Nessuna soluzione dai governi borghesi per i lavoratori dell’ex-Ilva e i cittadini di Taranto

Il 9 luglio è finito con un nulla di fatto l’incontro al Mise (Ministero dello Sviluppo Economico) fra Di Maio e i sindacati per scongiurare la Cassa integrazione per 1400 operai dell’ex Ilva di Taranto. Nel frattempo la procura di Taranto chiede di spegnere l’altoforno 2.
Sui lavoratori incombe la minaccia della chiusura dello stabilimento il 6 settembre prossimo; non è una certezza. Mentre è certezza che gli operai dello stabilimento e gli abitanti di Taranto, in primis quelli del rione Tamburi, ogni giorno affrontano un rischio di morte per tumore assai più alto di qualsiasi italiano che abiti in una zona industriale o lavori in uno stabilimento siderurgico.
Come nel caso della Sea Watch le polemiche infuriano, difficile districarsi fra fra frasi ad effetto e citazioni giuridiche, nel frattempo a pagarne le spese a rischio della vita ci sono persone, immigrati da una parte, lavoratori italiani dall’altra, tutti davvero “sulla stessa barca” dei diritti negati.

I fatti che di recente hanno riacceso i riflettori sull’Ilva possono essere compresi solo considerando la storia dell’azienda a partire almeno dal 2012, da quando cioè la procura di Taranto procede contro l’Ilva per disastro colposo, fa arrestare i Riva allora proprietari dell’azienda (per una storia dalle origini vedi la Scheda sulla storia dell’Ilva).
Proprietari, amministratori locali e nazionali sapevano e hanno taciuto una situazione di pericolosità estrema, dentro e fuori di quella che allora era la seconda acciaieria di Europa, il fiore all’occhiello della siderurgia italiana, ma soprattutto una fabbrica di morte.

Da Monti ai Cinque Stelle
Il governo Monti nel 2012, di fatto, commissaria l’Ilva, ma concede ampie dilazioni per il risanamento (sono a rischio 14 mila posti di lavoro ma soprattutto l’acciaio dell’Ilva è indispensabile per le imprese italiane). Da allora fino ad oggi saranno 12 i decreti “salva-Ilva” , tutti da considerare come una sorta di licenza di uccidere. L’ultimo è quello contenuto nell’accordo del 2017 per cui si concede all’Arcelor Mittal di usare filtri ai camini meno costosi e meno efficaci.
L’Ilva continua a funzionare, a vendere e a inquinare.
(vedi riquadro 1 – Perché all’Ilva e a Taranto si muore)
L’art. 2 della legge 4 marzo 2015 n° 20 (governo Renzi) di fatto concede l’impunità a chi ha la responsabilità per conto dell’azienda del risanamento, nel caso non lo attui o lo attui solo formalmente.

Nel giugno 2017 (governo Gentiloni) la multinazionale indiana Arcelor Mittal vince la gara pubblica per assumere il controllo parziale dell’acciaieria: attraverso la controllata Am Investco, affitta l’Ilva, impegnandosi ad acquisirla in seguito, dopo gli opportuni negoziati con i tre commissari straordinari, che dal 2015 guidano l’azienda.
Arcelor Mittal ha coinvolto nell’operazione il gruppo Marcegaglia
Risulta sconfitta la concorrente Acciaitalia, una joint venture tra il gruppo indiano Jindal, l’italiana Arvedi e la Cassa Depositi e Prestiti (quest’ultima controllata dal ministero dell’economia e delle finanze).
Arcelor Mittal è la multinazionale che guida la classifica dei maggiori produttori di acciaio nel mondo, ha più di 200 mila dipendenti in circa 20 impianti sparsi sui 4 continenti (vedi riquadro 2 – La siderurgia nella competizione globale)

Nel frattempo Taranto è diventata un cavallo di battaglia della propaganda politica dei Cinque Stelle (Grillo del resto si era fatto le ossa con lo scandalo Parmalat). Facendosi alfiere della salute degli operai e degli abitanti del quartiere il M5S chiede nella campagna elettorale per le politiche 2018 la chiusura dell’impianto di Taranto.
E a Taranto raccoglie il 48% dei consensi.

