ACQUAVIVA, Mario

(Acquapendente, 1900 – Casale Monferrato, 1945), impiegato

 

Comunista dal ‘21, arrestato nel 1926 e condannato a 8 anni dal Tribunale Speciale, in quegli anni prese le distanze dalla degenerazione politica in atto nel partito. Nel gennaio 1943 aderì al PCint, costituendo nuclei nell’Astigiano e nel Casalese che si distinsero nelle ondate di scioperi; attraversò la linea gotica fino a Piombino e Portoferraio, dove stabilì i contatti per la nascita delle locali sezioni di partito. Dall’estate del 1944 fu costretto alla clandestinità; in contemporanea il PCI cominciava le persecuzioni contro di lui accusandolo in un volantino di essere una spia dell’OVRA e della Gestapo. Nel frattempo cresceva di intensità la campagna contro la sinistra. I militanti vennero definiti provocatori, disgregatori, sabotatori, fascisti, delinquenti, manigoldi “tenitori di tabarins e di bische clandestine, speculatori del mercato nero ed eroi del brigantaggio notturno” (F. Platone, Vecchie e nuove vie della provocazione trotzkista, «Rinascita», aprile 1945), in un contesto crescente di minacce ed episodi oscuri. In quei mesi l’azione degli stalinisti portò all’eliminazione di militanti comunisti di sinistra, direttamente (Vaccarella, Atti) o indirettamente (Mauro Venegoni). Acquaviva influenzava in particolare la “banda di via Mantova” composta da una quarantina di giovanissimi casalesi decisi a battersi contro i fascisti; la banda si era già fatta viva prima dell’8 settembre con scritte sui muri di Borgo Ala contro la guerra e per il pane. Riunioni clandestine del PCInt si svolgevano nell’abbaino del pittore Arsenio Portiglia, in via Mameli, in un fosso adiacente alle mura del cimitero ebraico, nella stanza dell’albergo Paradiso, dove ogni tanto Acquaviva si fermava.

Dopo la fine della guerra, l’azione controrivoluzionaria del PCI registrò uno degli gli aspetti più scabrosi, con il traghettamento nelle proprie file di ex fascisti ed ex repubblichini, fenomeno che si sarebbe ulteriormente ampliato nel 1946 con l’amnistia concessa da Togliatti ai criminali in camicia nera. Gli ex fascisti ricambiarono ovviamente il favore, distinguendosi fra coloro che si scagliavano contro la sinistra comunista.

Alla fine del giugno 1945 si svolse una riunione al dopolavoro Snia, azienda dove gli internazionalisti avevano un nucleo diretto da Somaschini; presenti una decina di partigiani. Giuseppe Marenda, uno dei compagni presenti, ricordava: “Mario ci parlò delle minacce ricevute nella sede del PCI a palazzo Langosco, dove gli avevano detto di rientrare nei ranghi, altrimenti avrebbe rischiato di essere fatto fuori; a quel punto i partigiani presenti, alcuni armati, lo tranquillizzarono dicendogli di non preoccuparsi, perché in tal caso l’incarico l’avrebbero dato a loro”. 

Non avevano però pensato che gli stalinisti potessero assoldare assassini da fuori, così come avvenne: la serie di minacce ad Acquaviva da parte dei dirigenti locali del PCI culminò con l’omicidio politico. Alle 18 del 13 luglio 1945, sul cavalcavia della stazione, Acquaviva, uscito dal lavoro dalla vicina azienda chimica Tazzetti diretto alla stazione per rientrare ad Asti, venne avvicinato da un uomo in bicicletta che, accertatosi della sua identità, gli sparò sei colpi di pistola. Dileguandosi assieme ad un complice, lo sparatore gridò “E’ un fascista! E’ un fascista!”. Trasportato moribondo in stazione, si scoprì ben presto che il fascista in questione in realtà era Mario Acquaviva.

Nell’atto d’accusa lanciato dagli internazionalisti il 28 luglio 1945 il PCI venne indicato quale responsabile morale e politico dell’assassinio. A dirigere la federazione astigiana del PCI c’era il biellese Benvenuto Santus. In quella veste fu coinvolto nelle indagini sull’assassinio di Acquaviva, e dichiarò: “Acquaviva era un trotskista, diffondeva manifestini di propaganda fra gli operai contro il CLN a firma del PC Internazionalista, provocando lo scompiglio nella coscienza delle masse operaie, accusando i comunisti del partito ufficiale di favoreggiare i capitalisti [ed era considerato] alleato dei nazifascisti [Dal verbale del processo].

Dopo l’omicidio, l’estrema marginalità dell’azione dei rivoluzionari internazionalisti fu direttamente proporzionale alla mancata reazione al piombo stalinista. Se, da un lato, nessuno certo pensava che la giustizia borghese scovasse il colpevole di un delitto a tutt’oggi rimasto impunito (il PCI svolgeva troppo egregiamente il proprio ruolo di repressore delle istanze proletarie, e poi un comunista di meno, soprattutto del calibro di Acquaviva, faceva comodo a tutto lo schieramento della classe avversa), dall’altro la linea politica del PCI era talmente reazionaria che non pochi proletari, e fra questi numerosi ex partigiani, in quei mesi andavano ad ingrossare le fila del PCInt: giusto chiedersi, dunque, se non fosse il momento per trasformare l’atto d’accusa contro il PCI da una semplice lettera aperta a una denuncia vigorosa che coinvolgesse davvero fabbriche, rappresentanti dei lavoratori, punti di ritrovo proletari, in un’azione capillare che minasse la base stessa del partito staliniano, per estendere e consolidare le posizioni e l’organizzazione internazionalista, oltre ad azioni di autodifesa per porre un argine alla violenza stalinista contro i rivoluzionari.

“Lavorate, questo è il momento!”

[Ultime parole pronunciate da Acquaviva prima di morire]

 

FONTI: «Battaglia Comunista»; testimonianze orali di Giuseppe Marenda; archivio PM.

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