I cileni hanno respinto la Costituzione “avanzata” che copre la conservazione del sistema

Nel 2019 il Cile ha vissuto una vera e propria insurrezione popolare, con la partecipazione di grandi masse urbane che non si sono piegate sotto i colpi di una massiccia repressione governativa.  Il potenziale rivoluzionario e di classe di questa insurrezione, che la repressione rischiava di far esplodere, è stato ingabbiato dall’ Accordo di Pace e per la Nuova Costituzione firmato da tutti i partiti e dallo stesso futuro presidente Gabriel Boric tre giorni dopo il grande sciopero generale del 12 novembre. Le aspirazioni rivoluzionarie dei proletari che si erano mobilitati in migliaia di comitati locali vennero deragliate sul terreno della “pace” tra le classi e della competizione elettorale, che portò Boric alla presidenza a furor di popolo. Il miraggio della “Nuova Costituzione” fu il binario morto su cui è stato deviato il movimento: la rinuncia a portare a fondo un’ondata rivendicativa salariale, ma soprattutto a rovesciare per via rivoluzionaria il potere borghese e imporre il contropotere delle masse proletarie insorte con propri organismi sull’esempio dei consigli (soviet).

La Nuova Costituzione è stata il surrogato della rivoluzione, anzi il suo antidoto. Annunciata come il coronamento delle aspirazioni delle masse proletarie insorte, si è rivelata il loro affossamento. I rapporti di produzione capitalistici, il dominio del capitale sulla forza lavoro e sulla società non erano messi in discussione. Il grande capitale, a partire quello statunitense ed europeo, era rassicurato. Per le masse alcune frasi roboanti prive dei denti per mordere (come per la Costituzione italiana). Per questo è stata gettata nella spazzatura.

Come troppo spesso nella storia il potere borghese è stato puntellato dal massimalismo populista interclassista. Una conferma del fatto che in assenza di un partito rivoluzionario, con un chiaro orientamento di classe, ogni insurrezione è destinata a essere repressa o ingabbiata.

Questo articolo sull’esperienza cilena mostra nel concreto come dietro gli aspetti ideologici, e la fraseologia populista di sinistra, occorre cogliere i reali contenuti di classe dell’azione politica. E come se non c’è la rottura del potere statale, ci sarà la conservazione del dominio di classe.

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Il risultato del plebiscito costituzionale del 4 settembre in Cile è stato un terremoto politico.

Tutti si sono chiesti come fosse possibile che da un appoggio di massa (circa l’80% dei votanti) all’introduzione di una nuova carta costituzionale nel referendum dell’ottobre 2020 che avrebbe messo fine alla vecchia Costituzione di Pinochet; ma anche dalla sconfitta della destra e della ex-Concertación (1) alle ultime elezioni presidenziali e il trionfo di Gabriel Boric (Apruebo Dignidad, coalizione tra Frente Amplio e Partito Comunista), la nuova Costituzione venisse rigettata dal 62% della popolazione cilena, pur con un’affluenza dell’85,6%, cifra mai raggiunta nella storia del Cile.

Cosa è accaduto in questi due anni? Perché la nuova Carta Costituzionale non ha più rappresentato una via di uscita dall’eredità della dittatura e dei governi neoliberisti dei ‘30 anni’?

Il ‘rechazo’ (rifiuto) della nuova Carta non significa che la maggioranza della popolazione sia a favore di un Cile ancora legato alla dittatura.

Delusione: il voto è stato una presa di distanza dal governo Boric, che non ha affrontato la profonda crisi economica e sociale del paese, tradendo le promesse e le speranze suscitate in campagna elettorale.

L’”apruebo” (approvazione) del nuovo testo costituzionale era associato al nuovo governo, perché ne era il principale promotore. La vittoria del ‘rechazo’ è stata quindi la bocciatura del neo presidente, a distanza di pochi mesi dalla sua elezione.

Inoltre i temi del dibattito e le dinamiche politiche che si sono sviluppate nei mesi precedenti il referendum ed hanno dominato l’informazione cilena erano lontani dalle necessità urgenti e concrete della popolazione.

Di questa delusione ed estraneità la destra ha approfittato per lanciare una campagna propagandistica demagogica ma di grande impatto, perché parlava di salute, di pensioni, di casa.