Ex Ilva e governo giallo verde
Ma formato, nel giugno 2018, il governo giallo verde, Di Maio si trova a gestire la situazione non più dall’opposizione, ma come Ministro del lavoro. Conte appena nominato premier, incarica l’Autorità Anticorruzione (Anac) di indagare sulla regolarità della procedura di gara e di Maio avvia una serie di incontri sull’Ilva con sindacati, comitati civici, ecc., ma stoppa la proposta di Grillo di chiudere l’Ilva.
Il 24 luglio 2018 Arcelor Mittal informa il nuovo governo che, accettate tutte le richieste fatte dai commissari straordinari, intende procedere all’acquisizione dell’acciaieria.
Di Maio solleva dubbi sulla correttezza della procedura sulla base dei rilievi Anac e il 30 luglio 2018 boccia il piano presentato da Arcelor Mittal perché “Le proposte migliorative del piano ambientale non sono ancora soddisfacenti” e afferma che “Su Ilva è stato commesso il delitto perfetto”. Carlo Calenda, che nel giugno 2017 ha firmato l’accordo con Arcelor Mittal, ribatte “Se la gara è viziata annullala”.

In settembre a sorpresa viene firmato un nuovo accordo fra commissari, Arcelor Mittal, sindacato sotto la supervisione di Di Maio. Firmano CGIL, CISL, UIL, USB, mentre vota contro la CUB, presente a Taranto, e danno un giudizio negativo altri sindacati di base. Vengono sbandierate le “10.700 assunzioni” (contro le 10 mila ottenute da Calenda nel febbraio 2018), “ in pratica tutti” afferma la segretaria Fiom, unendosi al coro di osanna. In realtà i 2500 lavoratori in Cassa Integrazione restano fuori e l’azienda si impegna a riassorbirli “entro il 2023” quando avranno operato “gli incentivi alle uscite volontarie”. Di Maio sottolinea che questi lavoratori saranno assunti fuori dalle norme del Jobs Act, per loro varrà l’art. 18.
Alla nuova proprietà, si scoprirà dopo, non viene imposto nulla sul piano del risanamento, in particola in caso si aumenti la produzione. Quindi i lavoratori e il rione Tamburi vengono lasciati al loro destino. I comitati cittadini sono inferociti.
Ma anche i lavoratori che sanno bene come da anni non si faccia la manutenzione straordinaria nello stabilimento.
Il sospetto è che il nuovo accordo sia la fotocopia di quello firmato da Calenda nel 2017, ma che con le sue manfrine Di Maio abbia voluto almeno sulla carta segnare una discontinuità con Calenda. Parliamo di sospetto perché questo accordo, come il precedente firmato da Calenda, è “secretato”, i comuni mortali non possono leggerlo.
“Ci metterà sopra le mani” o così afferma il Sole 24 Ore nei primi giorni del luglio 2019 e se ne sta servendo oggi per entrare di peso nella polemica con il governo.

Dopo la batosta delle Europee, Di Maio decide di ricavalcare il caso Taranto….
L’art.46 del Decreto Crescita approvato nel giungo 20219 prevede per proprietari e amministratori dello stabilimento tarantino, a partire dal 6 settembre 2019, l’eliminazione dell’immunità penale (il cosiddetto scudo) rispetto all’attuazione del piano ambientale .
Arcelor Mittal minaccia allora di chiudere lo stabilimento il 6 settembre e come segnale forte mette subito in Cassa integrazione i 1400 operai di cui si è discusso il 9 luglio.
La Fiom indice per il 4 luglio uno sciopero di otto ore, ma come sempre è sulla difensiva e aggiogata alle decisioni e alle trattative del governo.
Di Maio ribatte “non accetto ricatti”. Confindustria, Federmeccanica, Federacciai e il mondo dell’impresa più in generale si schierano a fianco di Mittal, affermando che chi investe in Italia non si sente garantito se, in corso d’opera, cambia il quadro regolatorio in modo così rilevante.
Con un senso del macabro fuori del comune un avvocato arriva a dire che l’impunità va restituita a Arcelor Mittal, perché anche la disoccupazione “danneggia la salute, provoca depressione ecc.”. E poi in fondo senza lavoro l’alternativa è morire di fame…
Il Sole afferma, sulla base dell’esame degli accordi 2017 e 2018, che le modifiche introdotte, presente Di Maio, nel 2018 consentono a Arcelor Mittal di andarsene e anzi di presentare una ingente richiesta di danni al governo. (nota 1)
Di Maio dichiara che ad Arcelor Mittal non sarà più consentito di inquinare…
La sceneggiata è ancora in corso.

