Proletari e borghesi nel capitalismo russo

Pubblichiamo una versione aggiornata dell’articolo “Proletari e borghesi nel capitalismo russo”, comparso nel n. 52 di Pagine Marxiste, per la sua rilevanza rispetto alla nostra posizione sulla guerra in Ucraina.

Anche se “il nemico principale è in casa nostra”, nel senso che il nostro internazionalismo sarebbe parolaio e non concreto se non denunciassimo e per quanto possibile non combattessimo la politica di guerra della NOSTRA borghesia imperialista e del suo Stato (e relative alleanze militari, essenzialmente la NATO), non può valere il principio che “il nemico del mio nemico (principale) è mio amico”, né il criterio (seguito da chi non osa negare i caratteri capitalisti del “campo” filorusso) del “meno peggio”. Questi criteri valgono per chi ha come riferimento gli STATI (dei capitalisti), e vede la politica internazionale come un collocarsi tra di loro, portando a questa politica (borghese, socialimperialista o “rossobruna” che dir si voglia) la propria eventuale influenza nella società e/o si propone di spostare l’asse della politica estera NAZIONALE in direzione del CAMPO ora avversato. Non vale per chi come noi ha come riferimento LE CLASSI sociali, ed è schierato CON IL PROLETARIATO, la CLASSE LAVORATRICE CONTRO I CAPITALISTI e i loro Stati, e le loro guerre, contro il capitalismo come sistema, e ha per questo l’obiettivo di una società diversa, una società senza classi, senza sfruttamento e guerre.

Da questo punto di vista lo Stato russo è uno Stato capitalista come sono capitalisti quelli delle potenze che avversano la Russia. Per noi sono tutti nemici, e il nostro compito è far crescere il “campo proletario”, tra gli sfruttati di tutto il mondo e in particolare nei paesi coinvolti nella guerra. Anche in Russia e in Ucraina vi sono gruppi, per quanto ristretti e con percorsi ideologici differenti, di giovani e lavoratori che assumono questo punto di vista, e ciò ci incoraggia nella nostra azione (vedi ad es. https://pungolorosso.wordpress.com/2023/03/07/dalla-russia-contro-una-guerra-ingiusta-predatoria-aggressiva-da-entrambe-le-parti-lega-della-gioventu-comunista-rivoluzionaria-bolscevica-di-russia-italiano-inglese-russo/ e https://pungolorosso.wordpress.com/2023/07/05/nostra-intervista-ai-compagni-del-fronte-dei-lavoratori-dellucraina-m-l/).

L’articolo che pubblichiamo fornisce elementi concreti a sostegno della nostra posizione sulla guerra, come definita nel convegno di Roma del 16 ottobre e concretizzata nell’Assemblea contro la guerra di Milano dell’11 giugno (vedi https://pungolorosso.wordpress.com/2023/06/14/milano-11-giugno-unassemblea-che-da-forza-alliniziativa-di-classe-internazionalista-contro-la-guerra-in-ucraina-e-tutte-le-guerre-del-capitale/ ).

Il presidente americano Biden giustifica l’impegno di decine di miliardi di dollari per armare l’Ucraina come difesa della democrazia contro l’autocrazia. Uno strano “sacrificio” di risorse per una tal nobile causa da parte della stessa potenza che ha sostenuto e sostiene dittatori in mezzo mondo (da Pinochet ai reali sauditi, anche se ora Bin Salman fiutando il vento multipolare gli sta girando le spalle…).

Noi non crediamo che Stati Uniti e alleati NATO siano in guerra con la Russia per ciò che li differenzia come sistemi politici, ma per ciò che li accomuna come sistemi sociali: il capitalismo. È nella natura del capitalismo, specie se fortemente concentrato e maturato in senso imperialista, la lotta per i “mercati” e le materie prime, dove per “mercato” si intende anche quello della forza lavoro, l’unica merce il cui acquisto genera più valore di quel che costa.

Gli Stati Uniti d’America sono da oltre un secolo il modello del “capitalismo puro” e selvaggio, il regno della “libertà” … di sfruttare il bisogno altrui per arricchirsi – un modello al quale sempre più si stanno avvicinando anche i paesi europei con la precarizzazione dei rapporti di lavoro e lo smantellamento dello “stato sociale”, con il risultato di una crescente divaricazione tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.

Come si presenta sotto il profilo sociale la Russia, il cui governo sta sfidando le potenze occidentali in Ucraina? A oltre 30 anni dal crollo dell’URSS nella percezione comune permane l’idea che si tratti di una società in qualche modo diversa e comunque non così selvaggiamente capitalista.  Ma un’analisi condotta principalmente sulle stesse fonti ufficiali russe ci mostra una società divisa nelle stesse classi di sfruttatori e sfruttati, con ineguaglianze non meno forti che nei paesi capitalistici occidentali.

Nell’attuale guerra tra imperialismi NATO e imperialismo russo in Ucraina non c’è un “male minore” da scegliere, ma lo stesso male peggiore su entrambi i fronti, da combattere con l’unione dei proletari di tutti i paesi.

L’Annuario Statistico 2020 della Russia[1] (dal quale sono tratti i dati quando non siano specificate altre fonti) dà una popolazione di 146,3 milioni di persone, con un calo naturale di oltre 300 mila (più morti che nati) in un anno. Trent’anni fa c’era un milione di abitanti in più. Anche qui come in Italia il tasso di fertilità, pur risalito da poco più di 1 figlio per donna nel 2000 a circa 1,5, determina un continuo declino demografico, che l’immigrazione colma solo in parte. E’ in parte l’effetto di una società fortemente urbanizzata (i tre quarti della popolazione vive in città, contro meno di 1 su 5 nel 1917; oltre la metà vive in centri con più di 100 mila abitanti), dove una parte della popolazione non ha un reddito sufficiente per metter su casa e far crescere dei figli, anche a seguito dello smantellamento di gran parte del welfare. Le maggiori metropoli europee tuttavia sono in crescita grazie a una migrazione interna da Siberia, Estremo oriente e regione del Volga, che quindi si vanno spopolando ulteriormente. Il divario città-campagna è infatti notevole, con una incidenza della povertà nelle campagne più che tripla che nelle città.