La base sociale dell’’apruebo’ era egemonizzata dal governo, dai sindacati, da movimenti sociali come i Movimenti Sociali Costituenti e la Coordinadora Plurinacional, che hanno formato il Comando de los Movimmientos Sociales, con forte peso nella piccola e media borghesia progressista. Il plebiscito ha segnato il divorzio tra questi e i settori proletari che hanno votato il ‘rechazo’.

Dalle rivolte alla pace concordata

Per capire questo risultato inatteso è necessario risalire al periodo delle intense rivolte popolari nell’autunno del 2019.

La ribellione si era infiammata il 18 ottobre tra i giovani contro l’aumento del biglietto della metropolitana, ma ben presto estese le sue denunce, domande e urgenze: salute, pensioni dignitose, educazione, fine della repressione, fine della privatizzazione dei servizi, della precarietà del lavoro; ma prima di tutto: fuori il presidente Piñera! “Non sono i 30 pesos ma i 30 anni!” era la consegna che si gridava ovunque nelle strade e nelle piazze.

Il 23 ottobre marciava nel paese più di un milione di persone, 300.000 solo a Santiago.

Il governo ha reagito con una repressione brutale: per la prima volta dalla dittatura viene schierato l’esercito nelle strade. I manifestanti sono stati presi, accecati dai lacrimogeni dei carabinieri che miravano al volto, torturati e assassinati. La lotta non si ferma e il 12 novembre si proclama lo sciopero generale, che paralizza 25 dei 27 principali porti, il 90% del settore pubblico, l’80% delle scuole, il settore sanitario ed edile, tra gli altri.

Vengono bloccate le arterie principali del paese, riempite le piazze, attaccati i quartier militari, affrontando la violenza della polizia e dell’esercito.

Tra ottobre del 2019 e marzo del 2020 furono ammazzati 31 manifestanti, circa 350 subirono mutilazioni agli occhi, migliaia le violazioni dei diritti umani denunciate, 11300 persone fermate e 2500 finite in carcere Oltre 2000 attendono ancora oggi il giudizio, tra loro molti minori. Il movimento si organizzava in assemblee territoriali, brigate di salute per assistere i feriti, comitati di difesa giuridica… una enorme spontaneità di massa con giovani, movimenti femministi, settori sindacali, comunità marginali che però mancava del coordinamento necessario a tenere unite le componenti  del protagonismo unificante della classe lavoratrice.

Spingere le lotte fino alla ‘rivolta permanente’ e oltre non era però l’obbiettivo del Blocco Sindacale di Unità Sociale, che aveva indetto lo sciopero: l’obbiettivo non era cacciare Piñera ma negoziare con lui. Il Blocco non lavorò per sostenere con un’organizzazione adeguata la lotta di classe, classe che sì lottava ma non pianificava il percorso di lotta; ma privilegiò accordi e consultazioni di vertice.

Il 15 novembre, tre giorni dopo lo sciopero generale, tutte le forze politiche firmano con il governo l’Accordo di Pace e per la Nuova Costituzione. Boric è tra i firmatari.

L’accordo è la risposta della borghesia e del potere politico cileno all’attacco a tutto campo inferto dalle rivolte destabilizzatrici che minacciavano le basi del potere, al fine di smobilitarle e dividerle, smorzarle e incanalarle nell’alveo istituzionale.

La nuova Costituzione è frutto di questa strategia, non l’esito vittorioso di quelle rivolte, come si è voluto far credere sia dalla propaganda di stato che dalle forze progressiste e sindacali cilene (2).

Era necessario ‘modernizzare’ il sistema per recuperare governabilità, ma senza toccare i pilastri della struttura capitalistica del paese.

La borghesia cilena era concorde nel considerare la Costituzione dell’80 anacronistica e non più funzionale alla gestione dello stato, si compattò quindi a favore di una nuova edizione, scommettendo su quanti si sarebbero illusi che il regime ereditato dalla dittatura sarebbe potuto cambiare in modo pacifico.

Con la firma dell’Accordo si toglievano dalla scena le strade, si assicurava la continuità del sistema politico, la permanenza di Piñera e l’impunità dei responsabili politici e materiali della repressione delle rivolte. Tra i più accesi fautori dell’Accordo troviamo la CUT (Centrale Unica dei Lavoratori), il principale sindacato cileno, che si era impegnata a contenere le lotte, a impedire nuovi scioperi e che le rivolte si estendessero a settori strategici come quello minerario.

