Indonesia, finita la tregua Tornano a parlare le armi – Francesco Battistini

Dopo il maremoto riprendono gli scontri in INDONESIA fra governo e guerriglieri separatisti islamici a Banda Aceh; SRI LANKA: nuove tensioni fra governo e Tigri tamil.
Nello SRI LANKA i separatisti delle Tigri tamil minacciano di riprendere gli scontri se i soldati governativi non si ritireranno dai campi tamil.
In INDONESIA i guerriglieri separatisti del GAM di Banda Aceh (musulmani integralisti) attaccano i soldati indonesiani per approfittare delle loro perdite nello tsunami. Nella provincia il governo ha imposto la legge marziale e i guerriglieri la svaria.
Si teme che i guerriglieri attacchino i soldati USA nell’area.

Gli scontri mettono a repentaglio gli aiuti umanitari all’INDONESIA. I governi europei sconsigliano le ONG dall’agire in INDONESIA.MEDAN (Indonesia) – Il mare, almeno questo, per due settimane li aveva messi a tacere. Ammutoliti i kalashnikov delle guerriglie, zitte le bocche di fuoco dei governi. Tutti scioccati. Adesso si ricomincia: guerra di propaganda e guerriglia vera. Dallo Sri Lanka del Nord, la radio di Stato dice che l’onda assassina s’è portata via il mitizzato Velupillai Prabhakaran, il leader delle Tigri tamil, il capopopolo che si vanta d’ispirarsi alle tecniche militari di Napoleone e poi manda a combattere perfino i bambini: fantasie, fanno sapere subito gl’indipendentisti, Velupillai è vivo e lotta insieme a noi.
In Indonesia, gira la voce che sotto lo tsunami sono morti migliaia di uomini del Gam, il movimento per la liberazione della provincia di Aceh: tutto sbagliato, assicurano a Giacarta, la guerriglia sta al riparo sulle montagne e non ha avuto perdite particolari. La vita ricomincia e anche la morte ritorna quella di prima. Nell’isola di Sumatra riprendono gli scontri, secondo una tradizione che prima del maremoto durava da vent’anni, e ieri sera colpi d’arma addirittura vicino al quartier generale dell’Onu, a Banda Aceh. Poche ore prima, s’è sparato nel villaggio di Seunudun, due morti sul terreno. Qualche giorno fa, altri sette ammazzati in una battaglia a Lham Long. E poi il sequestro-lampo d’un medico, l’agguato a una carovana umanitaria, le accuse del governo pronto a trasformare in terrorismo le rapine di criminali comuni, le smentite degl’indipendentisti che temono di perdere consenso. «Se qui ricominciano a parlare anche le armi – aveva ammonito il capomissione Onu, Jan Egeland – noi non possiamo più garantire nessun aiuto». Non l’hanno ascoltato.
Una tregua, unilaterale, i ribelli dell’Aceh l’avevano proclamata il giorno della catastrofe. Ma lo tsunami ha spazzato un’intera base militare a Lhoknga, la caserma di Banda Aceh è distrutta: forte la tentazione d’affondare in un momento di difficoltà dei governativi (si dice che siano 20 mila i morti fra i soldati). Ad Aceh vigeva finora la legge marziale, la regione chiusa al mondo, ma ora tutto è cambiato
. Sono arrivati i soldati americani, australiani, tedeschi, indiani, oltre a decine di ong del mondo intero. Giacarta vorrebbe bloccare questo flusso, ma non è facile: c’è bisogno d’aprire un corridoio aereo umanitario con la Malaysia, per esempio, proprio il Paese accusato di vendere al Gam armi in cambio della marijuana di Sumatra.
E i guerriglieri dell’Aceh, che da sei anni impongono la legge islamica della sharia, velano le donne e sognano una talebanizzazione dell’isola, potrebbero pensare ad atti clamorosi: «Contro i soldati americani? – si chiede James Kelly, consigliere di Colin Powell -. Spero di no, penso di no, ma nulla si può escludere». La preoccupazione c’è: il governo canadese chiede l’impegno di tutti a rispettare una tregua per consentire i soccorsi, quello australiano avverte che «gli operatori umanitari potrebbero presto finire coinvolti in scontri armati». I Paesi europei sono ancora impegnati nell’emergenza Thailandia – ieri il sottosegretario Margherita Boniver ha detto che nelle fosse comuni potrebbero esserci anche dei turisti italiani – e chiedono prudenza alle nostre ong, perché non si caccino nel pasticcio politico indonesiano.
L’acqua si fa torbida anche lontano da qui. Quando Kofi Annan arriva nello Sri Lanka e chiede di visitare il Nord dei tamil, il governo gli risponde gelido: se va lassù, noi non siamo in grado di garantirle alcuna sicurezza. Inutile l’appello del vescovo di Jaffna, figurarsi l’invito del leader delle Tigri, il presunto morto Prabhakaran. Sarebbe inaudito, un leader delle Nazioni Unite che va in una provincia separatista per qualcosa che non sia una mediazione: «Sono qui in visita umanitaria e mi compete chiunque si trovi in questa situazione di difficoltà – alla fine s’è quasi dovuto scusare Annan -. Ma io sono anche ospite del governo di Sri Lanka e non vado dove non si è d’accordo che io vada».
L’uomo del Palazzo di Vetro è attentissimo al Cencelli degli inchini, omaggio a un tempio buddista e subito a una moschea musulmana, in un Paese dove le Tigri accusano il governo di Colombo d’avere imboscato gli aiuti destinati al Nord indù, controllato dalla guerriglia. «Se i soldati non si ritirano dai campi profughi tamil – minacciano le Tigri, che si chiamano così per far paura al leone disegnato sulla bandiera nazionale – ci saranno serie conseguenze». Non servono molte spiegazioni: dal 1983, e fino alla tregua di tre anni fa, la guerra dello Sri Lanka ha fatto 65 mila morti.

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