H.Kissinger: «Non abbiate paura della Cina»

LE relazioni tra Stati Uniti e Cina sono intaccate
dall’ambiguità. Da un lato rappresentano forse la più consistente espressione
di una politica estera americana bipartisan di lungo termine. A cominciare da
Richard Nixon sette presidenti hanno ribadito l’importanza di un rapporto di
cooperazione con la Cina e l’impegno dell’America alla politica di «una sola
Cina», nonostante deviazioni temporanee all’inizio delle amministrazioni
Reagan, Clinton e George W. Bush. Il presidente Bush e i segretari di Stato
Condoleezza Rice e Colin Powell hanno descritto lo stato delle relazioni con la
Cina come il migliore che ci fosse mai stato dall’apertura a Pechino nel 1971.
I due leader, Bush e Hu Jintao, progettano di farsi visita reciprocamente a
Washington e Pechino quest’anno, e di incontrarsi più volte nella cornice di
diverse assemblee multilaterali.

Eppure l’ambivalenza riemerge all’improvviso. Diversi
esponenti del mondo politico, membri del Congresso e media attaccano la
politica della Cina, dal cambio della moneta al rafforzamento militare, per lo
più in toni che fanno risultare la Cina sottoposta a una sorta di processo. Per
molti l’ascesa cinese è diventata la sfida più importante alla sicurezza degli
Usa.

Prima di affrontare l’argomento, devo premettere che la società di consulenza che io presiedo consiglia clienti con interessi d’affari
in tutto il mondo, Cina inclusa. All’inizio di maggio ho trascorso una
settimana in Cina, per la maggior parte del tempo ospite del governo.
L’ascesa della Cina – e dell’Asia in generale – nei prossimi
decenni porterà a un riordinamento sostanziale del sistema internazionale. Il
centro di gravità degli affari mondiali si sta spostando dall’Atlantico, dove è
rimasto per gli ultimi tre secoli, al Pacifico. I Paesi che godono dei ritmi
più alti di sviluppo sono in Asia e la loro crescita giustifica la loro visione
dei propri interessi nazionali.

Il ruolo emergente della Cina viene spesso paragonato a
quello della Germania imperiale all’inizio del secolo scorso, con
l’implicazione che un confronto strategico è inevitabile e gli Usa farebbero
meglio a prepararsi. Questa idea è pericolosa quanto sbagliata. Il sistema
europeo del XIX secolo presumeva che le maggiori potenze alla fine avrebbero
difeso i loro interessi con la forza. Ogni nazione pensava che la guerra, se ci
fosse stata, sarebbe stata breve e alla fine avrebbe giovato alle sue posizioni
strategiche.
Solo degli avventati potrebbero fare gli stessi calcoli in
un mondo globalizzato pieno di armi nucleari. Una guerra tra le maggiori
potenze sarebbe una catastrofe per tutti i partecipanti; non ci sarebbero
vincitori e il fardello della ricostruzione farebbe sembrare ridicole le cause
del conflitto. Quale dei leader che così spensieratamente si lanciarono nella
Prima guerra mondiale nel 1914 non si sarebbe tirato indietro se avesse potuto
immaginarsi il mondo nel 1918? Noi oggi ne conosciamo bene le conseguenze e
statisti saggi faranno il possibile per impedire il ritorno del mortale calcolo
che, dopo l’ascesa della Germania, ha trasformato il sistema internazionale in
una profezia che si autoavvera. Oggi l’imperialismo militare non è nello stile
cinese. Clausewitz, il principale teorico della strategia occidentale, parla
della preparazione e della conduzione di una battaglia centrale. Sun Tzu, la sua
controparte cinese, focalizza il suo insegnamento sull’indebolimento
psicologico dell’avversario. La Cina persegue i suoi obiettivi con lo studio
attento, la pazienza e l’attenzione alle sfumature. Solo raramente la Cina
rischia un showdown del tipo «il vincitore si prende tutto».
E’ poco saggio sostituire nella nostra mente l’Unione
Sovietica con la Cina e applicare ad essa la politica del contenimento militare
della guerra fredda.
L’Unione Sovietica era erede di una tradizione
imperialista che tra Pietro il Grande e la fine della Seconda guerra mondiale
ha proiettato la Russia dalla regione che circondava Mosca al centro
dell’Europa. Lo Stato cinese nelle sue dimensioni attuali esiste da circa 2
mila anni. L’impero russo era governato con la forza, l’impero cinese lo è
dalla conformità culturale.
L’equazione strategica dell’Asia è diversa. La politica
americana in Asia non deve farsi elettrizzare dalla crescita militare cinese.

