Contro il terrorismo di stato sionista

Per l’autodeterminazione del popolo palestinese, per l’unione del proletariato palestinese e israeliano contro i loro sfruttatori, per un fronte unico proletario mediorientale contro ogni borghesia ed ogni imperialismo, per la rivoluzione, per il socialismo.
L’ attacco da terra da parte dello Stato sionista di Israele, espressione di una borghesia espansionista e colonizzatrice, sta facendo l’ennesima strage tra le popolazioni civili di Gaza, “coadiuvato” in questo da una borghesia palestinese tanto spregiudicata quanto corrotta.
Hamas, pur non avendo alcuna possibilità di prevalere militarmente, usa i razzi in modo così stolto come mezzo per sollecitare finanziamenti e acquisire credito presso sponsor internazionali, alla faccia di quelle popolazioni che dice di rappresentare. Chi non ha possibilità di scelta sono proprio i civili di Gaza, gli oltre 600 morti, le migliaia di feriti, i 100 mila che devono lasciare il nord di Gaza per sfuggire ai bombardamenti e all’ attacco israeliano di terra. Gli stessi che volenti o nolenti sono legati al carro dei guerriglieri di Hamas, non solo perché questi ultimi sono armati e pronti a schiacciare ogni opposizione, ma anche perché negli ultimi anni la loro vita da assediati è costantemente peggiorata, stretti fra i blocchi militari di Israele per mare e per terra e la chiusura del valico di Rafath da parte egiziana. Ma nella misura in cui i razzi di Hamas, efficaci o meno, colpiscono civili, facilitano il prevalere dei guerrafondai fra gli israeliani.

Non possiamo che associarci alla richiesta che Israele ponga fine ai bombardamenti, pur sapendo che la tregua che ne scaturirebbe ( magari con mediazione iraniana, più efficace nei confronti di Hamas di quella dell’Egitto che li ha appena messi fuori legge) sarebbe fragilissima. Se lo stato israeliano continua a sottrarre terra ai palestinesi con la sua politica di colonizzazione, se continua a imporre la sua presenza militare a Gaza e in Cisgiordania, se continua a lasciare impuniti gli attacchi ai palestinesi e continua nella sua politica di arresti indiscriminati e distruzione di case; se Hamas continua a chiedere la distruzione dello Stato di Israele e la morte di tutti gli ebrei non c’è via d’uscita stabile neanche da un punto di vista borghese.

In molti paesi europei compresa l’Italia si sono svolte manifestazioni pro Palestina.
In Francia in molti casi la protesta contro la politica israeliana si è trasformata in tentati attacchi alle sinagoghe e caccia all’ebreo, soprattutto dove la componente dei beurs (i francesi nati da arabi nord africani immigrati, gli stessi che spesso votano Le Pen) ha prevalso. Quello che spesso manca nelle manifestazioni pro Palestina è la denuncia, accanto alla violenza di Israele come stato, del ruolo degli stati arabi e, oggi, dell’Iran.
Per loro non solo la creazione di uno stato palestinese indipendente non è mai stata all’ordine del giorno, ma nemmeno l’assimilazione dei palestinesi rifugiati nel proprio territorio come cittadini a pieno diritto. Era più vantaggioso tenerli in uno stato di apolidi senza diritti, di ospiti discriminati, da utilizzare come pretesto per le guerre contro Israele, come kamikaze o come gruppi armati di pressione negli scontri gli uni contro gli altri, come capro espiatorio del malessere sociale dei loro cittadini. Mantenuti infine in campi profughi fatiscenti come manodopera, spesso qualificata, a bassissimo costo.

L’attuale dirigenza palestinese è il frutto di questa situazione oggettiva. Fino agli anni ’70 c’erano gruppi palestinesi che si richiamavano al marxismo e che hanno cercato di coniugare lotta di classe e lotta di liberazione nazionale; per ridurne l’influenza Usa e Israele hanno lasciato spazio e a volte anche finanziato movimenti religiosi conservatori (e come in Afghanistan con i Talebani si sono poi ritrovati ad aver fatto da balia ad Hamas), mentre le borghesie arabe hanno finanziato solo quei leader che erano disposti a diventare fedeli esecutori. Anche a costo di assassinare altri dirigenti palestinesi di organizzazioni rivali, al soldo cioè di paesi diversi.
D’altra parte anche la popolazione palestinese è divisa in classi: non tutti i palestinesi sono rimasti a livello di paria, molti sono proprietari terrieri, industriali, finanzieri, uomini d’affari milionari. L’OLP è oggi espressione di una borghesia che lucrava gestendo gli aiuti internazionali ai profughi, corrotta e clientelare, dipendente dalle cessioni fiscali di Israele. Nessuna organizzazione palestinese oggi rappresenta in modo indipendente sul piano politico più generale, tutte dipendono da finanziamenti stranieri. Nessuna difende i lavoratori palestinesi in quanto tali, quando a sfruttarli è un arabo o un palestinese.

D’altro canto in Israele la classe lavoratrice – araba o ebrea – vive in condizioni sempre più precarie: con salari sempre più bassi rispetto a un costo della vita sempre più elevato deve produrre plusvalore non solo per ingrassare la sua borghesia ma anche per mantenere un apparato militare che si vanta di difendere gli ebrei in loco, ma in realtà crea scientemente i presupposti perché la guerra continui.

Concludendo, il continuo stato di guerra ha consentito alle borghesie arabe e a quella israeliana di soffocare sul nascere ogni coscienza di classe imponendo ai lavoratori dell’una e dell’altra parte un’unica appartenenza, quella etnico-religiosa. Sia il proletariato arabo sia quello ebraico della Palestina storica pagano l’occupazione militare e la violenza terroristica, sia essa fatta coi razzi, coi droni, coi tank o gli attentati; ma per le loro borghesie è facile metterli l’uno contro l’altro, facendo leva su risentimenti e i rancori nazionali: così come i bombardamenti israeliani sono un aiuto per la dirigenza nazionalista palestinese, gli attentati e i razzi di Hamas sono un regalo per la propaganda sionista.

Per questo sono così importanti, mentre ben pochi media, anche di sinistra, danno loro spazio, le manifestazioni di questi giorni in Israele di arabi ed ebrei insieme uniti nella richiesta di porre fine alla guerra. Essere pacifisti in quella situazione è un atto di estremo coraggio. Marciare insieme, al di là dell’appartenenza etnica e religiosa è una sfida all’ideologia dominante, è il primo passo per una lotta comune contro i propri sfruttatori.
Può sembrare utopia riproporlo oggi, ma anni di storia ci dicono che il problema palestinese non verrà risolto dalla diplomazia borghese, ma solo dall’abbattimento di questo sistema di classe. Non vediamo neppure la possibilità di una effettiva autodeterminazione palestinese all’interno dell’attuale sistema degli Stati in Medio Oriente, frutto delle spartizioni imperialiste. Solo il suo abbattimento rivoluzionario da parte del proletariato dell’area di ogni lingua e tradizione potrà dar luogo a una comunità multietnica dei popoli della regione, con parità di status, che collaborino tra loro invece che scannarsi.
Per chi come noi non si trova né a Gaza, né in Cisgiordania, né in Israele è importante che combattiamo, prima di tutto a casa nostra, ogni deriva razzista, antiebraica o antiaraba, facendo chiarezza, su cosa sta dietro alle giustificazioni ideologiche di Netanyau o di Hamas e dei loro protettori internazionali, evitando ogni appoggio acritico all’una e all’altra parte borghese, e cercando collegamenti con coloro che si oppongono all’oppressione e alla guerra da un punto di vista di classe.

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