La Convenzione Costituzionale al lavoro

La nuova carta costituzionale non è scaturita da un dibattito collettivo e democratico, bensì è stata scritta da una Convenzione che si è formata in base al sistema elettorale parlamentare che avvantaggia i grandi partiti, portavoce della borghesia imprenditoriale. Il Congresso, il Presidente e le Forze dell’Ordine erano i garanti e i supervisori del lavoro svolto.

Il dibattito intorno alla formazione del gruppo costituente e alla stesura della nuova carta, svoltosi nello scenario della grave crisi economica e sociale approfondita dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina, han silenziato le istanze e le urgenze vive delle lotte popolari.

Negoziati estenuanti e su questioni formali, scontri tra interessi di partito e tra i soliti volti dei ‘30 anni’…sono stati il quadro desolante che ha portato molti, dapprima fiduciosi nel nuovo corso intrapreso dalle istituzioni, ad allontanarsene delusi.

La Convenzione, ostaggio del potere costituito cileno (i conservatori hanno il 40% dei voti, con potere di veto), mentre parlava di una “rifondazione progressiva” dello stato per ripristinare credibilità da uno scenario di profondo rigetto delle istituzioni, per milioni di cileni si è mostrata per quello che era: un’istituzione organica ad un regime da abbattere.

Il disincanto e le aspettative deluse di parte del proletariato vengono raccolte dalla destra, non esistendo un’alternativa indipendente che le potesse fare proprie.

Il dibattito costituzionale ha diviso anche il fronte borghese: a destra alcuni settori imprenditoriali erano per la bocciatura del nuovo testo, altri erano a favore, ritenendo non ostacolasse gli affari e gli investimenti. Fra questi il capitale finanziario internazionale, gli Stati Uniti e l’Unione Europea, secondo testimonianze di alti funzionari. Alcune imprese legate all’economia primaria e al settore immobiliare si stavano già muovendo per tutelarsi giuridicamente sia presso tribunali locali che internazionali, protetti dagli Accordi di Libero Scambio, che la Convenzione non ha toccato.

Da Wall Street una relazione rivolta agli investitori li rassicura e sostiene che l’impianto della nuova Costituzione è meno radicale del previsto: “non vediamo alcuna minaccia alla proprietà privata o al ruolo del mercato nell’economia cilena”.

Il nuovo volto della borghesia

Il testo presentato dalla Convenzione Costituzionale il 4 luglio, e a settembre sottoposto al voto popolare, certamente invalida vari nodi della precedente Costituzione, ma non altera l’impianto strutturale della società cilena dei “30 anni”.

Afferma diritti finora negati, come il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza oltre ai casi di stupro e di rischio di vita per la madre; la parità di genere, i diritti sindacali, il diritto di sciopero (oggi ristretto al settore pubblico), quelli dei popoli indigeni e altri.

Riconosce 10 popolazioni native che abitano il paese, la loro lingua, la simbologia, il diritto all’autonomia e all’autogoverno. Ma nulla dice sulle loro terre, così preziose per le multinazionali dell’industria estrattiva e del legno. Nulla nemmeno sulla nazionalizzazione dell’industria mineraria.

All’elenco dei diritti fondamentali enunciati non segue alcuna specifica sulle risorse per realizzarli e mantenerli, rendendo queste parti del testo generiche e indeterminate.

il Sistema Sanitario pubblico continuerà ad essere integrato e in competizione con il privato; si dichiara l’acqua un bene non commerciabile, la plurinazionalità del Cile (ma senza toccare il problema dell’autodeterminazione), mentre per le pensioni si rimanda la decisione al Congresso, con grande sollievo per i Fondi e le Banche di investimento.

Le istituzioni repubblicane sono mantenute: il presidenzialismo, il Congresso bicamerale, l’autonomia della Banca Centrale. Il Senato, parte più conservatrice del parlamento, cambia solo di nome, diventando ‘Camera delle Regioni’.

Di amnistia per i prigionieri politici (600 sono ancora in carcere preventivo dalle rivolte del 2019) non si parla, mentre i responsabili dei morti e dei feriti continuano nell’impunità.

Promesse infrante

Il presidente Boric è giunto al governo l’11 marzo di quest’anno con un carico di promesse, tra cui una riforma fiscale, una sanitaria e una previdenziale.