L’aspettativa di vita alla nascita, un indicatore sintetico del “benessere materiale”, aveva raggiunto i 69 anni nel 1990, per scendere a 65 nel 2000, a seguito del crollo economico e del dilagare di disoccupazione e povertà, ed è risalita a 73,3 anni nel 2019 (4 anni meno che negli USA, 9 meno che in Italia). Ma per un uomo la speranza di vita è di 68 anni, dieci in meno che per una donna. Il divario tra uomini e donne è tra i più alti al mondo, e più che doppio rispetto all’Italia, un fatto in parte correlato al diffuso e storico alcolismo maschile.

Forte proletarizzazione, bassa quota dei salari

Gli occupati sono circa 72 milioni (donne 35 milioni, quasi alla pari con gli uomini), di cui 67 milioni, pari al 93%, sono lavoratori dipendenti, e solo un 5% sono lavoratori autonomi, 1,5% imprenditori. Un livello di proletarizzazione quindi tra i più elevati del mondo, e numeri molto ristretti di strati intermedi e piccola borghesia (in Italia sono 3-4 volte più numerosi). Tuttavia ai lavoratori dipendenti va solo il 45,7% del reddito nazionale (quota in calo di 4 punti rispetto al 2010, quando era del 49,6%, secondo le statistiche ufficiali), cifra che include i trasferimenti ricevuti tramite lo stato sociale (sanità e benefici vari). Il restante 54,3% va in larghissima parte al milione di capitalisti[2], e principalmente ai più grandi tra essi, i cosiddetti “oligarchi”, che ringraziano Putin le cui politiche gli hanno permesso di aumentare i profitti a scapito dei salari.

Questo primo dato grezzo ci dice molto della struttura sociale russa, fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato quanto e ancor più, se possibile, delle società europee e nordamericana. I dati ILO sulla quota del PIL che va al “lavoro”, e che comprendono anche stime (opinabili) sulla remunerazione del lavoro dei lavoratori autonomi, dà Francia, Germania e Italia tra il 60% e il 63%, USA e GB al 57-58%, e la Russia al 52%. In ogni caso in Russia la quota del prodotto che va al capitale risulta maggiore che nei paesi capitalisti occidentali, indice di un maggiore tasso di sfruttamento e di un minore potere contrattuale dei lavoratori. Da notare che il lavoro “informale”, ossia l’economia sommersa (evasione fiscale e contributiva) è stimato al 17% del totale, in forte crescita rispetto al 12% del 2010 (per un confronto, in Italia il lavoro sommerso è stimato al 12%, 3 milioni di persone). Il putinismo ha favorito anche questi processi sociali, non diversamente da quanto avvenuto in Italia e Germania negli stessi anni con la liberalizzazione del mercato del lavoro.

Crollo dell’industria, crescita dei servizi

Dove lavorano i 72 milioni di occupati in Russia? Dal disfacimento dell’URSS nel 1991-92 e dalla liberalizzazione economica avviata già negli anni di Gorbaciov, l’area ha subito il violento impatto del mercato mondiale che ha messo fuori gioco buona parte dell’apparato industriale. I lavoratori dell’industria sono scesi da 1 su 3 a 1 su 7 occupati (dal 34 al 14%), con milioni di licenziati a seguito di chiusure e ristrutturazioni. Il ridimensionamento del peso dell’industria è un fenomeno che riguarda tutte le metropoli, ma in Russia è stato particolarmente drastico. Contemporaneamente è enormemente cresciuto il peso dei servizi, salito a 41 milioni (58% del totale). A questi si aggiungono i lavoratori delle costruzioni (6,4 milioni), dei trasporti (5,4 milioni) e delle reti di elettricità, gas e idriche (2,3 milioni). In agricoltura restano meno di 4,8 milioni di lavoratori, il 6,7%, un numero più che dimezzato rispetto al 1991, quando i lavoratori agricoli erano il 14% del totale. Anche qui la Russia segue con un ritardo di una o due generazioni  il trend delle altre metropoli capitalistiche. L’industrializzazione dell’agricoltura, fallita sotto il capitalismo di stato, viene portata avanti dal grande capitale privato, con l’uso di un numero ridotto di lavoratori salariati, e facendo della Russia uno dei principali esportatori agricoli mondiali. Tra i maggiori gruppi agricoli (in ordine di estensione dei terreni di proprietà): Prodimex e Agrokultura di Igor Khudokormov: 790mila ettari, 15.000 dipendenti, fatturato 2016 di 755 milioni di dollari (cereali, soia), profitti per 15.1 milioni; Miratorg di Viktor e Alexander Linnik, 676.000 ha, 30.000 dipendenti, $1,927 miliardi di fatturato (allevamento, mangimi, agroalimentare compresa distribuzione), 337,3 milioni di profitti nel 2016; Rusagro di Vadim Moshkovich (sede legale: Cipro), 675.000 ha, 14.000 dipendenti, fatturato 2016 $ 1,356miliardi (zucchero, suini, cereali, oleaginose/olio) con 95 milioni di profitti;  Agrocomplex di Alexander Tkachev, 644.000 ha, 24.000 dipendenti,  $722.9 milioni di vendite con 48milioni di profitti (legumi, cereali, barbabietole, oleaginose); Volgo-Don Agroinvest di Sergei e Alexei Kukura, 452.000 ha, 2.400 dipendenti,  $97.2 milioni fatturati,               10.6 milioni di profitti.[3]

Ci sono inoltre poco più di un milione di persone che lavorano nel settore estrattivo (dal carbone ai metalli al petrolio e gas), l’1,6% dei lavoratori le cui attività generano tuttavia un risultato operativo (utili lordi) superiore a quello di tutta l’industria manifatturiera dove lavorano quasi 10 milioni di persone. E’ l’elevata rendita (soprattutto nel settore petrolio e gas) che da un lato genera forti sovrapprofitti aziendali (di cui qualche briciola va a pagare salari doppi rispetto all’industria) e dall’altro costituisce la principale fonte di finanziamento dello Stato russo. Anche il settore immobiliare, con meno di due milioni di addetti, nel 2019 ha generato un surplus operativo pari a quello del commercio che occupa 13,5 milioni: anche in questo settore abbiamo un’alta rendita immobiliare e sovrapprofitti da attività speculative – come in tutto il mondo capitalista.