La chiusura dell’altoforno richiesta dalle procura di Taranto con tutto questo non c’entra nulla, riguarda infatti la morte di un operaio… nel 2015, morto per una banale mancanza delle normali misure antinfortunistiche, perché all’Ilva non ci si fa mancare nulla, si muore anche per incidente come dalle altre parti, mica solo di inquinamento!
Ma la cosa va citata perché dà la misura di quanto appoggio alle logiche del profitto abbiano dato i governi, in primis quelli “di sinistra” e sempre in spregio alla salvaguardia della vita di chi lavora! (nota 2)

Conclusioni
Per decenni tutti i governi locali e nazionali hanno fatto finta di niente, mentre a Taranto si moriva dentro e fuori la fabbrica.
Ancora una volta l’alternativa che viene lasciata ai lavoratori è o il posto di lavoro o la salvaguardia della salute. E’ forte il rischio che anche adesso, dopo qualche mercanteggiamento, ci si arrenda ai “motivi di forza maggiore” sulla pelle dei lavoratori.

Produrre anche nella siderurgia compatibilmente con la tutela della salute è possibile, è solo un problema di costi, ma anche un problema di complicità compiacenze e cinismo.
Cinismo di chi ha permesso di costruire le case a ridosso dell’acciaieria, cinismo di chi ha sempre e comunque tutelato l’azienda perché produceva posti di lavoro e indotto (altri 3 mila posti di lavoro), produceva ricchezza ( il 75% del prodotto interno lordo della Provincia di Taranto, e il 76% del movimento merci del porto), ma anche sovvenzionava la politica locale. E questo con giunte comunali, provinciali e regionali di ogni colore.
Certo il capitale va a produrre là dove costa meno, dove il costo del lavoro è basso, dove le norme anti infortunistiche non sono rispettate, dove non ci sono norme antiinquinamento, perché nella concorrenza vince chi produce con minori costi.
Per questo si deve lottare perché ci siano dei limiti e perché violarli costi.

Per questo in generale molti paesi a capitalismo maturo hanno delocalizzato le fabbriche più pericolose e più inquinanti nei paesi più poveri . E nei paesi più ricchi si è sviluppato un ecologismo “nimby” – not-in-my-backyard, cioè di gente che compra l’auto
o il SUV prodotto con acciaio prodotto dove non ci sono tutele e che chiede di chiudere le fabbriche (e le discariche) vicino a casa che abbassano il valore degli immobili, indifferenti al fatto che a chilometri di distanza si muoia per garantire qui dei privilegi.
E’ la logica di molti dei comitati cittadini nati a Taranto, cui interessava solo chiudere la fabbrica senza alcun interesse per la sorte di chi di quel lavoro ha bisogno.

A Taranto la condanna a morte è stata scaricata sugli operai e sugli abitanti del quartiere operaio limitrofo (anche se il vento si è incaricato di spargere democraticamente le polveri anche più in là).
E’ evidente che non si poteva e non si può togliere il lavoro ai 14 mila lavoratori e che la soluzione non è chiudere tout court la fabbrica. Ma se si fosse cominciato a introdurre tutele decenni fa il risanamento sarebbe oggi un fatto compiuto o perlomeno iniziato (nota 3).
Certo se è il profitto la misura di tutto e non i bisogni umani , si continuerà a morire sul lavoro e si continuerà ad inquinare (basti pensare ai roghi nelle discariche che punteggiano la penisola), ma se non si cerca di porre un argine si finisce come a Bhopal.
Ed è un terreno di lotta che non può limitarsi ai confini nazionali. Ad es. il ferro lavorato dall’Ilva viene da Acailandia in Brasile, dove la multinazionale Vale sfrutta fino alla morte gli indios impiegati nell’estrazione; la International Federation for Human Rights,(FIDH) ne ha denunciato gli abusi a Strasburgo assieme a Peace Link.
La Corte Europea dei diritti dell’uomo nel gennaio 2019 ha espressamente condannato i decreti Salva-Ilva emanati dai vari governi italiani.

