Miseria, disoccupazione, emigrazione. I proletari dell’Italia meridionale stritolati dalla crisi capitalistica

Apprendisti con esperienza

La tanto attesa ripresa economica, dell’arrivo della quale si mostravano sicuri analisti economici, banchieri e uomini di governo non si vede neanche col lanternino. I dati ufficiali, al contrario, mettono in evidenza una brusca frenata della Germania e una stagnazione senza speranza in Francia, vale a dire nei due stati più importanti del capitalismo europeo. L’economia italiana arranca pesantemente e se qualche minimo risultato si vede riguarda principalmente quelle imprese del centro nord che sono riuscite in qualche modo ad agganciare la domanda estera. In tale contesto l’ottimismo ostentato dal buffone Renzi è assolutamente fuori luogo: tutti i dati indicano che il capitalismo italiano è in affanno ma, nel disinteresse totale della stampa “che conta”, non illuminato dai riflettori dei servizi televisivi, fuori dal “dibattito politico e parlamentare”, si sta verificando un fenomeno di portata storica, il collasso definitivo della struttura dell’economia dell’Italia meridionale. La peggiore crisi capitalistica del dopoguerra ha avuto tra i suoi effetti quello di determinare un arretramento pesantissimo del sud, aumentando in maniera esponenziale la sua distanza dal resto dell’Italia. Ciò è reso palese dai dati pubblicati nell’ultimo rapporto SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno).

Il rapporto Svimez riporta che nel periodo di crisi l’economia meridionale è calata di circa il doppio (-13,3%) rispetto al centro-nord, al punto da generare una desertificazione industriale e una assoluta incapacità di creare posti di lavoro e reddito. Per il sesto anno consecutivo il PIL dell’Italia meridionale ha avuto un andamento negativo e nel 2013 è calato del 3,5%, ancora di più del calo dell’anno precedente (-3,2%), mentre nel centro-nord è calato di 1,4%. Gli investimenti di lungo periodo negli anni di crisi sono diminuiti al sud del 13% (nel centro-nord -7%). Nel 2013 gli investimenti fissi lordi hanno segnato una caduta maggiore al sud (-5,2%) rispetto al centro-nord (-4,6%). In particolare nell’industria c’è stato un vero e proprio tracollo: in essa gli investimenti al sud sono calati,dal 2008 al 2013, della stratosferica percentuale del 53,4% ossia più del doppio rispetto al calo, comunque pesantissimo, del centro nord (-24,6). Gli investimenti nei servizi collegati all’industria sono calati del 35% al sud contro il -23% del centro-nord. Pesantissimo anche il calo nell’agricoltura (-44,6% al sud, quasi il triplo del calo del centro-nord che ha avuto -14,5%). Nelle costruzioni il calo cumulato degli investimenti è del 26,7% (a nord il calo è superiore,-38,4%). Gli investimenti pubblici sono precipitati tanto che al sud si spende un quinto di quanto si faceva negli anni settanta mentre al nord si mantengono i livelli di spesa di quaranta anni fa.

Disastrosi sono anche i dati riguardanti i consumi: negli anni di crisi la caduta cumulata dei consumi delle famiglie del sud è stata del 12,7%, oltre il doppio di quella del resto dell’Italia (-5,7%). Andando nel dettaglio, negli anni di crisi al sud i consumi alimentari sono caduti del 14,6% (del 10,7% al centro-nord); per calzature e vestiario si è arrivati addirittura a un calo del 23,7% (-13,8% nel centro-nord); significativo è anche il calo della spesa per beni e servizi che racchiude i servizi per la cura della persona e le spese per l’istruzione, ebbene per questo genere di consumi troviamo-16,2% al sud e -5,4% al centro-nord.

Devastante è il quadro della disoccupazione, già piaga endemica dell’Italia meridionale sin dalla formazione dello Stato italiano. Nel 2013 in Italia si sono persi ben 478.000 posti di lavoro di cui 282.000 al sud. Negli anni di crisi 2008-2013 il sud registra una caduta dell’occupazione del 9% (-2,4% il centro-nord). A questo proposito i ricercatori Svimez mettono in evidenza che al sud, pur essendo presente appena il 26% degli occupati italiani si concentra il 60% delle perdite determinate dalla crisi. Con le più recenti perdite di posti di lavoro, la soglia degli occupati scende al sud al livello del 1977 (anno da cui sono disponibili le serie storiche di dati). Il tasso ufficiale di disoccupazione nel 2013 è stato al sud del 19,7% e del 9,1% al centro-nord. Più che il dato ufficiale della disoccupazione bisogna, però, prendere in considerazione la situazione delle componenti femminili e giovanili del mercato del lavoro per avere un’idea chiara di quanto sia drammatica la situazione: le regioni del sud registrano tassi di attività femminile che arrivano al 38% in Puglia, al 37% in Calabria, al 35% in Sicilia. Il bilancio della crisi per quanto riguarda l’occupazione femminile al sud, non va tanto visto in termini di perdita di posti di lavoro (il calo degli occupati è principalmente maschile) quanto come pressappoco impossibile accesso al lavoro. Per quanto riguarda la componente giovanile, le già scarsissime possibilità dei giovani meridionali di trovare occupazione nella loro terra d’origine si sono ulteriormente ridotte (gli occupati tra i 15 e i 34 anni diminuiscono del 29,3% al sud e del 23,8% al centro-nord). Nel 2013, inoltre, si è accentuata la perdita di occupazione tra chi svolgeva un lavoro precario: il 16,4% di coloro che nel primo trimestre del 2012 avevano un lavoro “atipico”, dopo un anno si trova nella condizione di disoccupato o forza lavoro potenziale (12,8% nel centro nord). Nel periodo pre-crisi la percentuale era del 10% circa, cifra già di per sé alta e che dimostra come sia una spudorata menzogna quella, elargita in tutte le salse da capitalisti, economisti, politicanti e pennivendoli, che l’introduzione di sempre più massicce dosi di flessibilità serva ad aumentare l’occupazione.

