Morire per Sebastopoli?

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Nella tregua armata che ha preceduto il Referendum indetto per il 16 marzo dalle autorità secessioniste della Crimea, tutti si si chiedevano se fossimo alla vigilia di un conflitto armato le cui “conseguenze geopolitiche”, come amano scrivere gli opinionisti, andrebbero ben oltre il Mar Nero. Ora lo scontato risultato del referendum e la ratifica dell’annessione da parte della Russia hanno fornito la miccia di un eventuale conflitto al servizio di uno o più imperialismi interessati a sfruttarla.
Darsi alle previsioni sarebbe poco saggio, perché quello che avverrà sarà un risultato non voluto, essendo la somma di pressioni molteplici e contrastanti di direzione e intensità variabili.
Ma gli elementi del caso sono ben noti.

Primo fra tutti che, essendo la Crimea una penisola al centro del Mar Nero, da sempre porta sud occidentale verso il Mediterraneo, ha un’importanza strategica assai rilevante per la Russia, ma anche per le altre potenze interessate a precluderle il passaggio attraverso il Bosforo (un tempo la guardiana degli stretti era la Gran Bretagna oggi sostituita dalla VI Flotta Usa che pattuglia il Mediterraneo Orientale, in presenza di una Turchia che vuol giocare il suo ruolo da giovane potenza regionale).

Dopo il crollo dell’URSS, prima Yeltsin e poi Putin hanno contrattato forniture di gas e petrolio all’Ucraina in cambio di concessioni militari in Crimea. Nel 1992 la Crimea ottenne dall’Ucraina lo status di repubblica autonoma e Sebastopoli godette di municipalità a statuto speciale. Le trattative per decidere del destino della flotta russa nel Mar Nero furono lunghe e difficili. Solo nel maggio 1997 Cernimyrdin per la Russia e Lazarenko per l’Ucraina sottoscrissero un trattato per la scissione della Flotta del Mar Nero in due marine distinte e indipendenti l’una dall’altra. La Russia non doveva ospitare nelle sue basi più di 25 mila militari ma ottenne la garanzia di occupare metà delle basi militari fino al 2017. Alla fine del suo mandato il presidente filooccidentale Yuschenkho aveva intimato ai russi, senza effetti pratici, di lasciare le basi anzitempo. Nel 2010 un accordo firmato dal nuovo presidente Yanukovich fissava il nuovo termine di ritiro dei russi al 2042. Nel frattempo Mosca ha ampliato la base di Novorossijsk, nel Territorio di Krasnodar. Ma né Novorossysk né Sochi possono a breve rimpiazzare Sebastopoli come strutture logistiche, capacità di ospitare militari e impiegati civili (fino a 30 mila), naviglio e quant’altro. Sebastopoli è a tutt’oggi l’unico porto utile per i Russi nel Mediterraneo, dal momento che il nuovo governo libico ha revocato ai russi l’uso della base navale di Bengasi, concessa da Gheddafi, e che Tartus in Siria a suo tempo concessa ai russi da Assad per ovvi motivi non è agibile con tranquillità. La perdita di Sebastopoli pregiudicherebbe in più il controllo di South Stream.

Se volessimo stabilire chi ha “diritto” a comandare in Crimea, ci sarebbero argomenti per ogni tesi. La realtà è che le varie potenze che intervengono trovano ciascuna uno specifico “diritto” confacente ai propri interessi: in questo caso è la Russia che può appellarsi al diritto democratico all’autodeterminazione – lo stesso che ha negato nel sangue ai ceceni, ad esempio – mentre le potenze europee ed americana si appellano al “diritto internazionale”, ai trattati in base ai quali la Crimea è inclusa dentro i confini ucraini. La Cina, che in un primo momento si era schierata con la Russia, ha preso le distanze al sorgere della questione della Crimea, perché il principio dell’autodeterminazione minerebbe l’oppressione che lo stato cinese esercita sulle minoranze etniche tibetane e yugure.
E’ ben noto a tutti che Putin è determinato da un lato a difendere in Crimea le infrastrutture militari del suo “giardino di casa”, dall’altro a impedire uno spostamento a est del confine operativo della Nato (col rischio di perdere dopo l’alleato ucraino anche l’alleato bielorusso…).
Come da copione la Russia, sia pure in forma discreta, appoggia il separatismo della Crimea (lo ha fatto anche nel ’94). Aksyonov è il nuovo primo ministro della Repubblica autonoma della Crimea, insediatosi dopo che non meglio definiti gruppi paramilitari hanno occupato il Parlamento e ha chiesto a Putin di intervenire per ripristinare “l’ordine e la calma” nella regione. Mosca accusa il nuovo governo di Kiev di essere illegale e anche controllato da elementi fascisti, alleati coi terroristi ceceni, accusa che fa molta presa sulla popolazione russofona della Crimea che ha visto la Wermachth ridurre in macerie Sebastopoli nel ’42. In più Mosca ha offerto la concessione del passaporto russo ai poliziotti e guardie di confine ucraini che vogliono lasciare il servizio e ai cittadini della Crimea: in Ossezia questo procedimento è stato poi utilizzato per legittimare un intervento militare russo “a difesa dei propri concittadini”.