Ma mentre i tempi dei governi borghesi per salvare i superprofitti sono superveloci, i tempi della magistratura per tutelare i diritti dei lavoratori sono biblici!
Solo non lasciandosi abbindolare dalle promesse elettorali, solo non affidando ai Di Maio e ai Conte di turno il proprio futuro, ma lottando in modo indipendente, i lavoratori possono imporre accordi dignitosi in cui non si debba svendere la propria vita e quella dei propri figli.

Nota 1: L’articolo del Sole sottintende che se si vuole fare i giustizialisti bisogna sapere cosa si firma. Anche secondo Peace Link, in sintesi, l’accordo del 2017 prescriveva la messa a norma di tutti i primi sei milioni di tonnellate di produzione per poter passare all’incremento di produzione tra i 6 e gli 8 milioni – quantità che aumenta il rischio cancerogeno per il quartiere Tamburi e che secondo Arpa Puglia è già in questo caso inaccettabile. Con il nuovo accordo del 2018 non è necessaria la completa messa a norma dei primi sei milioni, per procedere all’aumento di produzione. Arcelor Mittal considera il proprio investimento interessante se può incrementare la produzione venendo incontro alle esigenze del mercato. Di conseguenza dal primo novembre 2018 al maggio 2019 le emissioni inquinanti più pericolose e cancerogene, come benzene e idrocarburi policiclici aromatici (IPA), sono aumentate con punte di incremento, all’interno dello stabilimento, che vanno dal 32% al 173% (dal sito valori.it).

Nota 2: Lo spegnimento dell’altoforno 2 fu ordinato dalla procura di Taranto nel giugno 2015 in seguito alla morte di un operaio di 35 anni che fu investito da una colata di ghisa per la mancanza delle più ovvie misura di salvaguardia contro gli infortuni. Il governo Renzi sospese l’ordine e concesse che l’altoforno continuasse ad essere usato senza che fossero introdotte barriere protettive o altro, in quanto l’altoforno era fondamentale per l’attività dell’acciaieria. La procura censurò il decreto del governo che non teneva in alcun conto la sicurezza dei lavoratori e presentò ricorso alla Corte Costituzionale. La Consulta ha dichiarato nel marzo 2018 l’operato del governo Renzi incostituzionale e disposto il sequestro dell’altoforno. Arcelor Mittal si è opposta allo spegnimento presentando un ulteriore esposto, cui risponde la decisione di questi giorni della Procura di Taranto… dopo 4 anni dalla morte del giovane operaio. Se l’altiforno verrà spento o almeno messo a norma è tutto da vedere, dicono gli operai, a meno che ci scappi un altro morto che faccia notizia!

Nota 3: Sempre nel 2012 si scopre un “tesoretto” della famiglia Riva su un conto Ubs in Svizzera con 1,3 miliardi di euro, frutto – secondo la magistratura – di una frode fiscale. Tale somma sarebbe destinata oggi al risanamento ambientale dell’Ilva ma non si è ancora conclusa la procedura giudiziaria necessaria per il trasferimento dei fondi dalla Svizzera all’Italia.

 