Forti differenziazioni salariali

A quanto ammontano i salari russi? Secondo l’ILO (Ufficio internazionale del lavoro) https://ilostat.ilo.org/topics/wages/ [4] EAR_4HRL_SEX_OCU_CUR_NB_A_EN la retribuzione media oraria nel 2017 era di 222 rubli, pari a circa euro 6,85[5], rispetto ai 16 euro per ora lavorata (includendo il pagamento di 13^, 14^, ferie e permessi) dell’Italia e i quasi 20 euro della Germania. La retribuzione oraria delle donne è pari al 75% di quella degli uomini, un divario di genere nettamente superiore a quello rilevato in Europa e Stati Uniti. Vi sono anche forte differenze settoriali e territoriali. Il salario mensile medio è di 26 mila rubli nel tessile, 28 mila nel turismo-ristorazione, 32 mila rubli in agricoltura, 37 mila nell’istruzione, 44 mila nell’industria manifatturiera, 51 nei trasporti, 82 mila nella petrolchimica, 104 mila nella finanza e assicurazione, 135 mila nell’estrazione di petrolio e gas. Un ventaglio intersettoriale da di 1 a 5 e più, più accentuato che nelle altre metropoli, collegato come ovunque alla composizione organica del capitale (il capitale investito per addetto) nelle varie branche, e in parte dovuto, per il petrolio e gas, al fatto che l’estrazione avviene in gran parte in regioni sperdute e dal clima inospitale, dove nessuno andrebbe a vivere senza un forte incentivo, e alla disponibilità di sovrapprofitti: si tratta di una “aristocrazia operaia” di confinati. Spicca il basso livello degli stipendi nel settore istruzione, in gran parte femminile, inferiori all’industria manifatturiera.

Forti anche le differenze regionali di redditi e salari, che in parte si intersecano con quelle settoriali. La retribuzione media lorda a Mosca è di 94 mila rubli, il doppio della media della Federazione Russa (47 mila, pari a circa 1.300 euro/mese, inclusi i contributi sociali e le imposte) ma nella provincia di Ivanovo (che come Mosca fa parte del Distretto Centrale) è di soli 27 mila rubli. L’enorme estensione territoriale e le forti distanze riducono l’integrazione tra le diverse regioni (che nei mesi invernali sono spesso isolate le une dalle altre). Ancora più forti gli squilibri territoriali nel reddito procapite, dati i diversi tassi di occupazione e strutture demografiche. Hanno un terzo o meno del reddito di Mosca, la metà delle repubbliche e regioni del Volga e del Caucaso, con diverse regioni sotto i 20.000 rubli.

La popolazione al di sotto del minimo di sussistenza (il 12,3% su scala nazionale, il 7,3% a Mosca e il 6,5% a San Pietroburgo) sale al 34% nella repubblica di Tuva e al 30% in Inguscezia; la povertà supera il 20% in diverse altre regioni del Nord Caucaso (repubbliche Kabardino-Balkaria, Karachayevo-Circassia e Cecena, del Sud (Kalmykia), del Volga (Mari), della Siberia ed Estremo Oriente (Altay, Tuva, Khakassia, Buryatia, territorio trans-Baikal e Regione autonoma Ebraica (al confine con la Cina lungo l’Amur (dove tuttavia è rimasto poco più dell’1% di ebrei). Queste forti disparità sono non solo regionali, ma anche etniche, con le minoranze in condizioni svantaggiate rispetto alla popolazione russa. Le disparità sono ancora più stridenti rispetto alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, divenute indipendenti e principale fonte di immigrazione in Russia (vedi riquadro).

Gli squilibri regionali si combinano con lo squilibrio città-campagna: il 25% della popolazione che vive in piccoli centri vede un tasso di povertà del 23% circa, più che triplo di quello delle aree urbane. Solo il 40% delle abitazioni rurali ha disponibilità di acqua calda e di un bagno o doccia.

Il prezzo della carne da cannone

È soprattutto da queste regioni povere che vengono reclutati i militari mandati al massacro in Ucraina. Analogamente in Italia la maggior parte dei poliziotti, carabinieri e militari di carriera viene dal Sud, dove il reddito procapite è circa la metà del Nord. In occasione della guerra il soldo dei militari russi è stato portato a 160.000 rubli, 2.700 dollari al cambio corrente, cui un decreto di Putin di inizio novembre 2022 ha aggiunto una una tantum di 195.000 rubli (3.200 dollari) per chi era in servizio in Ucraina. La paga del soldato è quindi 3 volte e mezza il salario medio e oltre 6 volte quello delle regioni più povere. Analogo l’incentivo a rischiare la pelle pagato dal governo italiano ai militari (di professione) inviati in Iraq nel 2003 (circa 4 mila euro al mese, pari a oltre 5.600 euro attuali). Anche negli Stati Uniti la “carriera” militare è seguita in misura più che proporzionale dai giovani di famiglie povere, in particolare di colore (tranne che tra i Marines), ma la paga del soldato semplice in missione senza anzianità è paragonabile al salario di un operaio, non a un suo multiplo. Qui il vantaggio è soprattutto la possibilità di laurearsi senza pagare gli altissimi costi dell’università, con la speranza di salire la scala sociale, o la prospettiva di carriera militare. Anche l’esercito ucraino per attrarre volontari ha portato la paga dei militari a 100.000 hryvnia, pari a circa 2.500 dollari al mese. Rischiare la pelle per uscire dalla povertà…

