Più di 300 mila precari. «Viviamo con mille euro al mese»+ichino

ITALIA, PRECARIETÀ

CORRIERE Lun. 15/5/2006  
Milano
   Rita Querzè

In Comune uno su sei è assunto con contratti atipici, in
Provincia uno su tre, alla Croce Rossa uno su due. «Stipendi sempre più bassi»

Dal Commercio alla sanità aumenta il lavoro flessibile.
Impiegati a termine anche all’ufficio di collocamento

Dai tempi del “Pacchetto TREU” Milano è capitale della
flessibilità, molto diffusa nel pubblico impiego e, a distanza, nel commercio e
negli aeroporti.

Nella sanità. Nel pubblico impiego. Nelle scuole. Negli
aeroporti. Negli asili. Nelle case di riposo. Ironia della sorte, persino
all’ufficio di collocamento. I lavoratori flessibili/precari (la denominazione
esprime già un punto di vista) si moltiplicano. Gli iscritti alla gestione
separata Inps in Lombardia sono 600 mila (di cui 300 mila in provincia di
Milano secondo le stime Ires, i
stituto di ricerca della Cgil). A questi bisogna
aggiungere i professionisti del lavoro somministrato (quello che fino a poco
tempo fa veniva chiamato lavoro in affitto): 156 mila in regione secondo i dati
delle aziende del settore aggiornati al 2004. E poi ci sono i contratti a
termine e i part time. Da dieci anni (dai tempi del pacchetto Treu) Milano è la
capitale della flessibilità
.

Oggi è possibile disegnare una vera e propria
mappa del lavoro atipico in città. I Fregoli dell’impiego lavorano prima di
tutto nel settore pubblico
. Circa 3 mila dei 17 mila dipendenti del
Comune
, per esempio, non hanno un contratto a tempo indeterminato (la
maggioranza sono a termine, ma ci sono anche co.co.co. e interinali). In
Provincia sono 700 su un organico di 2000 persone
. Si tratta di impiegati,
addetti agli sportelli del collocamento, maestre d’asilo, commessi. Professioni
diverse, stesso stipendio: mille euro al mese. «Con il Comune abbiamo
appena siglato un accordo in cui si prevedono 229 assunzioni nel triennio –
spiega Marzia Oggiano, segretario generale della Cgil Funzione pubblica di
Milano -. Le stabilizzazioni vanno a rilento. Non solo: il pubblico appalta
sempre più spesso i servizi a cooperative
che, a parità di mansione,
applicano contratti più svantaggiosi e stipendi peggiori».
Esternalizzano il Comune, la Regione, la Provincia, le Asl. Ma anche il
tribunale
: i servizi di fonoregistrazione (registrazione di interrogatori e
udienze) sono stati appaltati a una cooperativa. Superflessibili cliniche e
ospedali
. Nella sanità lombarda, secondo le stime della Cisl Fps, i
lavoratori con contratti diversi da quello a tempo indeterminato sono poco meno
di 19 mila. Caso eclatante: la Croce Rossa. Qui oltre il 50% degli addetti ha
contratti a termine. «Ormai a tempo determinato si assumono solo anestesisti,
infermieri e tecnici di radiologia – spiega il segretario milanese, Emilio
Didoné -. Soprattutto i ricercatori devono accontentarsi di borse di studio da
mille euro al mese, quando va bene».
Il 15% dei flessibili, secondo l’indagine Ires-Cgil, appartiene alla
categoria dei «lavoratori della conoscenza»
. Dottori di ricerca, gente con
curriculum d’eccellenza. Applicando questa stima al territorio milanese, si
tratterebbe di 45 mila persone solo in provincia. «Nelle università la
situazione è peggiorata dopo che nel 2000 c’è stato lo sblocco dei concorsi e
l’ampliamento degli organici. Tutte le nuove caselle sono state riempite con
personale precario», dice Domenico Carlomagno, segretario della Cisl Università
e ricerca di Milano.
«I lavoratori atipici guadagnano poco: la media dei nostri iscritti non
supera la soglia dei 10 mila euro netti l’anno»
, racconta Alexandra
Bonfanti, della segreteria del Nidil, la rappresentanza degli atipici
dentro alla Camera del lavoro. «Per gli iscritti alla gestione separata Inps
si preparano pensioni da fame. Niente tredicesima, ferie, liquidazione. Tutela
della maternità al minimo: cinque mesi pagati all’80%, sì. Ma dello stipendio
medio dell’ultimo anno. Visto che ci sono spesso periodi senza lavoro, alla
fine resta un assegno misero»
.
Un altro pezzo della Milano atipica si trova nelle scuole. «In provincia sono 5.000
i docenti con supplenze annuali, 3.000 gli ausiliari con contratti della stessa
durata. Senza contare tutti quelli che hanno supplenze più brevi»
, dice
Rita Frigerio, segretario della Cisl Scuola di Milano. A sorpresa, uno
straordinario bacino di flessibilità sono gli aeroporti
. Sea handling
ha un organico di poco più di 3.300 persone di cui circa 850 part time. A
questi vanno aggiunti 500 lavoratori in affitto
. «Gli aeroporti si
bloccherebbero se gli atipici da soli facessero sciopero – dice Nino
Cortorillo, segretario generale del Filt Cgil di Milano -. Si tratta di ruoli
faticosi e poco pagati».
Nella geografia della flessibilità milanese un posto di prima fila hanno
anche i call center
, che impiegano oltre 1.600 lavoratori con contratti
che vanno dall’interinale alla collaborazione
.
Per finire, c’è il commercio. I grandi centri commerciali stranieri
impiegano oltre il 50 per cento di personale part time. La distribuzione
italiana si ferma per ora al 30 per cento. Nei fast food i part time sono l’80
per cento
. Ma la quota di orari ridotti nel nostro Paese non era troppo
bassa? Non può trattarsi di un’opportunità per chi vuole conciliare lavoro e
famiglia? «In verità spesso si tratta di una flessibilità subita – risponde
Gilberto Mangone
, segretario generale della Fisascat Cisl di Milano
-. Gli stipendi sono bassi e anche le donne spesso preferirebbero il tempo
pieno. E poi gli orari non sono fatti a misura di famiglia ma di azienda»
.