Non può stupire che con questa situazione economica aumentino sia la povertà che l’emigrazione di massa. Per quanto riguarda la prima, al sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute nel periodo 2007-2013 di oltre due volte e mezza (da 443 a un milione e 14.000, solo nell’ultimo anno del 40%). A essere esposte al rischio povertà sono soprattutto le famiglie monoreddito, quelle numerose e quelle di anziani soli. Per quanto riguarda l’emigrazione tra il 2001 e il 2013 sono emigrati dal sud verso il centro-nord oltre 1.559.100 persone a fronte di un rientro di 708.000 unità, con un saldo migratorio netto di ben 708.000 unità (494.000 giovani di cui 188.000 laureati). Come si può notare, il fenomeno non è ascrivibile solo agli anni di crisi ma ovviamente la crisi ha fatto in modo che la dinamica emigratoria si sia accentuata al punto tale da generare pesantissimi contraccolpi demografici, data la progressiva rarefazione delle giovani generazioni meridionali.

Il sud è quindi affondato. Come si è arrivati fino a questo punto? La spiegazione non può prescindere dalla tara di origine del particolare sviluppo storico del capitalismo italiano che, sin dall’epoca della costituzione dello stato nazionale, ha utilizzato le regioni del sud come una colonia interna da cui succhiare risorse. Il mercato “nazionale”è stato costituito e allargato sulla rovina della struttura produttiva e finanziaria dell’Italia meridionale che, contrariamente a quanto affermato da studiosi in mala fede, prima dell’unificazione non era affatto“feudale” ma si stava avviando sulla via dello sviluppo capitalistico autonomo. Dopo aver distrutto l’economia del sud (mai va dimenticato, con la attiva partecipazione di quella che il primo leader del Partito Comunista d’Italia, il napoletano Amadeo Bordiga ha definito la spregevole classe dominante meridionale) la borghesia tricolore ne ha utilizzato le masse disperate di contadini rovinati, come serbatoio illimitato di manodopera ”dequalificata” da cui attingere. In maniera permanente. Nel secondo dopoguerra la falsa coscienza meridionalista della borghesia italiana ha partorito i piani di intervento straordinario, la Cassa per il Mezzogiorno, le partecipazioni statali, i finanziamenti comunitari di progetti economici e imprenditoriali. Tutti questi miliardi elargiti non sono serviti a creare un vero sviluppo economico. Al contrario tutto ciò ha fornito ghiotta occasione di ulteriore arricchimento a tutti i ceti parassitari, del nord e del sud, che intascavano i fondi “generosamente” concessi dallo Stato (molto spesso chiudendo dopo poco tempo l’attività avviata). Il tutto, naturalmente, con la dovuta cresta per il lurido ceto politico-amministrativo meridionale, vera e propria piaga sociale per le popolazioni locali. Finita l’epoca dell’intervento straordinario, chiusa l’epoca delle famose “cattedrali nel deserto”, chiusi i rubinetti della spesa pubblica (o, per meglio dire, rinsecchiti, perché per amici e amici degli amici, finanziamenti ce ne sono sempre stati) si è aperta la strada della formazione di un capitale “autoctono” con l’inserimento a pieno titolo della borghesia mafiosa tra le frazioni egemoni della classe dominante, non solo meridionale, con il solito tornaconto per la solita borghesia politico amministrativa. Il tutto, come al solito, a danno dei proletari del mezzogiorno per i quali le uniche alternative erano o la strada dell’emigrazione (in realtà mai passata di moda) o la schiavitù salariale in loco con condizioni capestro e salari di gran lunga inferiori a quelli minimi contrattuali (non fanno testo le poche grandi imprese rimaste dopo la fine del sistema delle partecipazioni statali). In questo contesto di persistente sottosviluppo la crisi ha fatto il resto. Non va dimenticato mai che le crisi economiche sono un fenomeno strutturale del capitalismo, non esiste capitalismo senza crisi economiche, più o meno devastanti. Certamente la crisi ha contribuito ad affondare il sud, nel senso che essa agendo su una struttura economica particolarmente fragile che già aveva in sé caratteristiche di sottosviluppo accentuate, ha determinato l’impossibilità per la borghesia meridionale di essere attrezzata per parare alla meno peggio i pesantissimi colpi sferrati dalla crisi, come sta tentando di fare la borghesia del centro-nord. Solo un massiccio interventismo statale potrebbe permettere all’economia meridionale di riprendersi, almeno nel giro di qualche anno, ma questo è proprio quello che lo Stato oggi non può (causa l’enorme debito pubblico) e non vuole fare (non tanto perché i governi siano stupidamente attaccati al “credo”neoliberista, come pensano molti a sinistra, quanto perché nel capitalismo odierno domina e non può che dominare la frazione di borghesia espressione del capitale finanziario). Se si riguardano i dati sugli investimenti pubblici riportati sopra si vede come lungi dal cercare di tamponare la situazione, la politica economica dello Stato italiano ha aggravato la condizione dell’economia meridionale contribuendo a rendere impossibile che la struttura economica reggesse l’urto di una crisi gravissima come quella attuale.