Per contenere le proteste delle famiglie che piangono i loro figli e mariti caduti in Ucraina, la Russia aveva annunciato a inizio guerra un indennizzo pari a 7,4 milioni di rubli, un importo che al cambio corrente è inferiore a 100.000 euro, ma che in termini di potere d’acquisto potrebbe valere anche il doppio. La cifra è scesa a 5 milioni di rubli nel gennaio 2023. Gli invalidi di guerra ricevono 3 milioni di indennizzo. Secondo alcune fonti[6] tuttavia lo stato non risarcisce le famiglie dei soldati considerati “dispersi”, e per questo motivo molti cadaveri sarebbero abbandonati, mentre ci sarebbe un indennizzo aggiuntivo delle regioni/repubbliche della Federazione Russa, di importo variabile. L’indennizzo pagato dall’Ucraina alle famiglie dei soldati deceduti in guerra è pari a 15 milioni di hryvnia, che al cambio corrente sarebbe pari a 375 mila euro. Il prezzo del patriottismo, che l’inflazione conseguente all’enorme deficit sta velocemente abbattendo, ma che può evitare che il dolore dei familiari si trasformi in rabbia anti-patriottica.

Su entrambi i versanti del fronte ucraino centinaia di migliaia di proletari sono mandati a massacrarsi per decidere quali capitalisti avranno il “diritto” di sfruttare i proletari ucraini: se gli oligarchi ucraini alleati ai capitalisti occidentali, oppure gli oligarchi russi (dietro i quali si profila il capitale cinese). Questo il carattere di classe anche di questa guerra, che se fosse ben compreso dai proletari russi e ucraini dovrebbe portare alla loro fraternizzazione e a rivolgere le armi contro i rispettivi governanti.

Le disparità territoriali e settoriali che abbiamo evidenziato in Russia hanno la loro radice nella divisione in classi e nella stratificazione di queste. Secondo le statistiche della contabilità nazionale Il 20% più ricco della popolazione (capitalisti, professionisti e manager) ha il 47% dei redditi, il 20% più povero il 5,3%. Il reddito di chi si trova a metà strada (la mediana) nel 20% più ricco è 15,4 volte quello di chi si trova a metà strada nel 20% più povero! Negli Stati Uniti questo rapporto è stimato a 13,5 volte per il 2021[7]. Una ineguaglianza sociale, quella della Russia, non inferiore a quella, stridente, degli Stati Uniti o dell’Italia.

Analisi più approfondite indicano una ineguaglianza sociale ancora più forte.

Quota di reddito del 10% più ricco: Russia, USA e Francia

In questo confronto tra stime condotte con metodi analoghi, il 10% più ricco ha circa il 45% di tutto il reddito, al pari che negli Stati Uniti. L’introduzione della flat tax del 13% sui redditi nel 2001 (una delle prima “riforme” di Putin) ha permesso ai capitalisti russi di pagare le stesse aliquote degli operai. La flat tax di Putin è il modello anche per la destra italiana.

Secondo le statistiche ufficiali russe, nel 2019 18,1 milioni di persone, pari al 12,3%, avevano un reddito inferiore al minimo di sussistenza, indicato in 10.890 rubli (€ 336 a parità di potere d’acquisto), un numero notevole anche se molto ridotto rispetto al 42% raggiunto nel 2000 a seguito del collasso dell’economia. Tra questi poveri, molti i pensionati, dato che il livello medio della pensione è pari al 29% del salario medio. L’indennità di disoccupazione è infima, tra circa 30 a 100 euro.

Il 10% più povero della popolazione russa vive con un reddito mensile inferiore a 10.000 rubli (308 euro) e il secondo decimo non arriva a 432 euro; il 50% più povero sta sotto i 27.000 rubli, pari a 833 euro, mentre il 4% più ricco ha più di 100.000 rubli, 3086 euro.  Se passiamo alle diverse decine di oligarchi, i redditi si misurano in miliardi di rubli – come in Occidente. Secondo il citato studio di Filip Novokmet, Thomas Piketty, e Gabriel Zucman del 2017, dal quale abbiamo tratto i grafici di questo articolo, nei 25 anni seguiti al crollo dell’URSS (tra il 1989 e il 2016), dopo la precipitosa caduta nei primi 5 anni, il PIL per abitante adulto in Russia è aumentato del 41%, e il reddito MEDIO si è un po’ ravvicinato a quello di Germania-Francia-Gran Bretagna, passando dal 60-65% al 70-75% in termini di potere d’acquisto (nello stesso periodo l’Italia ha invece perso terreno rispetto  agli altri paesi europei). Tuttavia questa crescita della MEDIA nasconde un forte aumento delle ineguaglianze che ha portato un peggioramento per metà della popolazione: il 10% più ricco ha visto crescere i propri redditi del 171%, il 40% mediano del 15%, mentre il 50% meno ricco ha visto diminuire del 20% il proprio reddito medio! A parte le ville e gli yacht degli oligarchi russi (e ucraini, Putin e Zelensky inclusi) in Toscana e Sardegna. Le cronache del tremendo terremoto in Turchia hanno rivelato che ad Adana (sul Mediterraneo) il costo delle abitazioni era fortemente lievitato fino a divenire proibitivo per i lavoratori turchi, in seguito ai massicci acquisti di seconde case da parte dei borghesi russi.

