Yemen: guerra per procura le fra potenze del Golfo

Yemen

Il 21 aprile l’Arabia saudita ha annunciato la fine dell’operazione militare in Yemen; il giorno dopo ha bombardato la seconda città industriale del paese Ta’ziz. In realtà sotto un nuovo titolo (operazioni antiterrorismo) la guerra continua con gli attacchi esterni e la guerra interna di tutti contro tutti. Non è escluso che i Sauditi deleghino le operazioni “sporche” sul terreno a soldati egiziani o pachistani. Lo Yemen potrebbe aggiungersi ad altri stati arabi in disfacimento; il conflitto non finirà tanto presto e ha già prodotto 944 morti, 3500 feriti; il paese ospitava a fine 2014 250 mila rifugiati da Siria e Corno d’Africa, almeno metà somali; oggi essi si sommano ai rifugiati interni, circa 350 mila. .

Losanna e i contrapposti interessi in Medio Oriente
Una delle ragioni dell’intervento saudita era mettere in forse i negoziati di Losanna sul nucleare iraniano. Ma né le pressioni israeliani né la “Decisive Storm” capeggiata dall’Arabia Saudita sono servite allo scopo. Alla fine a Losanna, dopo bluff, tattiche e astuzie diplomatiche, all’inizio di aprile, è stato trovato un accordo di massima fra Iran, Germania e i magnifici 5 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna): cancellazione graduale e monitorata delle sanzioni da parte di Usa e UE e, da parte iraniana, riduzione dell’arricchimento dell’uranio (limitato all’impianto Natanz), riconversione degli impianti (ad esempio l’impianto di Fordow). Si tratta di un accordo di massima, i dettagli saranno definiti entro il 30 giugno.

Il governo Obama aveva bisogno di mettere un punto fermo alle trattative per depotenziare l’opposizione di una parte del Congresso, cui spetta l’ultima parola sull’accordo; una volta eliminato il rischio di un nucleare iraniano per immediati usi militari, i gruppi economici Usa, petroliferi e non, sono per buona parte intenzionati a riprendere un ruolo di peso nel mercato iraniano.

Lo scopo principale del regime iraniano,d’altra parte, è l’autoconservazione, e per realizzare questo obiettivo ha bisogno che le sanzioni siano eliminate, sia pure a prezzo di rinunciare allo sviluppo del nucleare militare che comunque non è prioritario in questa fase.
Sia Israele che Arabia Saudita si sono ferocemente opposti a questo accordo Usa-Iran.

Il governo Usa peraltro è arrivato a questa decisione dopo l’esperienza delle due guerre in Afghanistan e Iraq. Molti repubblicani e democratici sono concordi nel ritenere che un intervento militare diretto nell’area non è funzionale agli interessi Usa, mentre lo sarebbe la ripresa economica dell’Iran, come contrappeso rispetto ad Israele e Arabia Saudita. Esperti di intelligence (vedi Stratfor) ritengono che la “mezzaluna sciita” sia ben lungi dall’essere una efficace area di influenza, mentre le potenzialità ideologiche ed economiche di influenza dell’Arabia siano ben più concrete e in atto. L’Arabia Saudita e Israele restano alleati importanti per la conservazione dello status quo, ma gli Usa hanno oggi una propria strategia sull’Iraq che contrasta con quella saudita. I sauditi finanziano ogni gruppo sunnita che miri a destabilizzare il governo sciita dell’Iraq, combattono in Iraq una proxy war (guerra per procura) contro l’Iran, considerato l’unica potenza regionale che ostacola la loro strategia, mentre gli Usa puntano su Curdi e Iran per contrastare l’espansione dell’Isis, in più puntano a salvare in qualche modo l’entità statale irachena e a conservarsela amica. L’Iran e le milizie sciite, come quelle curde o l’esercito di Assad, sono alleati oggettivi degli Usa, mentre i rapporti di Turchia e Arabia con l’Isis sono per lo meno ambigui, se non di finanziamento coperto e neutralità militare. In Siria c’è la stessa oggettiva situazione per cui per gli Usa Assad sta diventando il male minore rispetto alla creazione di un’altra Libia nel cuore del Medio Oriente.