Sempre da copione gli USA si atteggiano a difensori della libertà e democrazia, e della indipendenza dell’Ucraina e non si formalizzano se il nuovo governo da loro sponsorizzato imbarca “vecchi” arnesi dell’oligarchia ucraina (vecchi non di età ma di modalità comportamentale) accanto a gruppi dichiaratamente neofascisti. L’Europa minaccia sanzioni, come da copione, ma con calma, con una Gran Bretagna che reclama la linea dura, Germania e Italia che propendono per una linea di compromesso. Se la situazione si inasprisse è possibile che gli Usa o qualche paese europeo decida di utilizzare la minoranza tatara revanchista (13% della popolazione), guidata da Refat Chubarov. Secondo alcuni media occidentali infatti esiste una “questione nazionale” tatara in Crimea e il ministro turco Davutoglu ha dichiarato che “gli abitanti originari della Crimea, i veri padroni di quelle terre sono i tatari”… e “la Turchia farà fronte comune per i loro diritti”. Logica che nel vicino Caucaso ha seminato morte e distruzione negli anni ’90.

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Ma di chi è la Crimea?
Le vicende storiche non possono essere impugnate a giustificare diritti di primogenitura.
Prima del Mille la penisola è stata invasa in successione, da Sciti, Greci, Goti, Unni, Bulgari, Khazari, Russi di Kiev, Bizantini e Mongoli. I tatari, un rivolo dell’Orda d’oro di Gengis Khan, si insediarono in Crimea fondando l’omonimo khanato nel 1441. Trent’anni più tardi accettarono il protettorato ottomano; per questo i tatari sono turcofoni e di religione mussulmana. Nomadi e razziatori i tatari furono sottomessi da Caterina di Russia nel 1783; l’oppressione zarista provocò l’esodo di molti tatari nell’impero ottonano. In Crimea passarono dal milione di fine ‘700 a 200 mila a fine ‘800, mentre il governo dello zar trasferiva nella penisola contadini russi. Durante la guerra civile russa la Repubblica Popolare di Crimea fu una roccaforte dell’Armata Bianca anti-bolscevica (si arrese solo nel 1920). I tatari, molti dei quali erano proprietari terrieri furono perseguitati durante la collettivizzazione forzata del 1928 e decimati dalle carestia del ’32, prima e dai processi del 1936-37. La comunità tatara di Sinferopoli accolse i tedeschi della Wermacht come liberatori e circa 20.000 tatari (il 10% della popolazione) entrarono nei “battaglioni di autodifesa” organizzati dai tedeschi; altrettanti combatterono invece nelle file dell’Armata Rossa. La Crimea fu invasa dai nazisti e Sebastopoli fu assediata dall’ottobre 1941 fino al 4 luglio 1942 e pressochè rasa al suolo (i nazisti sterminarono 92 mila fra ebrei e rom). A poche settimane dalla riconquista russa, nel maggio 1944 circa 200 mila tatari di Crimea furono deportati in regioni inospitali dell’ Uzbekistan per decisione di Beria e Stalin con l’accusa di collaborazionismo coi tedeschi. L’operazione di pulizia etnica riguardò anche i tatari che si erano schierati coi russi; condotta con metodi assai feroci condusse velocemente a morte un quarto dei deportati entro i primi 5 anni. Con i tatari furono deportati 42mila fra bulgari, greci, armeni (gli italiani erano stati deportati nel 1939). La Crimea divenne un oblast dell’URSS e fortemente russificato per garantire le postazioni militari. Nel 1954 il premier Krusciov (nativo di Donetsk, famiglia ucraina) regala all’Ucraina sovietica la Crimea. Solo nel 1987 i tatari ebbero il permesso di rientrare in Crimea; oggi sono circa 250 mila (su un totale di 2 milioni di abitanti della Crimea) e vivono come profughi perché le loro case e proprietà sono state cedute a immigrati russi.

