’Onu, in cui l’Italia abbia un ruolo preminente.

Non è un piano scaturito all’improvviso, nell’urgenza seguita all’arrivo ufficiale dell’ISIS in Libia.
E non è nemmeno una manovra diversiva per distrarre l’attenzione dalla crisi, è il governo che agisce come “comitato d’affari” della borghesia nostrana.
Lo si prepara da tempo. Il grande capitale italiano, ma anche le piccole medie imprese del Nord-Est hanno degli interessi oggettivi da difendere in Libia. L’Italia del “semestre europeo”, l’Italia nel corso della crisi ucraina, dove pure ha grossi interessi oggettivi da difendere, non è riuscita a svolgere un ruolo di primo piano. Ma in Libia si ritiene di avere delle carte in più da giocare.
Ce lo spiegano il Sole 24 ore e Analisi di Difesa, organo che spesso veicola l’opinione delle alte sfere dell’esercito italiano. Entrambi nettamente interventisti. Ma con alcuni distinguo.
Si deve scegliere l’alleato giusto sul terreno, con Tobruk (quindi col “legittimo” premier Al Thani e col “laico” generale Haftar) o con Tripoli (e quindi con gli islamici moderati di “Alba della Libia”). Analisi di Difesa preme per l’alleanza con Tobruk e consiglia di non aspettare l’Onu e gli “alleati regionali”. L’Italia può costruire un asse suo con i paesi del Golfo e africani. E qui è intervenuto un fatto nuovo: il Qatar, prima in netto contrasto con Sauditi ed Emirati, ha fatto pace con loro e con l’Egitto, per affrontare “ISIS”, che prima Sauditi , statunitensi, europei hanno finanziato e che oggi si è rivelata una scheggia impazzita. Quindi l’Italia può uscire dall’immobilismo perché non rischia più di perdere le lucrose vendite di armi alle monarchie del Golfo, ora compatte, né di mettere a rischio i loro investimenti in Italia. E costoro stanno con Tobruk .
Solo la Turchia sta con Tripoli. Anzi è probabile che Erdogan foraggi e protegga ancora l’ISIS (parola delle alte sfere militari turche). E’ vero che anche la Turchia è un partner commerciale importante dell’Italia, ma in una guerra non si può avere tutti amici.
Da mesi Egitto, Arabia saudita e paesi africani chiedono a gran voce l’intervento dell’Italia in Libia. Gli africani chiedendo specificamente come mediatore Romano Prodi. I paesi arabi suggerendo l’alleanza con la Francia (al Arabiya), che ha appena venduto i Rafale all’Egitto ed è un grande fornitore di armi alle monarchie del Golfo. A dicembre 2014 la Francia aveva minacciato di intervenire dal Ciad nel sud della Libia, poi ci aveva ripensato. La Francia, ben più abituata a interventi militari, non lascerà facilmente che l’Italia intervenga da sola, per i grossi interessi che ha in Africa.
L’importante, sottolinea il Sole, è non combattere una guerra degli altri, cioè farsi utilizzare da uno o degli altri contendenti in campo per interessi che non sono “i nostri”. E il Sole aggiunge, pensando all’atteggiamento non proprio guerresco dell’italiano medio, che “l’ISIS è un mostro, ma non deve farci paura”.
A monte di tutto va considerato il ruolo internazionale che la crisi ha svolto nel crearsi di questa situazione: da un lato le migliaia di giovani arabi e non, disoccupati o sradicati dal loro contesto sociale a causa delle guerre, che hanno trovato nell’ISIS e nelle sue omologhe la soluzione al problema della sopravvivenza, dall’altro ha aumentato la tendenza dei capitalismi maturi o giovani a trovare nella produzione vendita e consumo di armi la soluzione ai problemi di mercato.
Questa è la realtà. Quello che in tutte le salse ci verrà detto è che “l’Italia non può abdicare alle sue responsabilità nel Mediterraneo”, che dobbiamo impedire ancora tragedie come i 300 profughi morti da pochissimo nel Mediterraneo ( meglio che muoiano nelle prigioni libiche lontano dalle telecamere), che l’ISIS porterà il terrorismo nelle nostre case.
Come abbiamo detto un possibile intervento in Libia è in preparazione da tempo.
Quello di cui il governo e il capitale italiano hanno bisogno è di preparare il terreno nell’opinione pubblica. Dobbiamo perciò aspettarci una campagna di stampa su questo.
La risposta non può essere “purché ci sia l’approvazione dell’Onu” come certa sinistra parlamentare agita. Chiediamo la complicità degli altri predoni internazionali, quelli responsabili di guerre “umanitarie” sanguinosissime che si sono lasciate dietro solo morte e rovine, per coprire le mire dell’imperialismo guerrafondaio di casa nostra?
Evidentemente no!

E’ urgente una campagna capillare di informazione e di agitazione fra i lavoratori, i giovani denunciando i veri obiettivi dell’ennesimo governo che attacca le condizioni di vita dei proletari in nome del rigore dei conti mentre non esita a dilapidare uomini, mezzi e miliardi di euro in spese militari in nome degli interessi della borghesia imperialista.
Occorre riportare alla luce del sole e nelle piazze la lotta all’imperialismo che è in casa nostra!