Il nuovo corso saudita
La politica estera saudita ha ricevuto un impulso nuovo dal neoeletto re Salman, che ha allontanato dal ministero degli esteri il principe Bandar bin Sultan dal Consiglio di Sicurezza Nazionale. Sultan era un deciso sostenitore delle organizzazioni estremiste wahabite, comprese Isis e AlQaeda; aveva forti legami con il clan Bush e i magnati dell’industria militare Usa. Sultan è stato considerato da alcuni addirittura un mandante dell’11 settembre, comunque un nemico coerente di Obama. Il nuovo re non ha accettato di ridurre la produzione di petrolio per evitare il collasso dei nuovi investitori Usa nel petrolio da scisti; ma potrebbe prender in considerazione il tentativo di Obama di riammettere nel blocco sunnita i Fratelli Mussulmani, passo importante per un riavvicinamento di Qatar e Turchia alla nuova alleanza Arabia-Egitto. Naturalmente l’Arabia si fa garante degli interessi del suo alleato Al-Sissi, che il 22 aprile ha fatto condannare all’ergastolo l’ex presidente Morsi. Ma il suo interesse strategico è trovarsi attrezzata per creare un cordone sanitario anti-Iran nel prossimo futuro.

Sia i Sauditi che Israele hanno bisogno del contributo militare Usa, in particolare nell’aeronautica, entrambi sono in grado di esercitare una intensa azione lobbistica sulla politica Usa, ma nel caso dell’accordo Usa-Iran non sono riusciti a scalfire la decisione di Obama, che lo considera un punto di non ritorno. Potrebbe sembrare contraddittorio che nel caso dello Yemen gli Usa abbiano offerto supporto logistico e di intelligence. Certamente lo hanno fatto per poter in qualche modo condizionare gli avvenimenti e anche come arma di ricatto nei confronti dell’Iran; ma comunque senza impegnare n un sol uomo o aereo. Per ora Riyad ha schierato 100 aerei, 150 mila uomini. L’Arabia Saudita è un paese armato fino ai denti, il primo acquirente mondiale di armi con una spesa di 6,5 miliardi di $ nel 2014 e una previsione di spesa per il 2015 di 9,8 miliardi. Il punto di vista americano è che i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo ce la possono fare da soli, almeno con lo Yemen, e comunque i sauditi sono chiamati a difendere i loro interessi in prima persona, rendendo finalmente efficace ed efficiente il loro esercito e senza coinvolgere gli Usa sul terreno. I sauditi da parte loro vivono come una grossa limitazione il non possedere come l’Iran un arsenale nucleare, tanto da aver preso contatti col Pakistan per ottenere bombe atomiche. Se la stessa idea venisse a Turchia o Egitto si realizzerebbe l’incubo di un Medio Oriente zeppo di atomiche: è la tesi di molti repubblicani Usa per giustificare la richiesta di bombardare gli impianti di arricchimento d’uranio iraniani, come soluzione radicale al problema.

L’affollato mare di fronte ad Aden
A Losanna fino all’ultimo la Francia ha tentato di alzare il prezzo dell’intesa, cui è stata ostile almeno negli ultimi due anni, ma ha raccolto solo un successo di facciata. Non particolarmente entusiasta la Russia: un avvicinamento Usa-Iran non è auspicabile dal punto di vista di Putin, che ha fornito all’Iran i mezzi per dotarsi del nucleare e ha dato un appoggio per attenuare gli effetti delle sanzioni, perché indebolisce l’influenza politica russa in Medio Oriente, ma anche la sua economia dal momento che il mercato energetico si fa più affollato. Prudente l’atteggiamento degli altri paesi presenti alle trattative. Questo non deve far pensare che ci sia qualche paese indifferente alle sorti dello Yemen, non per motivi umanitari, ma per la sua posizione strategica all’ingresso del mar Rosso e sulla rotta del canale di Suez.

Il mare davanti ad Aden, lo stretto di Bab el Mandeb non è mai stato così affollato: circa 30 navi da guerra. Negli anni scorsi col pretesto di combattere la pirateria somala, molti paesi hanno inviato dal 2008 navi per pattugliare lo stretto. La UE è intervenuta con proprie spedizioni (in particolare Germania Italia Francia e Spagna), ma anche il Giappone. Con l’inizio del conflitto l’Egitto invia due fregate, i sauditi creano una nuova base navale a Jizan, sul confine yemenita e vi installano le loro fregate, ma anche l’Iran dispiega una squadra navale, naturalmente “anti-pirateria” e in risposta gli Usa inviano la portaerei Roosevelt per contrastare l’eventuale fornitura di armi ai ribelli da parte dell’Iran.

Contemporaneamente le “spedizioni di salvataggio” messe in piedi da Russia Cina e India per evacuare i propri cittadini e quelli dei paesi amici dalle zone di guerra in Yemen, hanno aperto questo tratto di mare a questi paesi: l’India evacua 5.600 persone di 26 paesi, la Cina 900 persone di 15 paesi, affermando che essere una grande potenza comporta delle responsabilità, infine la Russia mette in salvo 608 persone, fra cui americani e inglesi.

