Dal voto poteri straordinari al commissario Abu Mazen – Antonio Ferrari

Come presidente dell’ANP, ABU MAZEN avrà più poteri di ARAFAT. Ha riallacciato i rapporti coi paesi arabi, coi gruppi palestinesi più intransigenti, con gli USA.RAMALLAH – Orfani, e insieme liberati da Yasser Arafat, padre-padrone che alla fine si è rivelato troppo padrone e poco padre, un milione e novecentomila palestinesi scelgono oggi il suo successore al vertice dell’Anp. Non voteranno firmando cambiali in bianco ma con la mente, perché il vincitore, come prevedono tutti i sondaggi, sarà un uomo con poca retorica e senza carisma: Mahmoud Abbas, detto Abu Mazen. Un leader per necessità, trasformato da un vignettista israeliano in una vecchietta che lavora di uncinetto, che più che un politico di professione sembra l’anonimo e diligente funzionario inviato al vertice di un’azienda in dissesto, che è stata costretta ad affidarsi all’amministrazione controllata per poter sopravvivere.
Anche ieri, dopo una campagna elettorale dominata dal disincanto più che dalla passione, il sicuro vincitore si è presentato in ufficio dopo aver timbrato il suo quotidiano cartellino. Ha incontrato i collaboratori più stretti ed affidabili, che da domani dovranno rianimare l’Anp, rinforzarne le fondamenta, disarmare gli estremisti, neutralizzare i terroristi, ricostruire in fretta un’efficiente polizia urbana per fermare le scorribande dei criminali comuni, riaprire il dialogo con Israele, ridare dignità, speranza e almeno qualche certezza ad un popolo esausto e confuso, che chiede uno Stato e l’indipendenza.
Il paradosso è che il grigio Abu Mazen avrà molto più potere di Arafat. Fu eletto premier, su pressione della comunità internazionale (Usa, Israele, Ue, Paesi arabi moderati), proprio per limitare l’influenza dell’ingombrante presidente, che non voleva cedere il controllo degli apparati di sicurezza e le chiavi della cassa. Fu costretto a dimettersi dopo pochi mesi perché non riusciva a governare. Ora si ritroverà presidente dell’Anp senza più bisogno di un primo ministro di alto profilo e con pieni poteri, perché tutte le responsabilità ricadranno su di lui.
All’interno della Cisgiordania e di Gaza, durante la campagna elettorale, si è lasciato pilotare dai suggeritori del Fatah, alternando chiarezza e ambiguità; all’estero ha lavorato da solo, come più gli è congeniale, puntando sulla propria tranquilla capacità di persuasione. Ha ricucito lo strappo con il Kuwait, che all’alba degli anni ’90 cacciò 300.000 palestinesi, puniti dall’emiro perché Arafat aveva deciso di sostenere l’invasore iracheno Saddam Hussein. E’ andato a Damasco, dove il raìs non era il benvenuto, per riannodare il dialogo con i gruppi palestinesi ribelli, nemici dello scomparso presidente e sostenitori dell’intransigenza con Israele. E’ tornato con risultati modesti ma con la convinzione che decenni di aperta ostilità potrebbero trasformarsi in un’opposizione meno rigida e più costruttiva. Ha aperto lo spinoso dossier delle ambasciate, che a tutt’oggi non dipendono dal ministro degli Esteri vero, Nabil Shaat, ma da quello-ombra, l’esule Farouk Khaddoumi, che vive a Tunisi. Ha in mente di abolire il ministero dell’Informazione (centrale censoria di stampo sovietico) sostituendolo con un portavoce e un attrezzato ufficio alle sue dipendenze, come avviene nelle democrazie occidentali. «Conta di vincere, e non di stravincere, per dimostrare che il dissenso politico è indice di vitalità», dice Elias Zananiri, uno dei suoi collaboratori.
Nelle ultime settimane, in decine di comizi, ha polemizzato, ma senza esagerare, con gli altri candidati. In particolare con l’ex comunista Mustafà Barghouti, protagonista di una campagna costosa e aggressiva, capace di ottenere il sostegno di uno dei gruppi laici più radicali, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina(Fplp) fondato da George Habbash, e fiducioso nella tardiva benevolenza di qualche sostenitore di Hamas, il movimento integralista che ufficialmente ha deciso di boicottare il voto. Non c’è mai stata vera animosità fra i sette pretendenti alla presidenza dell’Anp, pur essendo tutti dei candidati veri e non sparring partners, come accadde all’avversaria per finta di Yasser Arafat nelle elezioni del 1996: la nonna settantaduenne Samiha Khalil.

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