L’ospedale “corazzato” per la guerra di Libia

200 parà per guardare le spalle a 100 medici e infermieri (tutti militari). Dove? A Misurata, in Libia. Quando? Il governo italiano vara la spedizione il giorno dopo che le truppe del generale Haftar hanno preso (una volta tanto non col ferro e col fuoco, ma con le bustarelle) quattro porti petroliferi…

Che si tratti di una missione umanitaria nessuno la beve. L’Italia entra in guerra. I miliziani feriti da curare, così come la benedizione ONU al governo di Sarraj, sono solo la foglia di fico che copre gli interessi italiani, a partire da quelli dell’ENI che è la più grossa multinazionale in Libia.

Una nuova spedizione imperialista dell’Italia, per assicurarsi la sua quota di petrolio e gas libico contro gli alleati-rivali Francia in testa, sulla pelle della popolazione libica e soprattutto delle centinaia di migliaia di migranti che attraversano la Libia, contro cui occorre risvegliare le coscienze e opporsi nelle piazze, ponendo fine a una crescente assuefazione, indifferentismo, opportunismo.

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Scrivevamo a fine agosto (cfr. Un’estate di sangue e di sbarchi) che la campagna di stampa orchestrata da Analisi di Difesa, Sole 24ore ecc. sulla presenza di terroristi fra i disperati dei barconi, al di là della sua veridicità o meno, era un classico modo di preparare l’opinione pubblica a un intervento ufficiale in Libia. Ufficiale per distinguerlo dall’intervento già in corso, in modo strisciante e ufficioso, da parte di contingenti “di intelligence” francesi, italiani, inglesi e statunitensi.

Negli ultimi giorni si sono aggiunte altre notizie, come quella dei pirati libici che hanno agito indisturbati ai danni di una nave di Médicins Sans Frontières, nonostante la presenza di ben quattro flotte presenti nel Mediterraneo per garantirne la sicurezza, o della chiusura inevitabile dell’ospedale di Emergency minacciato dalla polizia locale di Bengasi.

E alla fine il governo Renzi è intervenuto. Il detonatore contingente è stata la notizia che i porti petroliferi di Zueitina, Brega, Sidra e Ras Lanuf sono caduti nelle mani delle truppe del generale Haftar, quello che tiene in ostaggio il governo di Tobruk, quello posto a est, col pieno appoggio di Egitto ed Arabia Saudita (e Francia).

Haftar ha approfittato del fatto che le truppe di Misurata, braccio armato del governo di Tripoli, erano impegnatissime a strappare Sirte all’ISIS; ha quindi corrotto una parte della milizia privata guidata da Ibrahim Jadhran, l’improbabile campione dell’indipendenza cirenaica, cui Tripoli fin dal 2012 aveva affidato la sorveglianza di questi terminal. Fatto sta che questi miliziani hanno ceduto senza sparare un colpo il controllo dei porti.

A parte l’ovvio interesse a controllare il petrolio, Haftar ha anche uno scopo politico e cioè mettere in difficoltà gli affari di Eni per costringere Roma a trattare anche con lui, e non solo col governo Sarraj, quello di Tripoli, posto a ovest, che gode del cosiddetto “sostegno internazionale” ufficiale dell’ONU.

La risposta italiana è militare, ma in modo ambiguo. Dopo l’invio il primo settembre di 5 tonnellate di medicinali e supporti sanitari a Misurata, si decide di montare presso l’aeroporto della stessa città un ospedale militare da campo, con 100 medici e infermiere. Difesi, “ovviamente”, da 200 paracadutisti della Folgore…

Tutti sappiamo che di questi tempi gli ospedali sono stati continuamente obiettivo di feroci attacchi, ma a dire il vero da parte degli “aerei amici” di Usa e Russia. Gentiloni, da sempre fautore dell’intervento afferma che l’intervento italiano è volto a consolidare i processi di stabilizzazione (sic), mentre Pinotti scopre che i duemila feriti libici di Misurata è meglio curarli lì invece che trasportarli al Celio di Roma, come fatto finora. E comunque “dobbiamo essere vicini a questi valorosi combattenti contro il terrorismo” – e già che ci siamo controlleremo il flusso dei profughi.

Analisi di Difesa, che non è certo un foglio pacifista, disapprova: mettiamo “centinaia di militari italiani in postazioni fisse al rischio di rappresaglie terroristiche, incursioni, bombardamenti”, “saranno l’unico bersaglio fisso pagante a disposizione di miliziani e terroristi suicidi dell’Isis che in Libia volessero colpire i “crociati”, come l’Isis definisce i militari occidentali. Se poi Haftar estendesse il suo appetito a Sirte, che in più appartiene alla sua tribù, i Ferjani, i 300 italiani si troverebbero al centro di una nuova guerra civile. Al Jazeera, qatariota e vicina al governo di Tripoli, denuncia che “a combattere al fianco delle truppe di Khalifa Haftar ci sono miliziani sudanesi e ciadiani”, oltre a contingenti di forze egiziane e degli Emirati Arabi Uniti.

Non vorremmo essere cinici. Forse i 200 militari “sanitari” di Misurata non sono messi lì come i soldati di Nassyria per diventare, da morti, il pretesto necessario per compattare l’Italia dietro i militari. Forse si pensa di usare le tende da campo per ospitare una operazione di astuzia fiorentina, cioè una mediazione tutta italiana fra Tripoli e Tobruk.

Il sito inglese di intelligence militare Jane’s ritiene, invece, che l’azione di Haftar sia una spia del fatto che, se si riuscisse a eliminare l’Isis dalla Libia, aumenterebbero i motivi di disaccordo fra i due governi; si sta cioè riaprendo una stagione di guerre fra le milizie per il controllo del petrolio, alimentata dalle monarchie del Golfo ma anche dagli altri membri Opec che non vogliono che gli idrocarburi libici tornino sul mercato internazionale.

L’operazione in sordina del governo italiano si inserisce in un quadro internazionale di conflitti interimperialistici che non ci si può illudere di aggirare con operazioni di cosmesi “sanitaria”.

Sta a noi denunciarla per quello che è, una rischiosa operazione militare con effetti potenzialmente rovinosi, contro cui ogni militante comunista deve schierarsi senza se e senza ma.