La lunga guerra civile yemenita
Sarebbe, quindi, riduttivo ridurre la guerra in Yemen come una guerra per procura fra Iran e Sauditi, come sarebbe limitativo ricondurre la guerra civile in corso da anni in Yemen alla sola contrapposizione Sciiti-Sunniti, banalizzazione utile ai media occidentali per il grande pubblico. Per ragioni storiche (colonizzazione ottomana, colonialismo britannico poi), nord e sud sono stati divisi per decenni e riunificati con una operazione di vertice nel 1990. Dal momento dell’indipendenza la casa Saud lo ha sempre considerato il proprio cortile di casa, dove estendere la sua influenza, contendendolo negli anni ’60 all’Egitto di Nasser e oggi all’Iran. Come logico le potenze regionali hanno esaltato ogni differenza religiosa o culturale che potesse essere utilizzata nei loro contenziosi al solo fine di garantirsi il controllo del paese e in particolare del porto di Aden, sentinella dello stretto di Bab el Mandeb fra Mar Rosso e Oceano indiano, che gli inglesi hanno lasciato nel 1967.

All’epoca nord e sud seguono strade diverse. Nel nord, molto più popoloso e vivibile, perché il clima sugli altipiani è confortevole, si vive di agricoltura e pastorizia, la struttura sociale è ancora arcaica, grande peso politico hanno ancora gli imam, vi si pratica lo zaydismo, una variante dell’islam sciita; ma negli anni ’70 migliaia di contadini lasciano lo Yemen del nord per lavorare nell’industria petrolifera e nell’edilizia saudita, l’agricoltura viene parzialmente abbandonata, le famiglie vivono delle rimesse degli emigrati.

Il sud, in cui c’è un certo sviluppo manifatturiero e commerciale (ad Aden e Ta’iz), l’esercito sostiene un esperimento di “repubblica popolare” che nazionalizza terra e industria e si appoggia all’Urss. La scoperta del petrolio negli anni ’80 fa sperare in un netto miglioramento economico, ma le speranze vengono presto ridimensionate.

Il 1990 è uno spartiacque per entrambi i due tronconi dello Yemen: il crollo dell’Urss lascia il sud senza padrini politici, al nord rientrano più di un milione di emigrati, cacciati dall’Arabia perchè il governo dello Yemen ha simpatizzato per Saddam all’epoca. La riunificazione unisce due debolezze; il regime del presidente-dittatore Ali Abdallah Saleh, espressione del nord, liberalizza l’economia e questo significa la chiusura di molte fabbriche al sud. Il paese manca dei servizi elementari (scuole, sanità), la corruzione è endemica. Saleh deve appoggiarsi all’Arabia Saudita i cui aiuti economici sono indispensabili per evitare il collasso. Riad crea madrasse e Università ispirate al più rigoroso salafismo, nell’intento di presiedere alla formazione dei quadri tecnici e politici del paese. Saleh e i Sauditi tollerano l’insediamento di Al Qaeda nel sud est per contrastare il latente secessionismo del sud. Dal 2004 si formano sia bande di guerriglieri zayditi al nord (houthi), probabilmente appoggiati dall’Iran, che di bande di guerriglieri indipendentisti a sud.- Nonostante le campagne repressive, con migliaia di morti, il governo non riesce a venirne a capo. Nel 2009 Iran e Arabia si fronteggiano nel mar Rosso con le proprie navi da guerra. I guerriglieri somali e la lotta ad Al Qaeda sono il pretesto per gli Usa per pretendere dallo Yemen una base sull’isola di Socotra (2010), da cui possono lanciare droni sua ree del paese; in cambio gli Usa hanno fornito 500 milioni di armi all’esercito yemenita.
Lo Yemen del sud insorge durante la primavera araba, Saleh viene destituito e sostituito nel 2012 con il suo ex vice Abd Rabbo Mansour Hadi, che è nato ad Aden e qui ha la sua roccaforte. Tuttavia Saleh continua a risiedere in Yemen, la sua tribù e la sua famiglia controllano interi reparti della polizia, dei servizi segreti e dell’esercito.

Hadi si è dimostrato incapace di risolvere problemi come la gravissima siccità e la crisi cronica dell’economia yemenita, la corruzione dei funzionari e la disoccupazione dei giovani, la mancanza di infrastrutture. Non ha saputo far fronte né gli attacchi di Al Qaeda, saldamente installata nella zona desertica a est del paese, tanto da concedere agli Usa basi militari da bombardano con i droni le postazioni qaediste, causando anche vittime civili; nel contempo deve affrontare le proteste dei separatisti del sud (che chiedono un ritorno alla situazione precedente al 1990) e la ribellione degli houthi al nord. Gli Houthi si sono ribellati durante il regime di Salehcontro l’eccessiva subordinazione agli interessi sauditi, ma anche in difesa di un modello economico agropastorale minacciato dalla borghesia affaristica del sud.
Nell’inverno 2014 gli Houthi riprendono gli attacchi militari per opporsi al progetto federalista del governo, sostenendo che divide il paese in regioni povere e regioni ricche e a loro sarebbe toccato macroregione densamente popolata, scarsa di risorse energetiche, priva di sbocchi sul mare.

