Gates: «In Iraq non stiamo vincendo»

Ennio Caretto

Dopo l’audizione al
Congresso, il sì alla nomina atteso già oggi. Baker alla Casa Bianca illustra
il suo rapporto


Il neo ministro della Difesa conquista i democratici. «Negoziamo con
Damasco e Teheran»

WASHINGTON — George W. Bush voleva «occhi freschi»
al Pentagono e li ha avuti. Nella testimonianza alla Commissione Forze
Armate del Senato che ieri notte ha poi approvato all’unanimità la sua nomina,
il futuro ministro della difesa Robert Gates non avrebbe potuto manifestare più
candore. La sua analisi ha violato quasi tutti i dogmi dell’amministrazione.
Gli Stati Uniti, ha detto Gates, «non stanno vincendo in Iraq». Non vi si
insediarono con forze sufficienti, ha aggiunto in una velata critica al
predecessore Donald Rumsfeld, e se non stabilizzeranno il Paese entro uno o due
anni «ci sarà il rischio di una terribile conflagrazione regionale». Per
evitarla è opportuno negoziare con la Siria e con l’Iran
, ha sottolineato
Gates, sebbene il dialogo col secondo sia problematico. Un intervento armato
contro di essi va escluso
, sarebbe «un estremo riscorso che potrebbe avere
conseguenze drammatiche, e molto probabilmente aggraverebbe la crisi
dell’Iraq».

Di più. Secondo il prossimo ministro, gli Stati Uniti «dovranno rimanere a
Bagdad per parecchio tempo, forse con truppe drasticamente ridotte», perché gli
iracheni non possiedono forze aeree e logistiche adeguate
. E la soluzione
del conflitto dovrà essere politica, oltre che militare: da essa dipenderanno
«l’avvenire del Medio Oriente e la nostra strategia globale». Sempre
candidamente — «Una boccata d’aria fresca!» ha commentato il senatore democratico
Carl Levin — Gates ha definito Bin Laden «un simbolo potente più che una
minaccia reale». Ha infine ammesso di non avere una bacchetta magica:
«Tutte le opzioni sono sul tavolo. Ma temo che non ci siano idee nuovissime.
Che cosa farò? Mi recherò in Iraq e discuterò coi nostri generali. Penso che il
disimpegno dipenda dalle condizioni sul terreno».
Non che l’ex direttore della Cia e protetto di Bush padre, mandato in aiuto di
Bush figlio, abbia esposto il fianco ai falchi. Dopo aver riconosciuto che
l’America non sta vincendo, ha asserito che «non sta nemmeno perdendo», la tesi
del capo di Stato maggiore Peter Pace. E come il presidente ha rifiutato di
parlare di «guerra civile» in Iraq e si è opposto recisamente alla
pubblicazione di un «calendario del ritiro»: «Un segno di debolezza che
scoraggerebbe i moderati
. Sarebbe come dire agli insorti quanto devono
aspettare perché ce ne andiamo». Per ultimo, Gates non si è sbilanciato su
un eventuale aumento delle truppe Usa
. Ma ha portato una ventata di realismo
e assicurato che sarà indipendente e racconterà la verità «al Congresso come
alla Casa Bianca». Nonostante le critiche di alcuni democratici come Hillary
Clinton, potrebbe ottenere il placet del Senato oggi stesso. Gates, 63 anni,
una vita dedicata al pubblico servizio sotto sei diversi presidenti, ha
testimoniato mentre Bush ospitava a colazione l’ex segretario di Stato James
Baker, il leader del Gruppo di studio sull’Iraq che oggi pubblicherà il suo
rapporto. Il gruppo, di cui il futuro ministro fece parte sino alla sua nomina
un mese fa, proporrà una serie di rimedi: dall’accelerazione del trasferimento
dell’onere della sicurezza agli iracheni a un diverso dispiegamento delle forze
Usa, alla convocazione di una conferenza regionale.
Per il presidente, che stasera ospiterà a cena il segretario delle Nazioni
Unite Kofi Annan, è il momento più difficile dall’invasione dell’Iraq. Tre anni
e mezzo fa, Bush dichiarò la «missione compiuta», ma oggi non sa come
districarsi dalla crisi. Il numero dei soldati Usa caduti sta per superare i
3000, più delle vittime della strage delle Torri Gemelle, e i democratici che a
gennaio assumeranno il controllo del Congresso reclamano a gran voce una exit
strategy. Il presidente ammonisce che non se andrà finché Bagdad non glielo
chiederà, ma ha già ridimensionato il concetto di vittoria: gli basterebbe un
Iraq «capace di sostenersi, difendersi e governarsi». Un obiettivo che spera di
raggiungere gradatamente. Lo ha confermato uno dei suoi generali sul campo,
William Caldwell, annunciando che le truppe irachene «saranno pronte ad
assumersi le loro responsabilità a metà circa del 2007».

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