Vittorioso al secondo turno con il 56% dei voti, ha capitalizzato le speranze di una generazione battagliera e stanca di un sistema politico ancora imbevuto dell’eredità della dittatura, con il suo carico di sfruttamento e di violenza.

Gabriel Boric ha avuto una rapida carriera: negli anni 2000 era nella sinistra autonoma; leader della Federazione studentesca universitaria nel 2011, durante le grandi mobilitazioni giovanili per un’educazione pubblica, gratuita e di qualità; viene eletto deputato nel 2013 come indipendente. Fonda nel 2016 il Frente Amplio, che si posiziona politicamente tra la sinistra storica comunista e i partiti della ex Concertación.

Appena eletto, la sua agenda si infittisce di incontri con i principali imprenditori cileni, con i partiti della destra e con ex presidenti come Ricardo Lagos e Michelle Bachelet. Con promesse di gradualità e moderazione e rassicurazioni per i mercati, Boric diventa la carta vincente del potere economico, garante di stabilità e continuità.

Viaggia negli Stati Uniti e in Canada, mandando messaggi tranquillizzanti: “Il mondo ha bisogno oggi del Cile, abbiamo litio, rame, energie rinnovabili (…) Il nostro paese è un ambiente sicuro per promuovere la prosperità negli affari e diventare un centro di innovazione verde in America Latina e nel mondo”. Ad ascoltarlo a Los Angeles c’erano i CEO di imprese come Amazon, AES Corporation Citibank, Coca Cola, Pfizer, AFP Habitat (fondi pensione), Google, Microsoft, Fedex, Bank of America.

Il suo programma elettorale subisce una decelerazione, le riforme si minimizzano, mentre si sprecano gli appelli ad investire in questo paese ricco di risorse e opportunità.

Nel nuovo governo dà incarichi-chiave a neoliberisti ben noti (al Tesoro, agli Esteri, alla Difesa, tra altri) e ad economisti di fama riformista.

Accoglie una severa disciplina fiscale e un’agenda di aggiustamenti sollecitate dai grandi imprenditori e dai rappresentanti del capitale internazionale, e una politica securitaria repressiva che riprende il lavoro sporco non concluso da Piñera.

Avvia l’”Agenda di sicurezza”, che dà più potere alla polizia e ai militari nella gestione dell’ordine pubblico. Viene messa in pratica subito dopo la vittoria del ‘rechazo’, in occasione delle proteste di studenti medi per il diritto allo studio e, come innumerevoli altre manifestazioni che continuano a tenersi nel paese, per la liberazione dei prigionieri politici. Per questi ultimi Boric si rifiuta ancora di concedere l’amnistia. I Carabineros attaccano violentemente i manifestanti, provocando feriti.

Nulla di nuovo per chi lotta: Boric aveva firmato con il governo Piñera e con la destra la “Legge anti-barricate e anti-sabotaggio”, che ha fornito sostegno legale alla repressione delle proteste dal 2019.

Dopo la sconfitta al plebiscito Boric riaggiusta la sua compagine di governo, dando più spazio alla vecchia guardia della ex-Concertación (agli Interni, all’Industria e alla Segreteria Generale della Presidenza) e annuncia cambiamenti in questo senso anche per Energia, Sanità e Educazione.

A fine settembre il governo Boric ratifica l’accordo commerciale TPP11, condizionandolo però a ‘clausole parallele’, da concordare con i singoli stati aderenti. L’accordo riguarda 10 paesi ed è un insieme di regole a tutela degli affari delle grandi imprese multinazionali, supportate da tribunali internazionali.

Il Cile è il paese vincolato da più trattati internazionali di libero commercio al mondo; attualmente sono 29.  Il 94% delle esportazioni cilene è verso i paesi firmatari di questi accordi. L’87% delle esportazioni verso questi paesi riguarda l’estrazione mineraria e di materie prime. Il principale destinatario è la Cina, che assorbe il 37% dell’export cileno, principalmente per legname, rame e litio.

Sebbene il Cile sia alla soglia della recessione, il neo presidente ha di poco ritoccato le royalties delle imprese minerarie, provocando un acceso dibattito fra il PC nel suo governo ma anche tra i suoi sostenitori. A 51 anni dalla nazionalizzazione con il governo di Unidad Popular, oggi il rame è quasi completamente privatizzato e in mano a imprese straniere (il Cile è il maggior produttore mondiale).