Fig. 1: Distribuzione del reddito in Russia, 1905-2015

[Distribuzione del reddito nazionale prima delle imposte (prima di imposte e trasferimenti esclusi pensioni e indennità di disoccupazione) tra gli adulti. Le stime corrette combinano i dati delle indagini campionarie, fiscali, patrimoniali e della contabilità nazionale. […].[1]

Ridimensionamento del capitalismo di Stato

Le privatizzazioni hanno ridimensionato la presenza del capitale di stato: nel 1992 occupava il 69% degli addetti, nel 2000 il 47% e nel 2019 il 39% (principalmente nel settore bellico e altri settori strategici). Contrariamente alla vulgata del “socialismo reale”, alias capitalismo di Stato, la proprietà statale di un’impresa non ne muta il carattere sociale di impresa capitalistica, che acquista lavoro salariato per trarre profitto dalla sua attività lavorativa, appropriandosi del prodotto del lavoro e del plusvalore che realizza con la vendita. Lavoro e capitale sono contrapposti, indipendentemente dal carattere privato o statale della proprietà. Certo le imprese statali/municipali possono essere condizionate da fattori politici, ma l’esperienza italiana dei grandi carrozzoni capital-statali IRI, ENI, ENEL, EFIM, FS e l’azionariato pubblico dell’80% delle banche fino ai primi anni ’90 si è risolta con il taglio di centinaia di migliaia di posti di lavoro, e nel caso di IRI ed EFIM nello smembramento e privatizzazione delle aziende. Esperienze che dimostrano come anche sotto il capitale di Stato la condizione dei lavoratori rimaneva di subalternità e sfruttamento, anche se fino agli anni ‘80 i bancari e i dipendenti ENEL potevano definirsi “aristocrazie salariali” (con salari anche doppi rispetto a lavoratori svolgenti le stesse funzioni nel privato) per le condizioni di monopolio in cui si trovavano le aziende (quello dell’aristocrazia operaia è un fenomeno già osservato da Engels in Gran Bretagna nella seconda parte dell’800, e da Lenin all’inizio del ‘900 quale base per la corruzione dei settori più organizzati della classe lavoratrice e dei loro sindacati) . Oggi gran parte di quei privilegi sono scomparsi, non tanto per il passaggio al privato, quanto per la rottura delle condizioni di monopolio (anche se ENI, che opera da azienda privata, conserva la rendita petrolifera, con briciole che possono cadere nelle tasche dei dipendenti più qualificati, e dei dirigenti).

Questo vale anche per la Russia, con le forti differenze settoriali dei salari già viste a favore dei settori con rendite e del settore finanziario. L’alto livello dei salari a Mosca fa pensare che le retribuzioni negli enti centrali della Pubblica Amministrazione siano particolarmente elevate per garantire adesione al sistema.

Certo il crollo dell’URSS ha segnato, oltre che la disgregazione dell’Unione, anche la fine del sistema che veniva definito “socialista”, ma che a nostro parere era in realtà una forma di capitalismo di Stato, per cui la privatizzazione e mercatizzazione hanno comportato una rottura nel rapporto tra i “capitali individuali”, tra le aziende, che si sono liberate della tutela statale, e possono disporre direttamente di tutti i profitti che realizzano (una volta pagata la flat tax del 13% introdotta da Putin, una delle aliquote più basse del mondo), mentre vi è stata continuità nel rapporto lavoro salariato/capitale, nella subalternità del primo al secondo.

L’arretratezza della Russia dell’Ottobre (e lo sconquasso della guerra) non permisero il salto al comunismo, che significa abolizione del lavoro salariato e del denaro, abolizione del capitale quale entità contrapposta alla forza lavoro, e produzione direttamente sociale, non mediata dal denaro.

Lo Stato assunse la proprietà di gran parte dei mezzi di produzione, ma i lavoratori rimasero lavoratori salariati, costretti a vendere la forza lavoro al capitale statale. Nei primi anni dopo la rivoluzione lo Stato russo fu tenuto sotto controllo dal partito rivoluzionario, che intendeva servirsene per promuovere la rivoluzione proletaria in Europa e nel mondo, per arrivare a sopprimere la schiavitù salariata. Ma esaurita l’ondata rivoluzionaria in Germania e Italia, con la controrivoluzione staliniana (che massacrò gran parte dei protagonisti dell’Ottobre) lo Stato sovietico divenne lo Stato del Capitale, che centralizzò in capo alla Banca centrale il plusvalore estratto dai lavoratori, per “guidare” l’accumulazione non in base alle forze di mercato, ma secondo un “piano” che pose al primo posto la Difesa (la produzione di armi), all’ultimo i consumi dei proletari. Non è qui il luogo per tracciare una storia dei piani quinquennali e della partecipazione dell’URSS alla Seconda guerra mondiale imperialista, prima come alleata della Germania per la spartizione della Polonia (e l’inglobamento degli Stati Baltici), poi come alleata di USA e Gran Bretagna contro gli invasori tedeschi, così come del quarantennio successivo di “guerra fredda”, che si concluse con l’implosione dell’URSS. I dati odierni indicano che dopo 70 anni di capitalismo di Stato e altri 30 di capitalismo (in parte) “di mercato” gli squilibri territoriali, etnici e soprattutto sociali sono rimasti (così come sono rimasti negli Stati Uniti e in Italia), questi ultimi amplificati dal passaggio alla proprietà privata dei mezzi di produzione.

È da notare che la dissoluzione dell’URSS, con il passaggio dal centralismo statalista al mercato (già avviato a fine anni ‘80 da Gorbacev con la Perestroika) e il processo di privatizzazione sono avvenuti senza scossoni sociali, senza la necessità di una controrivoluzione né resistenze di massa dei lavoratori: salariati erano, salariati sono rimasti; è solo cambiata la forma giuridica del padrone: prima a capitale statale/municipale, poi in parte privato. La controrivoluzione, con l’estromissione dal potere statale della classe lavoratrice, era avvenuta tra la fine degli anni ’20 e gli anni ’30 con l’annientamento dei protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre nelle purghe staliniane.  

Nel processo di privatizzazione è stato molto usata la forma apparentemente democratica e partecipativa della distribuzione di azioni ai dipendenti, i quali, dato il crollo del potere d’acquisto dei salari, hanno dovuto rivenderle agli aspiranti oligarchi i quali, grazie alle connessioni politiche, hanno usufruito del credito necessario per rastrellare le azioni e diventare “padroni”, anche con un apposito meccanismo “prestiti (a Stato ed enti locali indebitati) contro azioni” che ha permesso l’ascesa di molti “oligarchi”.