I tatari di Crimea furono quindi vittima di una delle tante operazioni “grandi russe” del regime staliniano. La russificazione forzata della Crimea rispondeva, da Caterina la Grande a Stalin, all’esigenza di garantire la fedeltà di un’area fondamentale per la difesa militare.
Oggi gli ucraini con passaporto russo o doppio passaporto sono 10 milioni (su un torale di 45 mil. di abitanti) e i russofoni sarebbero in tutto il 17,3% nell’intera Ucraina, ma sono il 77% in Crimea, la percentuale in assoluto più alta anche se confrontata a quella delle regioni di sud- est ( 74,9 % nel distretto di Donetz, 68,8% nel distretto di Luhansk, 48,2 in Zhaporizia, 44,3% a Kharkhov, 41,9% nel distretto di Odessa). – fonte: The Guardian).

Russofoni di Crimea
Percentuale di russofoni per regione dell’Ucraina

Si parlava di tregua armata, ma già si hanno notizie di 3 morti negli scontri fra filo-russi e filogovernativi nei pressi di Donetsk; a Simferopol in una sparatoria sono morti un militare di Kiev e un miliziano filo-russo. Per ora i soldati russi cercano di rendersi poco evidenti; la loro presenza è legittimata dai trattati e da sempre il servizio di polizia sul Mar Nero è garantito dall’ammiragliato russo. La flotta ucraina da sola non è del resto in grado di affrontare militarmente la flotta russa (Le Figaro 6 marzo14). I militari ucraini in Crimea hanno l’ordine di “resistere senza però accettare provocazioni”. Sulla carta Kiev può schiera un milione di soldati, molti però russofoni, quindi “infidi”.

Dopo il cambio della guardia a Kiev c’è stata la sostituzione di molti ex governatori nei vari oblast. Anche questo fa parte della lotta per conquistare posizioni in vista dell’eventuale braccio di ferro.
Nell’ombra trafficano gli oligarchi, abituati a compromessi vincenti con chiunque governi, contrari alla spaccatura in due del paese, ma anche al separatismo delle regioni orientali, contrari alla stretta subordinazione alla Russia, ma anche a una rottura netta con la Russia.
Akhmetov ha sostenuto l’oligarca e alleato Taruta a Donetsk, a Dnepropretrovsli è stato insediato Igor Kolomoisky, finanziatore occulto del gruppo di estrema destra Swoboda.

In questo scontro sulla pelle delle popolazioni locali dove le divisioni etniche sono usate come pretesti e alimentate dalle borghesie nazionali e dagli imperialismi, serve un’opposizione proletaria al nazionalismo. La manifestazione internazionalista tenutasi a San Pietroburgo l’8 marzo, quella pacifista a Mosca il 15 marzo, gli appelli internazionalisti contro la guerra (ne abbiamo pubblicato su questo sito) sono ancora episodi estremamente minoritari, ma devono diventare il catalizzatore di una lotta che elimini il sistema capitalista, i suoi governi e la classe di sfruttatori che prosperano mettendo i lavoratori gli uni contro gli altri e mandandoli al macello per difendere i propri mercati e conquistarne di nuovi.

Combat – Comunisti per l’organizzazione di Classe

 

Vedi anche:
Guerra alla guerra! Non una sola goccia di sangue per la “nazione”!
La lunga guerra russo-craina del gas fra Russia e il coinvolgimento europeo
Contro gli interventi imperialisti in Ucraina
L’Ucraina, il paese “sul confine”, lacerata dalla contesa tra borghesia filo-europea e borghesia filo-russa

 

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