Il rame fu privatizzato durante la dittatura militare e continuò ad esserlo nei governi successivi. Oggi il 71% della produzione è in mano a BHP Billiton, AngloAmerican, Glencore, FreePort, per citarne alcune straniere; e alla cilena famiglia Luksic, con Antofagasta Minerals. Si stima che il rame frutti profitti privati tra i 12 e i 20 miliardi di dollari l’anno, spesso con risibili oneri per il fisco.

Nessuna risposta anche riguardo alle pensioni, allo drammatico strangolamento economico e alle tragedie personali provocate dalla gestione degli Amministratori di Fondi Pensione (AFP). Boric annuncia una “profonda riforma del sistema”: gli AFP cambieranno di nome, si porrà fine alle assicurazioni private (Isapre), finora facoltative, e gli AFP saranno affiancati da un gestore statale dei fondi, mantenendo il circolo speculativo.

E per i lavoratori?

Concessioni di scarsa portata o simboliche: l’aumento del salario minimo (consumato dai valori dell’inflazione al 12,81% in ottobre su base annua e dall’aumento dei prezzi) e una riforma tributaria che colloca qualche modesta imposta in più al padronato. L’impegno assunto da Boric sulla “responsabilità fiscale” blocca l’erogazione del Reddito Familiare di Emergenza (500.000 pesos per una famiglia di 4 persone, equivalente a 500 euro).

I lavoratori non vengono però risparmiati dall’apparato poliziesco del Cile ‘modernizzato’. Due mesi dopo l’assunzione in carica del nuovo governo, lavoratori esternalizzati della Compagnia Nazionale di Petrolio (ENAP), nella regione di Biobío, bloccavano per protesta gli accessi alla raffineria per protestare contro le pessime condizioni di lavoro e i bassi salari, congelati dal 2017 e inferiori a quelli dei dipendenti diretti.

[In Cile i lavoratori in outsourcing guadagnano il 29,5% in meno dei loro pari dipendenti diretti; il 50% in meno per chi lavora nell’industria mineraria]

Il blocco è stato sciolto con la violenza degli idranti e dei lacrimogeni dai Carabinieri del Controllo per l’Ordine Pubblico e alcuni operai sono stati fermati. Il governatore regionale non solo non ha risposto alle richieste dei lavoratori, ma ha tenuto a ribadire che, quando necessario, “si devono usare gli strumenti dello Stato di Diritto”. Lo stesso trattamento hanno ricevuto i manifestanti che a Santiago chiedevano la liberazione dei prigionieri politici e gli studenti medi che rivendicavano il diritto allo studio ed una scuola di qualità; e ancora la settimana seguente gli studenti che chiedevano l’aumento del contributo per la mensa delle scuole superiori. Il governo si era appena insediato, ma la polizia ha usato la violenza di sempre, guadagnandosi l’elogio per il lavoro svolto del ministro degli Interni Izkia Siches.

Anche gli immigrati in cerca di lavoro che entrano dalla frontiera nord vengono accolti con la violenza, facendo eco al discorso xenofobo della destra.

Nello stesso periodo il governo interviene nel sud, nella terra dei Mapuche: lo stato di emergenza proclamato da Piñera non viene interrotto, continuano le restrizioni alla libertà di circolazione e di riunione; vengono rafforzati i contingenti militari, inviati nuovi mezzi blindati e droni per 1 miliardo di pesos e attivato un nuovo sistema di spionaggio contro il ‘terrorismo’ dei nativi.

E’ assicurata la tutela dello Stato alle famiglie Matte e Angelini – ma non solo – che occupano 2 milioni di ettari delle terre mapuche con i loro altamente profittevoli latifondi per il commercio di legname.

Per la restituzione delle terre ai Mapuche il governo decide di affidare l’incarico alla discussa CONADI (Corporazione Nazionale si Sviluppo Indigeno, agenzia del Ministero dello Sviluppo sociale) (3) e istituisce, per mostrare la volontà di dialogo, il Ministero dei Popoli Indigeni; nomina un procuratore generale che vigili sui crimini connessi dal traffico di droga e dal furto di legname e approva un investimento di 400 milioni di pesos per infrastrutture e servizi.

