Novembre 1956: l’imperialismo russo affoga nel sangue la rivoluzione ungherese

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Sessant’anni fa, esattamente alle luci dell’alba del 4 novembre, i carri armati russi, supportati da un ingente Corpo d’Armata e dalla copertura aerea, intervengono a Budapest (e poi nel resto dell’Ungheria) per stroncare nel sangue la rivoluzione dei Consigli Operai sorta il 23 ottobre.

Il comunicato ufficiale del Cremlino motiva l’invasione come “aiuto al governo rivoluzionario e operaio dell’Ungheria” (il governo del riformista Imre Nagy, che non riesce a frenare la rivolta operaia, e sarà in seguito giustiziato dagli stalinisti di Mosca e di Budapest una volta ristabilito totalmente “l’ordine socialista”).

Tutto era iniziato una decina di giorni addietro con una grande manifestazione anti-governativa nella capitale ungherese, che raccoglieva in sé l’enorme malcontento di milioni di proletari e studenti verso un potere a capitalismo di Stato, schierato apertamente col blocco moscovita, ferocemente collocato su una linea di sfruttamento semi-coloniale del proletariato ungherese.

Salari da fame, ritmi di lavoro inauditi, disciplina da caserma (in fabbrica e nella società), arresti e condanne per un nonnulla, predominio della polizia politica (la famigerata AVH), lavaggio dei cervelli, culto del partito e dei “capi”, burocrazia elefantiaca, pasciuta e corrotta, discredito della lingua, delle usanze e dell’economia nazionali, carrierismo e servilismo come valori fondanti di una società che avrebbe dovuto “abolire lo sfruttamento” (sic) …: gran parte della società ungherese non ne poteva proprio più.

Mettendo in primo piano “motivazioni di fondo” diverse di opposizione al regime, studenti, operai, piccoli contadini ed anche settori importanti del partito erano in ebollizione e non aspettavano altro che la “scintilla” per rovesciare questa fattispecie di “socialismo”.

Pochi giorni prima dell’inizio della rivolta, la Polonia (altro paese-satellite del dominio imperialista russo) aveva vissuto la sua “primavera” di opposizione: ottenendo concessioni “democratiche” da Mosca, la quale però era riuscita a convogliare la lotta operaia in un ricambio di regime, rimanendo ben “dentro” il regime stesso (Wladislaw Gomulka fu l’autore di questo passaggio riformista).

Dunque agli ungheresi sembrano maturi i tempi per fare altrettanto nel loro paese.

Nel tardo pomeriggio del 23 ottobre, come abbiamo accennato, una immensa folla (agli studenti si sono aggiunti gli operai usciti dalle fabbriche) si raduna in piazza L. Kossuth, la piazza del parlamento.

Le richieste uscite dai Comitati di opposizione, guidati da una folta leva di giovani “ribelli”, sono genericamente democratiche, tese nell’immediato non al ribaltone del regime ma all’allentamento della cappa oppressiva che grava sul paese.

Ad un tratto, dall’edificio del parlamento l’AVH fa fuoco indiscriminato sulla folla.

La protesta diventa insurrezione. Reparti dell’esercito ungherese si schierano coi rivoltosi, rifornendoli di armi. Lo sciopero è immediato e totale. Il partito stalinista al potere (Partito Unificato del Lavoratori Ungheresi) crolla. A nulla vale sostituire la “vecchia guardia” (Rakosi e Gero) con il redivivo Nagy. Gli eventi scappano di mano, alimentati dall’intervento militare delle truppe russe stanziate in Ungheria e dal prepotente irrompere sulla scena di un proletariato in armi (1.600.000 lavoratori in tutto il paese) deciso a fare piazza pulita di soprusi ed angherie.

Si susseguono giorni di feroci combattimenti città per città, quartiere per quartiere, strada per strada, in cui gli insorti (raccolti in grande maggioranza attorno ai Consigli Operai) da una parte difendono con ogni mezzo e con sprezzo del pericolo le conquiste “reali” che stanno strappando (un vero e proprio “contro-potere senza Stato”), dall’altro non lesinano i tentativi di “fraternizzare” coi proletari russi in divisa inviati a reprimerli in nome del falso socialismo.

Chi non la scampa sono gli odiati AVH, passati per le armi all’atto della cattura e linciati dalla folla.

Questo “contro-potere operaio” arriva il 31 ottobre a riunirsi in parlamento nei Consigli Operai nella grande Budapest, delineando un sistema sovietico come era all’origine della stessa rivoluzione russa.