“Borghesi e proletari”: si torna all’abc del Manifesto di Marx, e alla necessità della rivoluzione che accomuna i lavoratori russi con quelli europei, americani, cinesi…

La classe operaia russa ha espresso importanti lotte negli anni ’90, (dai minatori agli insegnanti)  a difesa del salario decimato dall’iperinflazione (i prezzi di moltiplicarono di quasi 5000 volte tra il 1990 e il 1996). Negli ultimi 20 anni la progressiva stabilizzazione economica e la risalita dei salari reali, insieme a un’accresciuta repressione di ogni forma di opposizione, hanno portato alla riduzione degli scioperi. Con l’”operazione speciale”, alias invasione dell’Ucraina per il proletariato russo c’è in gioco ben più del livello dei salari. C’è in gioco, come nel 1914-1917, la scelta tra divenire carne da cannone per l’imperialismo russo e i suoi oligarchi, in nome di quella stessa “Grande madre Russia” che Putin vorrebbe restaurare, e l’indipendenza di classe, l’internazionalismo proletario, l’opposizione alla guerra e la fraternizzazione con i proletari ucraini, il fare come nel 1917…

Fig. 2: Crescita reale cumulativa del reddito per percentile in Russia, 1989-2016

Distribuzione del reddito nazionale al lordo delle imposte e dei trasferimenti, escluse le pensioni e l’indennità di d, tra gli adulti ripartiti in parti uguali (reddito delle coppie sposate diviso per due). Le stime corrette combinano indagini, dati fiscali, patrimoniali e di contabilità nazionale.[1]
P10 rappresenta il livello di reddito che divide il 10% più povero della popolazione dal restante 90%; tra il 1989 e il 2016 questo reddito è dimezzato; P50 rappresenta il reddito che divide il 50% più povero dal 50% più ricco. Nel periodo 1989-2016 è rimasto fermo; P99 è il reddito sopra il quale si colloca l’1% più ricco della popolazione: nel periodo è aumentato del 150%, mentre la soglia di reddito dello 0,1% più ricco è aumentata di ben 4 volte.

Fig. 3: Quota di reddito del 10% più ricco: Russia, USA e Francia

Distribuzione del reddito prima delle imposte e dei trasferimenti (escl. Pensioni e indennità di disoccupazione); redditi di coppie divisi per due.

Fig. 4: Concentrazione della ricchezza in Russia, 1995-2015

Immigrati asiatici
Si stima che vi siano in Russia circa 6 milioni di immigrati, in grande maggioranza provenienti dalle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale: Uzbekistan, Tajikistan, Kyrgyzistan, con una notevole oscillazione stagionale, mentre è diminuita l’immigrazione da Cina, Vietnam, Nord Corea e Serbia (nel 2007 si sarebbe raggiunto il picco di 7 milioni di immigrati). Fino al 2014 c’erano anche 1,5 milioni di ucraini, poi in gran parte defluiti verso la UE. A questa immigrazione dall’esterno si aggiunge una migrazione interna di circa altri 4 milioni, agevolata dal passaggio alla copertura sanitaria nazionale (da provinciale), mentre gli immigrati “stranieri” devono pagare tutto.
L’immigrazione, come in Italia, va a coprire un crescente deficit di forza lavoro dovuto al costante declino demografico (a metà anni ’20 si saranno persi circa 10 milioni di forze lavoro rispetto al 2007), e i posti di lavoro più umili e pesanti: dalle badanti (quasi tutte in nero) all’edilizia (con circa il 50% di lavoro nero), le guardie e i trasporti, regolari, ma che con orari più lunghi dei russi. Nel 2010 è stata introdotta la patenty, come tassa sui lavoratori domestici stranieri, che si presume siano in nero, inizialmente pari a 1.100-1.200 rubli al mese (nel 2014 ne sono state emesse 2,4 milioni). In seguito la patenty è stata resa obbligatoria per tutti gli stranieri assunti da imprese, e a Mosca era pari a 4.500 rubli (circa $70) al mese. A questa si aggiunge una tassa di ingresso di 16-18 mila rubli.
La pratica diffusa di non registrare gli affitti rende spesso difficile la regolarizzazione, essendo la disponibilità di un alloggio un prerequisito. Vi è un forte disciplinamento dell’immigrazione: alla seconda infrazione, anche amministrativa (come l’attraversare col rosso), l’immigrato non può più rientrare in Russia. Come si può immaginare ciò costituisce una fonte di arricchimento e corruzione per chi ha potere sugli immigrati. Il 70% delle multe per irregolarità dell’immigrazione è pagato in nero ai poliziotti[1]. Non vi sono regole precise per ottenere il permesso di residenza di lungo periodo (con l’immaginabile arbitrarietà delle decisioni). In sua mancanza, il periodo massimo di permanenza legale in Russia è di un anno. Molti in realtà restano clandestinamente, ma devono spesso accettare condizioni schiavistiche. Dalla divaricazione dei dati ufficiali sul numero di immigrati (per il 2019 4,9 milioni secondo il Servizio Statistico russo, e 32,6 milioni secondo i Servizi di Sicurezza) traspare un forte numero di immigrati irregolari che, privi di protezioni legali, sono esposti al supersfruttamento da parte di profittatori e caporali. Tutto il mondo capitalista è paese. Nel 2005 una sanatoria in 9 regioni ha fatto emergere solo 7 mila irregolari.
Tra il gennaio e il settembre 2021 sono entrati in Russia 2 milioni di tajiki, di cui 1,6 milioni in cerca di lavoro, pari a un quarto delle forze lavoro tagike. Le rimesse degli emigrati tagiki nel 2019 sono state pari a $2,6miliardi, pari al 28% del PIL del Tajikistan e 3 volte il suo export. Dall’Uzbekistan sono immigrati in Russia nello stesso periodo 3,3 milioni di persone, ma su una popolazione molto maggiore. Dati che indicano la fortissima dipendenza di queste repubbliche dall’emigrazione in Russia, e il loro ruolo di fornitrici di manodopera stagionale alla Russia. Se pensiamo che per 70 anni è stata una repubblica dell’URSS, ci rendiamo conto degli enormi squilibri che il “socialismo reale” non ha sanato rispetto alla “prigione di popoli” zarista. Secondo l’International Labour Office il salario medio in Tajikistan è di $13 al mese, contro i $200 che i suoi emigranti guadagnano in Russia.
Secondo una indagine dell’ILO del 2004, meno di 1 immigrato su 4 aveva un permesso di lavoro, meno di 1 su 5 aveva un contratto di lavoro scritto e 3 su 4 ricevevano il salario in nero, in contanti. Inoltre:
il 62% era costretto a effettuare straordinari non pagati,
il 44% denunciava ritmi/carichi di lavoro troppo intensi, il 39% ritardi nel pagamento del salario, il 38% era costretto a svolgere lavori non concordati, il 22% delle donne era costretto a prestazioni sessuali, il 21% era sottoposto a forme di violenza, il 20% a forme di restrizione negli spostamenti, e oltre il 20% aveva il passaporto ritirato dal padrone. Solo il 37% ha affermato di essere libero di lasciare il padrone.
Condizioni queste che rivelano una società fortemente corrotta dal capitalismo, con le sue escrescenze di mafie e caporali, dove il razzismo imperiale grande russo, fustigato da Lenin ma mai sopito sotto Stalin e successori, e rilanciato da Putin crea un ambiente ideologico e psicologico, oltre che legale e politico, funzionale allo sfruttamento senza freni e all’umiliazione di milioni di immigrati – come nelle campagne del Sud ma anche in laboratori e ristoranti del Nord in Italia, come nelle monarchie razziste del Golfo. Razzismo e xenofobia sono diffusi in Russia, fomentati dalle ideologie nazionaliste e imperiali promosse dall’entourage putiniano, anche tra i pubblici ufficiali, spesso legati alla criminalità.