I miliziani Houthi (denominazione Ansar Allah) già dal settembre 2014 si erano parzialmente installati nella capitale San’a; poi si sono impadroniti di Ta’ziz e di buona parte di Aden costringendo nel febbraio 2015 Hadi a rifugiarsi a Riyad. Per sostenerlo l’Arabia interviene a bombardare le baso Houthi, come del resto a gia fatto nel 2010.

Gli Houthi sono in guerra con il governo ma anche con la locale al Qaeda (qui detta Aqpa), considerata la sezione più forte di tutto il Medio Oriente (dopo tutto Bin Laden era Yemenita), largamente finanziata dall’Arabia saudita. Di recente gli Houthi devono confrontarsi anche con l’Isis che ha rivendicato i sanguinosi attentati del 19 marzo a due moschee di Sana’a, che hanno provocato 142 morti e 352 feriti. Non chiari i rapporti con Al Islah, la branca yemenita dei Fratelli Mussulmani. Gli Houthi sono zayditi, una variante settaria dell’islam sciita, ma la spiegazione religiosa del conflitto interno è di comodo. Probabile che siano sostenuti dall’Iran. Quel che è certo è che gli Houthi hanno l’appoggio dell’ex presidente Saleh, una alleanza di comodo con finalità non chiare.

Le ambasciate occidentali hanno chiuso i battenti, da ultimo anche quella degli Usa, che hanno evacuato anche il loro contingente militare
L’Arabia, che attualmente ospita l’ex presidente yemenita, ha messo insieme una coalizione “sunnita” con i paesi del Consiglio per la cooperazione nel Golfo, tranne l’Oman, quindi Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar più Sudan, Egitto, Marocco, Giordania e Pakistan. I Sauditi hanno sferrato un colpo da maestro inglobando nella coalizione il Sudan (e ora l’Iran non può più utilizzare Port Sudan, via Sinai, per rifornire Hamas e Jihad a Gaza).

L’Egitto partecipando alla coalizione, cerca di acquisire il ruolo di alleato chiave e grazie a questo è riuscito a ottenere altri F16, prima in quarantena, dagli Usa. La Turchia interviene certamente per non lasciare interamente il pallino all’Arabia Saudita e anche per uscire dall’attuale isolamento diplomatico.

Il problema sociale
Se è evidente che la coalizione mirava a far fallire i colloqui di Losanna e contemporaneamente a indebolire l’influenza regionale iraniana, essa ha anche lo scopo di impedire un “contagio” a carattere sociale. Dietro la rivolta degli Houthi c’è anche una popolazione affamata che vive in condizioni miserrime; in Yemen come in Bahrein gli sciiti si collocano negli strati più deprivati della popolazione. Se si esclude Aden e Ta’ziz, lo Yemen non paradiso esotico come certe immagini cartolina possono far credere; su 25 milioni di abitanti, 10,6 milioni sono sottoalimentati.

Il 63% della popolazione ha meno di 24 anni; il 43% dei ragazzini sotto i 14 anni sono sottopeso.
Metà della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, che scarseggia perché si sono consumate senza criterio le riserve di acqua fossile non rinnovabili. Il 32% degli abitanti è analfabeta .
Se tanti movimenti radicali vi si radicano è perché la protesta sociale cova sotto la cenere ed esplode a intervalli regolari. Anche il governo saiduta siede su un vulcano rappresentato da lavoratori supersfruttati spesso stranieri, spesso yemeniti, accettati quando servono, espulsi senza complimenti quando non servono più (l’ultima volta nel novembre 2013).

L’ultima delle preoccupazioni dei 10 paesi che intervengono è il benessere delle popolazioni o il rispetto dei diritti umani. Gli Usa sono indifferenti al fatto che Israele bombardi Gaza o violi i diritti dei Palestinesi in Cisgiordania; sono indifferenti alla ferocia con cui i Sauditi hanno represso la primavera araba in Bahrein o oggi bombardano gli Houthi in Yemen. Nei decenni scorsi abbiamo visto gli interventi “umanitari” guidati da quel covo di briganti imperialisti che è l’Onu, oggi in formato minore abbiamo una “coalizione di volonterosi” formata dalle petromonarchie del Golfo, dal torturatore al Sissi, dal forcaiolo Erdogan ecc, ma per imperialismi europei e Usa vanno bene purché continuino a comprare armi e garantiscano che il ciclo di realizzazione del capitale continui.