Non c’è dubbio che la Cina sta accrescendo il suo potenziale militare, trascurato
nella prima fase delle riforme economiche. Ma anche prendendo per buone le
massime stime il bilancio militare cinese è del 20 per cento inferiore a quello
americano, raggiunge a malapena quello giapponese e ovviamente è di gran lunga
inferiore ai bilanci militari sommati dei tra Paesi che confinano con la Cina:
Giappone, India e Russia. Per non parlare poi della modernizzazione militare di
Taiwan, sostenuta grazie alle decisioni prese in America nel 2001.
Russia e
India possiedono armi nucleari. In una crisi che minaccia la sua stessa
sopravvivenza, il Giappone potrebbe rapidamente dotarsene e potrebbe anche
farlo formalmente se il problema nucleare della Corea del Nord non verrà
risolto. Quando la Cina ribadisce le sue intenzioni alla cooperazione e nega di
voler lanciare una sfida militare, esprime non tanto una preferenza quanto la
realtà strategica. La sfida rappresentata dalla Cina, in un futuro a medio
termine, sarà molto probabilmente politica ed economica, non militare.

Il problema di Taiwan è un’eccezione e spesso viene
menzionato come qualcosa in grado di far accendere la miccia. Ciò potrebbe
accadere se entrambe le parti abbandoneranno il vincolo che per più di una
generazione ha condizionato i rapporti tra Usa e Cina in merito. Ma non è
affatto inevitabile. Quasi tutti i Paesi – e tutte le maggiori potenze – hanno
riconosciuto le rivendicazioni della Cina che considera Taiwan parte del suo
territorio. Così hanno fatto anche sette presidenti americani di entrambi i
partiti, e nessuno con più enfasi di George W. Bush. Entrambe le parti hanno
gestito con qualche abilità gli eventuali imbarazzi provenienti da questo stato
delle cose. Le relazioni cino-americane migliorarono basandosi su tre principi:
il riconoscimento americano del principio di «una sola Cina» e l’opposizione a
una Taiwan indipendente; la comprensione da parte della Cina del fatto che
l’America chiede una soluzione pacifica ed è pronta a difendere questo
principio; il vincolo assunto da tutte le parti di non esacerbare la tensione
negli stretti di Taiwan.

Questo equilibrio delicato si è mantenuto per 33 anni.
L’obiettivo è ora inserire l’argomento di Taiwan in un contesto negoziale. La
recente visita a Pechino dei leaders di due dei tre maggiori partiti taiwanesi
potrebbe esserne un presagio. Negoziati sulla riduzione della tensione negli
stretti di Taiwan sembrano fattibili.