[1] Studio dell’ILO sull’immigrazione in Russia.

Alcune caratteristiche dell’imperialismo russo

Abbiamo definito la guerra in corso in Ucraina una guerra interimperialista, cioè tra due blocchi imperialisti, quello NATO a guida USA, e la Russia (con tiepido appoggio cinese). Non tutti a sinistra, neppure tra coloro che si sono schierati con l’Ucraina e chiedono ai paesi imperialisti occidentali l’invio di più armi, definiscono la Russia un paese imperialista. Alcuni, rifacendosi come a un dogma ai “cinque contrassegni” dell’imperialismo di Lenin, sostengono che la Russia non li presenta tutti, e che quindi non può essere definita un paese imperialista, e tra questi c’è chi sostiene che si tratta di una “semicolonia” dell’imperialismo, identificato con gli USA (allo stesso modo anche l’Italia è stata definita “semicolonia”: l’imperialismo italiano diveniva in questo modo una potenziale forza…  antimperialista). Tra i caratteri mancanti per qualificare la Russia come imperialista sarebbe il fatto che esporta prevalentemente materie prime (agricole, petrolio e gas) e importa macchine, e che ha una bassa esportazione di capitali. È ben curioso il fatto che Lenin non esitasse a definire imperialista la Russia del 1916, quando era enormemente più arretrata da un punto di vista industriale e finanziario (dipendeva dalla finanza francese e inglese), mentre oggi si utilizza lo stesso Lenin per negare il carattere imperialista della Russia di Putin… Per altri ancora, la discriminante è il ruolo dello Stato nell’economia, ossia la ancora forte presenza del capitale di Stato in Russia. La Russia, pur capitalista, avrebbe ereditato storicamente il ruolo di “nemico pubblico numero uno del mondo imperialista”, insieme alla Cina, in quanto lo statalismo avrebbe permesso ad entrambe di “resistere all’imperialismo” e di divenire “una spina nel [suo] fianco”[1]. Il problema sarebbe quindi Putin e il suo entourage, che hanno scatenato una guerra insensata, ma il sistema Russia avrebbe in sé oggettivamente un carattere in qualche modo progressivo perché “anti-imperialista”.

Del capitalismo di Stato russo si veda sopra. Possiamo aggiungere che anche in Italia le punte avanzate, strategiche, dell’imperialismo italiano sono ancora a capitale statale (dai tempi del fascismo): l’ENI, primo gruppo industriale italiano, con una grande presenza internazionale in tutti i continenti e grande influenza sulla politica estera italiana, ha lo Stato (il Tesoro, tramite la Cassa Depositi e Prestiti) quale azionista di controllo; l’ENEL, secondo grande gruppo non finanziario italiano, pure con forte presenza internazionale, è pure controllato dal Tesoro; lo stesso vale per Ferrovie dello Stato-Trenitalia, ma anche per il maggiore produttore di armi italiano, Leonardo. Solo nel campo finanziario (Generali, Banca Intesa, Unicredit) prevale ora l’azionariato privato. Il maggiore gruppo industriale privato, FIAT, con Stellantis è inglobata in un complesso a trazione francese con forte componente USA, per cui la sua influenza politica sull’Italia è mediata dal suo carattere multinazionale (anche se Exor della famiglia Agnelli, primo azionista di Stellantis, controlla tra l’altro La Stampa, Repubblica, Secolo XIX) . Possiamo quindi dire che i motori industriali dell’imperialismo italiano, quelli che maggiormente spingono il governo a una proiezione economica, politica e militare all’estero sono tutt’ora gruppi a capitale di Stato: ma lo Stato italiano non è una “spina nel fianco” all’imperialismo, ma un predone imperialista, anche se di medio rango, nell’arena mondiale, un fattore di guerra nel passato come nel presente. Non diversamente per il capitale di Stato e lo Stato russi.