Riquadro 1 – Perché all’Ilva e a Taranto si muore

L’inquinamento più evidente a Taranto è quello legato alle polveri di ferro. Ogni anno il minerale portato a Tarnato da 800 navi, viene trasferito per decine di km su nastri trasportatori a “parchi” dove forma delle montagne alte anche 20 metri che occupano una superficie grande circa come 90 campi da calcio. Questi parchi minerari sono tutt’ora a cielo aperto, quindi sia durante il trasporto o se c’è vento, enormi quantità di polveri di ferro si disperdono nell’aria inquinando pesantemente l’ambiente circostante. Il suolo dei parchi non è impermeabilizzato, quindi le polveri contaminano anno dopo anno la falda sottostante ed entrano nel ciclo alimentare. I parchi dovrebbero essere coperti, ma si è solo iniziato a farlo.
I parchi minerali si trovano a 170 metri dalla zona residenziale, le cokerie a 730 metri e il muro di recinzione a 135 metri dalla casa più vicina del quartiere Tamburi che conta 18000 abitanti circa.
Il quartiere è raggiunto da emissioni di IPA (idrocarburi policiclici aromatici), benzoapirene e diossine. Nel solo 2010 si calcolò che l’Ilva aveva emesso 4 mila tonnellate di polveri; 11 mila tonnellate di diossido di azoto e 11.300 tonnellate di anidride solforosa, 338,5 chili di IPA, 52 grammi di benzo(a)pirene, 14,9 grammi di benzo diossine e PCDD/F. A Taranto nel 2012 si produceva diossina in quantità pari a quella prodotta complessivamente da Spagna, Gran Bretagna Svezia e Austria. Già nel 2008 Peace Link fece analizzare il pecorino prodotto con latte di animali allevati nelle campagne tarantine e si trovò la diossina. Essa era presente in quantità molto alta nel latte, nella carne e anche nel latte materno.
Taranto non a caso è ancora oggi la città del sud con la più bassa speranza di vita.
L’effetto sull’uomo di tutto questo è un aumento corrispondente di infezioni respiratorie e cardiocircolatorie, problemi neurologici, leucemie, tumori allo stomaco alla pleura, alla prostata alla vescica e alle ossa. I danni in particolare delle diossine si trasmettono ai figli perché intaccano il patrimonio genetico. Nel febbraio 2019 si è tenuta l’ennesima marcia per i bambini di Taranto morti anzitempo. Ancora la pediatra di Peacelink denuncia che la “pioggia” sulla città di inquinanti killer come il piombo neurotossico riduce il quoziente intellettivo dei feti esposti e afferma “la politica ha più o meno coscientemente e direttamente sacrificato alla produzione dell’acciaio la vita e l’integrità fisica, psichica ed esistenziale dei cittadini e degli operai di Taranto, la vita e il futuro dei loro bambini”.
All’Ilva si muore naturalmente anche per tumori da amianto (mesotelioma da asbesto), sia pure in misura minore che nelle fabbriche al Nord. Nel giugno 2019 l’ennesimo rinvio del processo che riguarda gli 11 operai morti di amianto prima del 2012. Denunciano i superstiti: “la giustizia…, è una chimera inafferrabile…; anni… per arrivare sostanzialmente ad un nulla di fatto, fra prescrizioni, lungaggini burocratiche infinite, distrazioni, mancate notifiche e cavilli giuridici!”
All’interno della fabbrica ovviamente la tossicità è molto più forte.
Fatta 100 l’incidenza di leucemie e tumori della Puglia, a Taranto abbiamo in città un + 54% nei bambini, +30% negli adulti; dentro la fabbrica +500%.

 

Riquadro 2 – La siderurgia nella competizione globale

Oggi la siderurgia di Europa Giappone e Usa incontra difficoltà
a) perché si concentra nel downstream (laminazioni, trasformazioni e finiture dell’acciaio grezzo) in cui gli investimenti sono necessariamente molto alti
b) paga la lontananza dalla materia prima ma anche dai mercati che maggiormente consumano acciaio (nell’ordine Cina, Giappone, Turchia, Sud Corea ecc.)
c) altri fattori negativi sono il più alto costo del lavoro e la maggiore incidenza delle leggi antinquinamento.
I dati 2018 di WordSteel ci dicono che nell’ordine i maggiori produttori di acciaio sono la Cina (con 928 milioni di t pari al 51,3% del totale) seguita a molte distanze dall’India (106,5 milioni di t) Giappone (104,3 milioni), poi Usa (86,4 milioni di t). Tra le macro aree mondiali, l’Europa ha perso lo 0,3% sul 2017, il Nord America è salito del 4,1%, mentre l’America Latina ha recuperato l’1,3%. L’Asia, infine, è cresciuta del 5,6%.
Le prime 94 società al mondo 50 sono cinesi.
Arcelor Mittal è la prima compagnia del mondo nel dicembre 2018 con 96,42 milioni di t di acciaio prodotte, seguita da China Baowu Group con 67.43 mil. Di t, al terzo posto la Nippon Steel Corporation con 49.22 mil. di t., al quarto ancora una cinese HBIS Group con 46.80 mil. di t e al quinto la sudcoreana Posco con 42,86 mil. di t.
La prima società statunitense è al 12 posto (la Nucor Corporation con 25,49 milioni di t).
Mentre al 17° troviamo la prima russa (Novolipetsk Steel con 17,39 milioni di t).
La prima europea ThyssenKrupp è al 32° posto (era 16a solo nel 2016).