Dunque non è affatto vero, come i gazzettieri della borghesia raccontano, che si sarebbe trattato di una rivolta “anticomunista” (lo stesso Indro Montanelli, allora inviato del “Corriere della Sera”, lo dovette ammettere a denti stretti).

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Vi furono spinte politiche composite, di varia provenienza, espressione delle diverse classi della società (ad esempio i piccoli contadini e gran parte degli intellettuali rimarcavano il carattere nazionalista della rivolta e la volontà di non superare i limiti di un compromesso “democratico” con Mosca).

Ma è indubbio che per gli operai la democrazia era quella dei Consigli; seppur mancante nell’occasione di quei contenuti politici e strategici che solo una direzione partitica rivoluzionaria sarebbe stata in grado di far prevalere.

Ciò non toglie ovviamente che – in quella situazione data – il problema del “recupero” dell’identità e della dignità nazionale ungherese fosse legittimamente rivendicato dagli stessi operai in armi.

In una decina di giorni si mette alla prova del ferro e del fuoco una rivolta operaia che diventa prima insurrezione e subito dopo rivoluzione. L’inanità e l’inganno del riformismo (i continui rimpasti del governo Nagy tesi ad arginare l’onda d’urto e a trovare un compromesso interno e con Mosca); la politica sostanzialmente imperialista dell’URSS e quella delle altre centrali dell’imperialismo, che “condannano” la repressione russa ma non si muovono (o per meglio dire: si muovono nella parallela crisi di Suez, in cui si forma un asse USA-URSS a favore dell’Egitto di Nasser).

Altra componente che rende irreversibile l’intervento militare russo in Ungheria, che deviava dallo schema polacco di un prudente “riformismo imperialista” interno al “Blocco sovietico”, è la dichiarazione di uscita dal Patto di Varsavia ad opera di Imre Nagy, forse illuso che il ventilato ritiro dall’Ungheria delle truppe russe dopo i 10 giorni di battaglia campale potesse permettere ulteriori passi verso il “non allineamento”.

Teniamo infatti presente che siamo in un clima internazionale dove da poco si è ricomposto lo scisma russo-jugoslavo; Tito è capofila di una cordata di “non allineati” guidata da lui stesso, dall’indiano Nehru e dall’egiziano Nasser.

Mosca sta sì riorganizzando la “destalinizzazione” all’interno del suo impero, senza però nulla concedere ad “iniziative unilaterali” che potessero mettere in discussione “chi è che comanda”.

In ciò sta il vero punto di rottura “internazionale” che farà pendere il pendolo verso il secondo decisivo intervento dei carri armati russi per le vie di Budapest.

Per quanto riguarda la situazione interna, come detto, non si poteva assolutamente tollerare che la rivoluzione operaia dei Consigli prendesse piede, pena un pericoloso “effetto domino” in tutto l’Est Europa; fatto che avrebbe indebolito le mire di Mosca mentre si stava screditando irrimediabilmente PER MANO OPERAIA la “patria del socialismo”.

E ciò poteva ancor meno essere tollerato. Non solo da Mosca, ma da ogni imperialismo.

L’intervento russo del 4 novembre stroncherà in qualche giorno i centri di resistenza armata per le vie di Budapest ma non piegherà facilmente i nuclei di proletari radicati nei quartieri popolari e nelle fabbriche, i quali continueranno per mesi gli scioperi e la lotta armata (anche in montagna), nonostante i Tribunali Militari degli occupanti e della “risorta” borghesia stalinista ungherese lavorassero a pieno regime.

La rivoluzione dei Consigli Operai ungheresi è stato l’ultimo episodio di tale portata nel continente europeo prima che il binomio borghese di repressione e sviluppo riconducesse la lotta di classe (con qualche eccezione) dentro i binari del “vertenzialismo sindacale”, anche radicale.

Non è stata l’inizio, come in campo rivoluzionario qualcuno credeva, di una lotta generalizzata contro il capitalismo di Stato, “ergo” contro l’ultimo portato dell’imputridimento imperialistico.

Ma è stata sicuramente un sonoro ceffone sul grugno cinico e spietato del “falso socialismo”, la riaffermazione che la via dell’indipendenza di classe e della conseguente lotta rivoluzionaria è in grado di travolgere tutti i miti produttivistici, statalisti e partitici figli del profitto.