CORRIERE Lun. 15/5/2006   PIETRO
ICHINO

LEGGE BIAGI

Sul lavoro un passo in avanti

Le aperture del segretario della Cgil Epifani e gli
interventi pubblicati in questi giorni da Liberazione e dal manifesto sulle
proposte di alcuni economisti de lavoce.info, ma anche l’intervento di
Walter Veltroni sulla Stampa di venerdì, sembrano aprire una stagione nuova del
dibattito in seno alla sinistra sui temi del lavoro. Non certo perché i
dissensi, anche profondi, possano dirsi superati, ma perché il dibattito
finalmente si sposta dalla contrapposizione sulla legge Biagi, ormai divenuta
un puro simbolo politico, alle questioni di fondo, che i contenuti effettivi di
quella legge toccano, in realtà, solo marginalmente
.
Proviamo a fare il censimento dei dati verificabili, sui quali un ragionamento
pragmatico può fondarsi, e delle questioni aperte su cui invece un dibattito
politico serio è indispensabile.
1. Da anni ormai quasi metà di coloro che entrano nel mercato del lavoro
trovano inizialmente occupazione in un rapporto precario
(a termine,
co.co.co., «lavoro a progetto», ecc.). Secondo i dati della Banca d’Italia
questo è accaduto per il 40,5% di coloro che hanno incominciato a lavorare nel
2005.
2. Tuttavia, sempre secondo i dati della Banca d’Italia, alla fine del 2005
solo il 10,8% del totale della forza lavoro era occupato in uno di quei
rapporti precari
. Questo significa che, finora, la maggior parte di
coloro che hanno incominciato a lavorare in quel modo sono passati a un lavoro
stabile entro pochi anni
.
3. Per quel che riguarda più specificamente i contratti a termine, i dati
Istat ci dicono che a fine 1993 essi erano il 9,8% del totale dei contratti di
lavoro subordinato, a fine 2000 erano saliti al 13,2%, per poi tornare a
diminuire. A fine 2005 erano il 12,6%
. In questo segmento del lavoro
precario, dunque, dopo la riforma della materia del 2001 si è assistito a
una riduzione
.
4. Gli altri tipi di lavoro precario sono invece oggetto della legge Biagi,
che, emanata nel 2003, è entrata gradualmente in vigore tra il 2004 e il 2005.
Dai dati disponibili sui due anni non emerge alcun aumento apprezzabile
della diffusione di questi rapporti
.
5. Resta il fatto che una parte dei giovani non riesce a passare dal lavoro
precario a quello stabile
. Qui non disponiamo di un dato complessivo
sicuro, ma sulla base di alcuni dati parziali si può stimare che si tratti di una
frazione che va dal 20 al 30% di questo segmento specifico della forza lavoro
«in transizione», con punte più alte tra i laureati
; una frazione che
costituisce per ora meno del 5% del totale della forza lavoro, ma è
presumibilmente destinata ad aumentare
. La vera questione del precariato,
oggi al centro del dibattito, riguarda essenzialmente queste posizioni.
Qui finiscono i dati ragionevolmente certi. Restano aperte alcune domande
cruciali
:
quanta parte di quel 20 o 30% «in transizione», che è più a rischio di
precariato permanente, troverebbe un lavoro stabile e quanta parte
rimarrebbe invece disoccupata se venissero ridotte drasticamente le possibilità
di lavoro non stabile?

– viceversa, quali e quanti sono i casi in cui l’accesso al lavoro stabile è
favorito da una fase iniziale di lavoro meno protetto?
quali e quanti sono,
invece, i casi in cui la possibilità del rapporto precario finisce col
consentire che il lavoratore vi resti intrappolato per lungo tempo?
se si rendesse più fluido il mercato del lavoro giovanile, privato e
pubblico, col prevedere per tutti una fase di accesso meno protetta (ma
temporalmente ben delimitata), quali e quanti lavoratori troverebbero un
lavoro più adatto alle loro caratteristiche?

Oggi gli studi economici non rispondono in modo univoco a queste domande
(essenzialmente per l’inadeguatezza dei dati disponibili). Ma, proprio per
l’assenza di certezze su questi punti cruciali, chi ha più a cuore la difesa
degli ultimi della fila dovrebbe considerare, quanto meno, il rischio che la
soppressione della possibilità di accesso al lavoro attraverso una fase di
occupazione meno rigidamente protetta condanni la parte più debole a restar
fuori
(e un’altra parte a un lavoro meno gratificante di quello che sarebbe
possibile). Per un governo di centrosinistra è, certo, ragionevole scegliere di
correre questo rischio; ma è ragionevole anche ipotizzare che si ottengano
risultati complessivamente migliori coll’offrire a tutti uno stesso percorso di
accesso graduale alla stabilità; a tutti maggiori garanzie nella fase di
passaggio da un lavoro all’altro; e ai più deboli un sovrappiù di informazione,
formazione mirata e assistenza intensiva nel mercato. In un dibattito sereno e
pragmatico, anche in seno alla sinistra e al sindacato, ci deve essere spazio
per entrambe queste opzioni.

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