Intanto la resistenza mapuche continua, criminalizzata, colpita e perseguitata, e alcune organizzazioni indigene di fronte alla crescente militarizzazione chiamano alla resistenza armata.

Fatica e miseria per chi lavora

Solo un mese dopo il suo incarico Boric perdeva parte dei suoi sostenitori (in base ai sondaggi dal 30 al 50% in meno), segno della disillusione e dei limiti del suo progetto “progressista e contro il neoliberismo”.

Finora le risposte alle criticità del paese sono state la riedizione delle vecchie ricette dei “30 anni”.

Dal novembre del 2021 la povertà estrema è aumentata del 13,6% (4), aggravata dalla guerra in Ucraina che ha fatto levitare i prezzi dei carburanti e dei beni di prima necessità.

La pandemia ha lasciato ancora scoperti 600.000 posti di lavoro e l’occupazione ricreata è precaria e a bassi salari; il 46,4% è informale e principalmente femminile.

Il 15,7% dei lavoratori sono occupati con contratti di esternalizzazione; nel settore dei servizi questa percentuale sale al 65,4% (5).

Il 17% dei lavoratori cileni hanno una settimana lavorativa di 46 ore; il 49% tra 44 e 45 ore.

Un rilevamento della Camera di Commercio di Santiago del maggio scorso evidenzia la situazione critica dei salari nel paese. La massa salariale è aumentata del 6,8% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, ma i salari reali sono diminuiti dell’1,8%. Il 52,1% della classe lavoratrice ha un salario che non consente di superare la linea della povertà (458.000clp, pesos cileni) ed oggi è inferiore a quello del 2017.

7 lavoratori su 10 hanno un salario inferiore a 680clp; solo il 19,4% dei lavoratori supera 900clp.

Il potere d’acquisto dei lavoratori è caduto come mai in 30 anni e sotto i livelli dell’ottobre 2019, quando il salario minimo era 301.000 clp.

I dirigenti della CUT erano soddisfatti quando hanno firmato con il governo Boric per un salario minimo di 380.000 clp. Ma per sollevare una famiglia di 4 persone dalla povertà il salario minimo lordo dovrebbe essere almeno di 630.000 clp (Fundación Sol).

Il valore del paniere a settembre è cresciuto del 23%. Prodotti come farina, pane, zucchero, benzina sono aumentati di oltre il 30%.

Il ciclo aperto con la ribellione del 2019 non è chiuso. E non passerà dal processo costituzionale il cambiamento reale a cui aspirano le forze popolari.

La possibilità che il Cile si emancipi dall’eredità della dittatura in forma pacifica e riformista si è dimostrata un’illusione.

Lavorare meno, guadagnare di più, avere migliori pensioni e sicure sono condizioni che non saranno possibili ottenere se non con le lotte.

Per ora i padroni del paese possono continuare a dormire sonni tranquilli.

  • coalizione di partiti di centro e centrosinistra che governò il Cile dal 1990 al 2010, tra il partito Socialista e la Democrazia Cristiana, di fedele gestione neoliberista
  • la LIT-CI (Lega Internazionale dei Lavoratori-Quarta Internazionale) dopo la sconfitta dell’”apruebo” ammette che sì, ora “si deve tornare alla base”, ma continua a sostenere che il processo costituente fu una vittoria del 18 ottobre, anche se egemonizzata dal riformismo!
  • L’ente ministeriale gestisce la compravendita di terreni per conto dello stato da assegnare alle famiglie mapuche che ne facciano richiesta. Questa attività talvolta è poco trasparente e guidata più da interessi dello Stato e delle imprese che della popolazione nativa. I Mapuche vengono spesso criminalizzati e resi invisibili nelle rilevazioni demografiche per evitare problemi alle valutazioni di fattibilità di progetti e impianti e non ostacolare gli affari.
  • dalla Relazione mensile del Ministero per lo Sviluppo Sociale, ottobre 2022.
  • http://fundacionsol.cl; Fundación Sol è un centro di ricerca cileno che promuove l’autorganizzazione sociale e operaia.

Bibliografia:

La Izquierda Diario: ottobre 2020; novembre, dicembre 2021; gennaioà ottobre 2022

Le Monde Diplomatique: aprile 2021; gennaio 2022

Fundación Sol: Informativa mensile sulla qualità dell’impiego (luglio-settembre 2022); Salari reali in Cile (2022)

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