Certo la Russia di oggi non è una grande, ma una media potenza economica (per PIL al cambio corrente è nona, tra Canada e Italia, dopo Gran Bretagna e Francia, mentre nel calcolo a parità di potere d’acquisto è sesta, tra Germania e Indonesia, davanti a Gran Bretagna e Francia), ma gioca nel girone delle potenze imperialiste. È vero, esporta prevalentemente materie prime, petrolio e gas, ma appropriandosi per intero, tramite le sue major petrolifere e lo Stato, della rendita petrolifera, ossia di plusvalore prodotto dai proletari di mezzo mondo (il settore idrocarburi con l’1,6% della forza lavoro produce il 20% del PIL russo: un 18% circa è per l’appunto rendita). Ed è anche il secondo esportatore mondiale di armi, con un’industria aerospaziale di prim’ordine, e dispone di quello che è considerato il secondo esercito al mondo, con il più grande arsenale nucleare, oltre ad essere tra i maggiori esportatori di centrali nucleari. Non esattamente i caratteri della semi-colonia costretta a uno scambio ineguale[2].

I due aspetti: specializzazione nella produzione di armi e nell’industria spaziale, debolezza nella produzione di macchine (un quarto di quella italiana) e quindi dipendenza dall’import di mezzi di produzione esteri sono correlati, risultato di decenni di pianificazione in cui il grosso del plusvalore è stato reinvestito nella produzione bellica e spaziale, a scapito dei beni di consumo e della stessa produzione di macchine. La Russia non appare un forte esportatore di capitali (circa 400 miliardi di dollari investiti a fine 2021, secondo UNCTAD, meno dell’Italia e circa un quarto di Francia, Gran Bretagna e Svizzera; dati probabilmente sottostimati perché buona parte delle esportazioni di capitali dei suoi capitalisti avviene in maniera “non ufficiale”, tramite società offshore e i paradisi fiscali (Cipro in testa, dove nel 2020 soggetti russi avrebbero investito ben 190 miliardi, e che risulta avere la stessa quantità di investimenti esteri della Russia). Dalle statistiche del Fondo Monetario Internazionale risulta comunque una posizione attiva della Russia per 483 miliardi di dollari negli investimenti esteri, anche se gli investimenti diretti esteri in Russia a fine 2021 (610 miliardi di dollari) superavano gli investimenti diretti russi all’estero (487 miliardi). Con le sanzioni e i disinvestimenti delle multinazionali in Russia c’è da aspettarsi che questi conti abbiano subito cambiamenti significativi nel corso del 2022. In ogni caso, non vi è dipendenza a senso unico.

Infine, la presenza militare russa all’estero, con basi militari in Armenia, Bielorussia, Abkhasia e Sud Ossezia (Georgia), Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, Transnistria (Moldova), Siria, e una significativa presenza di truppe in Libia, Mali, Repubblica Centrafricana, e presenza di “consiglieri” in Vietnam, Eritrea, Madagascar, Venezuela e accordi di condivisione di basi con Egitto, Sudan. Una proiezione militare che certamente non regge il confronto con la superpotenza americana, ma è superiore a quella degli altri imperialismi, forse alla pari con la Gran Bretagna e la Francia, e che al “vicino estero” ex URSS aggiunge una più recente penetrazione in Africa. Una presenza, quest’ultima, volta a contendere l’influenza alle vecchie potenze coloniali tra cui Francia e Italia, e a mettere le mani sulle risorse minerarie quali uranio e bauxite, oltre agli idrocarburi, e non certo a sostenere lotte di indipendenza nazionale contro il neocolonialismo. La Cina, che ha molti più strumenti di penetrazione economica (finanziamento e costruzione di infrastrutture, fabbriche, oltre ai beni di consumo) può vedere la penetrazione militare russa come apertura di territori alla propria penetrazione, contro le resistenze opposte dalle potenze (neo)coloniali europee.


[1] Lutte de classe n. 225, luglio-agosto 2022.

[2] Vedi Punti di forza e debolezze dell’imperialismo russo, Pagine marxiste #51 https://www.combat-coc.org/punti-di-forza-e-debolezze-dellimperialismo-russo/


[1] Filip Novokmet, Thomas Piketty, Gabriel Zucman, From Soviets to Oligarchs: Inequality and Property in Russia 1905-2016, luglio 2017


[1] https://eng.rosstat.gov.ru/Publications/document/74811; ora disponibile anche l’edizione 2021: https://gks.ru/bgd/regl/b21_13/Main.htm

[2] I lavoratori in proprio non hanno presumibilmente redditi procapite molto superiori ai lavoratori dipendenti, quindi intorno al 3% del PIL.

[3] https://www.largescaleagriculture.com/home/news-details/top-10-russias-largest-agricultural-landholders-2018/

[4] https://www.ilo.org/ilostat-files/Documents/Excel/INDICATOR/EAR_4HRL_SEX_OCU_CUR_NB_A_EN.xlsx

[5] Calcolo a parità di potere d’acquisto, con un rapporto di 32,4 rubli per 1 euro nel 2017

[6] Ad es.: «Новая газета Европа» изучила почти 10 тысяч постов в ВК о пропавших российских военных В среднем солдаты пропадают через 60 дней после отправки на фронт. Некоторых ищут месяцами — Meduzahttps://www.irishtimes.com/world/europe/2022/07/27/no-body-means-no-money-ukrainian-official-accuses-russians-of-abandoning-dead-soldiers/; https://www.ukrinform.net/rubric-ato/3479187-russian-army-files-most-of-its-kias-as-missing-not-to-pay-families-compensation.html 

[7] Il rapporto tra il reddito del 90° percentile e quello del 10° percentile scende negli USA a 8,9 al netto delle imposte, e a 6,1 se calcolato su base equivalente (tenendo conto del numero di componenti delle famiglie).

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