Ovviamente le anime candide invocano “riforme”, politiche finalizzate allo ”sviluppo”, interventi straordinari etc (i ricercatori Svimez non si sottraggono a questa litania). Come si fa ancora a credere dopo un secolo e mezzo che lo Stato capitalistico italiano sia in grado di far uscire il sud dal sottosviluppo? Come si fa a credere a sessant’anni dalla politica di intervento speciale che essa possa servire a risolvere problemi endemici come la disoccupazione, la povertà, la cronica mancanza di servizi essenziali? I borghesi vorrebbero che noi credessimo alle favole! In realtà così come le crisi sono un dato strutturale del capitalismo, anche il suo sviluppo diseguale è connaturato all’esistenza di questo modo di produzione. Dove c’è sviluppo di fronte ci deve essere necessariamente sottosviluppo e solo le circostanze della storia specifica di un particolare paese fanno sì che lo sviluppo di un’area cresca sulla base del sottosviluppo di aree esterne a quello Stato o interne (o con una combinazione delle due). Pretendere che il capitalismo si sviluppi senza “lasciare indietro”enormi aree territoriali è come volere l’inverno senza freddo. Solo la rivoluzione proletaria potrà eliminare a un tempo le crisi e il sottosviluppo perché realizzando un’economia e una società non basate sul profitto e sul mercato, creerà le condizioni perché la produzione possa essere indirizzata esclusivamente per la soddisfazione dei bisogni degli esseri umani. Pertanto il sud italiano solo per mezzo della rivoluzione proletaria potrà uscire dalla macchina infernale del sottosviluppo endemico. Scriveva il summenzionato Bordiga: “Il problema del mezzogiorno è un problema di classe, un problema di abbattimento dello Stato italiano, un problema di inquadramento di tutte le forze lavoratrici in Italia e sul piano anticostituzionale, di fronte e contro la repubblica, fondata il 2 giugno 1946 dagli inviati speciali della borghesia occidentale e dal tradimento proletario orientale (Bordiga si riferiva ovviamente all’Unione Sovietica stalinista n.d.r.) salvando la continuità dello Stato borghese subalpino 1861. ”Il compito del proletariato è sempre quello: abbattere la repubblica borghese e instaurare il potere proletario, fuori da tale situazione non esiste né uscita dal sottosviluppo né sviluppo economico che non sia pagato con lo sfruttamento dei proletari”.

Consapevoli di ciò siamo però anche consapevoli che la rivoluzione proletaria al momento non è vicina, non ne esistono le condizioni. Pertanto quali sono le cose più urgenti che si possono fare immediatamente? Fare spallucce e dire che al momento attuale non si può far niente perché solo con il potere in mano proletaria le cose si risolveranno è cosa che non è accettabile primo perché ci sono milioni di proletari in grave difficoltà, secondo perché alla rivoluzione proletaria non si arriverà mai se i proletari non cominciano già nella società presente a organizzarsi e lottare per migliorare le loro condizioni. Nella attuale situazione è ovvio che è la disoccupazione il problema più grave che i proletari meridionali si trovano ad affrontare. Pertanto è da là che deve partire la loro riscossa. I proletari meridionali non hanno bisogno di fumosi piani di intervento straordinario, hanno bisogno prima di tutto di un salario per vivere. La rivendicazione di un salario sociale è l’unica che nella situazione attuale possono portare avanti, l’unica che potrebbe alleviare la miseria e frenare l’esodo che svuota i territori meridionali. Noi non pensiamo che lo Stato borghese gentilmente farà il favore di concederlo(a differenza dei ricercatori Svimez). Noi pensiamo che il salario sociale, una misura che lo stato borghese sarebbe in grado di concedere ma non vuole concedere possa essere ottenuto solo con una rivolta di massa dei disoccupati che invece di stare a tirare a campare devono riempire le piazze e starci fino a che lo Stato non è costretto a cedere. Per questo diciamo ai proletari meridionali: basta prendere le valigie e lasciare il proprio territorio soprattutto in una situazione di crisi come quella attuale che rende incerta l’occupazione anche nei tradizionali territori di destinazione dell’emigrazione.

Proletari disoccupati lottiamo uniti.
Lavoro o non lavoro dobbiamo e vogliamo vivere.
Garanzia di salario per tutti.