Con rispetto per l’equilibrio globale, la numerosa e
istruita popolazione cinese, i suoi vasti mercati, il suo ruolo crescente
nell’economia mondiale e nel sistema finanziario globale, tutto ciò prospetta
una crescente capacità di imporre incentivi e rischi, di avere una moneta di
influenza internazionale. Piuttosto che pensare di distruggere la Cina come
entità funzionante, bisognerebbe pensare a questa capacità come intrinseca
nell’economia e nei processi finanziari globali, ed è l’America stessa ad aver
contribuito ad alimentarla. In questo contesto, lo storico obiettivo americano
di opporsi all’egemonia in Asia – annunciato per la prima volta nel 1972 – come
obiettivo comune con la Cina nel Comunicato di Shanghai – resta valido. Ma
dovrà venire raggiunto con strumenti politici ed economici, già sostenuti dal
potere americano.
Ci sarà un test per le intenzioni cinese: se la Cina userà
la sua potenza crescente per cercare di escludere l’America dall’Asia o se essa
farà parte di uno sforzo congiunto. Paradossalmente, la migliore strategia per
conseguire obiettivi anti-egemonia è mantenere rapporti stretti con tutti i
maggiori Paesi asiatici, Cina inclusa. In questo senso l’ascesa dell’Asia sarà
un test per la competitività americana nel mondo che sta emergendo,
specialmente nei Paesi asiatici.
La grande maggioranza delle nazioni vede il proprio rapporto
con l’America attraverso la lente dei propri interessi. In un confronto tra
Cina e Usa cercheranno di evitare di schierarsi. Nello stesso tempo hanno
maggiori incentivi a partecipare a un sistema multilaterale con l’America
piuttosto che optare per un nazionalismo esclusivamente asiatico. Non vorranno
venire visti come tasselli di un mosaico americano.
L’India, per esempio, ha
con gli Usa interessi comuni perfino più importanti per quanto riguarda la
lotta all’Islam radicale, alcuni aspetti della proliferazione nucleare e
l’integrità dell’Asean l’associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico. Non
sente alcun bisogno di conferire a questi obiettivi comuni un carattere
ideologico oppure anticinese. Non trova nessuna contraddizione tra i propri
rapporti con gli Usa, in netto miglioramento, e la proclamazione di una partnership
strategica con Pechino.
La Cina sta cercando una cooperazione con gli Usa nel
proprio interesse e per numerose ragioni, inclusa la necessità di colmare il
divario tra le proprie regioni sviluppate e quelle in via di sviluppo, o
l’imperativo di adeguare le proprie istituzioni politiche all’acceleramento
della rivoluzione economica e tecnologica. Una guerra fredda con l’America
potrebbe avere un impatto catastrofico sull’incremento del tenore di vita, dal
quale dipende la legittimazione del governo. Ma da tutto ciò non consegue che
ogni danno inferto alla Cina in una guerra fredda si trasformerebbe in un
beneficio per l’America. Avremmo pochi seguaci in Asia, i cui Paesi
continuerebbero a commerciare con la Cina.

L’argomento dell’arsenale nucleare nordcoreano è un test
importante. Esso viene spesso presentato come un esempio dell’incapacità dei
cinesi a sfruttare tutto il loro potenziale. La pazienza della Cina nel
maneggiare questo problema irrita alcuni politici americani. Ma essa
parzialmente riflette la realtà: il problema nordcoreano è molto più complesso
per la Cina che per gli Usa. L’America si concentra sulle armi nucleari, ma la
Cina teme il potenziale caos lungo le sue frontiere. Queste preoccupazioni non
sono in contraddizione e possono richiedere l’estensione del dibattito dalla
Corea del Nord a tutto il Nord-Est asiatico.
I comportamenti sono psicologicamente importanti. La Cina
deve essere prudente con le politiche che sembrano escludere l’America
dall’Asia, e con la nostra sensibilità ai dossier sui diritti umani che
influenzerà la flessibilità e le azioni dell’America nei confronti della Cina.
L’America deve capire che un tono minaccioso evoca in Cina ricordi di arroganza
imperialista e non è adatto a trattare con un Paese che ha alle spalle 4 mila
anni di sovranità ininterrotta.

All’inizio del nuovo secolo le relazioni tra Cina e Usa
possono decidere se i nostri figli vivranno uno sconvolgimento perfino peggiore
di quello del Novecento, oppure se assisteranno alla nascita di un nuovo ordine
mondiale compatibile con le aspirazioni universali per la pace e il progresso.

Copyright
Tribune Media Service, Los Angeles Times

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