MÉXICO, appunti sul Covid-19

Nonostante la diffusione del contagio da Sars-CoV-2 nella repubblica messicana non abbia raggiunto, allo stato attuale, numeri impressionanti – 9501 casi positivi confermati e 857 decessi alla data del 21 aprile, dati non paragonabili all’Italia o ai vicini USA – il Messico è il paese latinoamericano col tasso più alto di decessi per covid-19: 9,02%, dati OMS.

Secondo l’FMI il governo di López Obrador ha destinato solo l’equivalente dello 0,7% del PIL messicano (158 miliardi di pesos) ai piani di protezione sociale e attivazione economica. Per fare un raffronto il Perù ha investito il 9,34%; il Cile il 4,7% (entrambi questi Paesi hanno governi di destra). Persino il Brasile dell’estremista di destra Bolsonaro è molto al di sopra del Messico, al 6,5% (122 milioni di dollari).

Il virus ha fatto la sua comparsa in una realtà, quella messicana, già caratterizzata da fortissimi squilibri sociali: 32 milioni di lavoratori non arrivano ad assicurarsi i sobri alimenti della cosiddetta canasta básica (paniere di base) per due persone (circa 8000 pesos, un autonomo su due e tre salariati su cinque); 34 milioni non hanno accesso al sistema di seguridad social (tutela in caso di infortuni, invalidità, morte, ecc.); 18 milioni lavorano senza contratto; 28 milioni sono in attesa di occupazione o lavorano in nero (i cosiddetti informales).

Il peso messicano si è svalutato del 23% rispetto al dollaro ed è ai minimi storici. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT) stima che a causa del virus verranno soppressi da un minimo di 1,7 milioni ad un massimo di 7,4 milioni di posti di lavoro. I settori più colpiti saranno quelli del turismo (giro d’affari annuo di 30 milioni di dollari). Cifre lontane da quelle statunitensi (47 milioni, in proporzione il Messico dovrebbe perderne 18 milioni), ma, oltre al fatto che la previsione OIT non tiene conto delle dimensioni medio-piccole di moltissime maquiladoras, che potrebbero far crescere esponenzialmente le cifre dei senza-lavoro, vanno considerati due fattori legati alla situazione statunitense: che crollerebbero le rimesse inviate in Messico dagli emigrati negli USA che a loro volta verranno licenziati, e che crollerebbero le esportazioni dell’industria manifatturiera messicana, auto e aeronautica su tutte, con ripercussioni assai pesanti nelle zone industriali a ridosso della frontiera (Tijuana, Ciudad Juárez, Reynosa, Matamoros, Monterrey) e centrali (Guanajuato, Jalisco, Querétaro, México DF, Puebla).

Nelle maquiladoras, dove storicamente le condizioni di lavoro sono difficili e le libertà sindacali compromesse, si muore di Covid-19. A Ciudad Juárez nelle 160 maquiladoras più grandi lavorano più di 300mila operai, e dopo la comparsa del virus la produzione è continuata anche in quelle “non essenziali”, causando la morte di almeno 13 operai. Susana Prieto, avvocatessa e difensor(a) dei diritti dei lavoratori: “Ai padroni del capitale non interessa la vita dei propri operai, perché sanno che arrivano sempre più generazioni di manodopera a buon mercato” (dichiarazione alla AFP).

La voce del padrone: “si sta incolpando l’industria quando qui il nemico è il virus, non l’industria”. “In poco tempo chiuderanno tutte per la psicosi che si è creata e il nervosismo tra gli addetti [che] semplicemente non vogliono lavorare” (Pedro Chavira, rappresentante a Ciudad Juárez del Consejo Nacional de la Industria Maquiladora, dichiarazione alla AFP).

Ha fatto notizia la mobilitazione dei cartelli di narcotrafficanti nelle varie zone da loro controllate, dove si vedono “volontari” consegnare in tutta tranquillità alla popolazione povera pacchi di generi alimentari, con tanto di insegne e marchi dei gruppi, da los Zetas (Xalapa) al Cártel del Golfo (Ciudad Victoria e Matamoros) al Cártel Jalisco Nueva Generación (Jalisco), alla famiglia Michoacana.

In campo estrattivo, una delle risorse basiche del paese, il colosso statale Pemex ha agito in controtendenza. Mentre il prezzo del greggio crollava ai minimi storici e in tutto il mondo i colossi petroliferi correvano ai ripari riducendo le quote di produzione, Pemex ha confermato le quote di estrazione rilanciando nuovi progetti. Le agenzie che calcolano i livelli di rischio, Fitch Ratings e Moody’s, hanno declassato i titoli di Pemex, il cui debito supera i 106 miliardi di dollari.

Nel frattempo la catena di violenze che caratterizza il paese non si ferma, facendo ben più vittime del Sars-CoV-2. Solo nello scorso mese di marzo si sono registrati 3000 omicidi, di cui 78 femminicidi.

Nel mezzo il dramma dei migranti centroamericani, il cui numero nei centri di detenzione a ridosso della frontiera con gli USA continua a diminuire per i respingimenti, e che affollano, in condizioni assai precarie di sicurezza, i centri di accoglienza nel paese.

Degno di nota il dibattito in corso tra intellettuali della “sinistra”, ripreso da vari siti e periodici messicani. L’argentino Atilio Borón ha pubblicato un articolo contrastando la tesi di Slavoj Zizek secondo cui il capitalismo con la pandemia ha ricevuto un KO fulminante “alla Búfalo Bill”; l’argentino ribatte citando Lenin: “il capitalismo non crollerà se non esistono le forze sociali e politiche che lo facciano crollare”. Forze rivoluzionarie che al momento non danno particolari segni di vita né in Europa, né negli USA né in America Latina”.

Per lo statunitense Noam Chomsky la pandemia attuale rappresenta “un colossale fallimento del mercato e delle politiche neoliberali che hanno ingigantito i profondi problemi socioeconomici che viviamo”. Per superare l’isolamento sociale occorre secondo Chomsky ricreare i legami sociali in qualsiasi modo si possa fare, di qualsiasi tipo che possa aiutare la gente bisognosa”.