Prima del voto – Abdullah Abdullah vuole essere l‘Obama dell‘Afghanistan + Vari

Die Welt        090810

Prima del voto – Abdullah Abdullah vuole essere l‘Obama dell‘Afghanistan

Sophie Mühlmann

+ Der Spiegel 28/2009         090706, L’affarista; Christian Neef

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– Abdullah Abdullah, l’unico vero avversario nelle presidenziali afghane del presidente uscente Karzai (dato per favorito), è un abile oratore, non macchiato da scandali e si propone come mediatore tra i vari gruppi etnici; può inoltre sfruttare la fama di un eroe morto.

– Abdullah, chiamato dai sostenitori “l’Obama dell’Afghanistan”,[1] (ex chirurgo oculista, conosce parla correntemente inglese e francese, ha carisma, è stato per quasi 5 anni ministro Esteri di Karzai,

o   il quale non rappresenta più le speranze degli afghani non avendo saputo mantenere le promesse di pace, lavoro e ricostruzione fatte nel 2004; Karzai non è neppure più il favorito dell’Occidente.

●    Negli anni 1980 Abdullah aderì alla guerriglia anti-sovietica dell’Alleanza del Nord, che sarebbe poi divenuta la punta di lancia della lotta contro i talebani;

●    divenendo un seguace dell’eroe nazionale afghano Shah Massud, il “leone della valle del Pandshir”, ucciso nel 2001 da al-Qaeda.

●    Abdullah (48/49 anni??) madre tagika e padre pashtun di Kandahar, senatore sotto il re Zahir Shah) fa da collegamento tra le varie etnie afghane e predica il cambiamento, per questo è paragonato al presidente USA.

●    È il candidato del “Fronte per l’Unità”, dietro a cui sta l’ex “Alleanza del Nord”, alleanza di tagiki e uzbeki, capeggiata dal leggendario generale Ahmed Shah Massud, che nel 2001 entrò vittoriosa in Kabul.

o   Ha condotto la campagna elettorale nelle strade e nei villaggi, tenendo riunioni di massa sotto un telone colorato (usato di solito per i matrimoni).

o   Ha fatto discorsi populistici con un linguaggio semplice, tenendo conto che solo 1/3 degli afghani sa leggere e scrivere; ha adeguato i discorsi all’uditorio: le virtù dei martiri dove c’erano ex mujaheddin, nelle città ha promesso progetti concreti e la decentralizzazione con un nuovo sistema parlamentare.

o   (Der Spiegel) 

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– Der Spiegel:

●    Abdullah dichiara: Karzai non ha mai visto come vero pericolo i talebani, ma l’Alleanza del Nord; negli ultimi anni ha concentrato tutte le sue energie per escluderci dal potere politico, e ha di conseguenza permesso ai talebani di ri-organizzarsi.

o   Abdullah parla a nome di tagiki e uzbeki, che rappresentano il 36% della popolazione afghana e che si considerano ancor oggi i vincitori dei talebani;

o   si contrappone al pashtun Karzai che appoggiava ancora i talebani, quando l’Alleanza del Nord era da tempo scesa in campo contro di loro.

●    Durante il suo primo mandato, Karzai si è liberato dai ministri che avevano combattuto a fianco dell’Alleanza: il ministro Difesa Mohammed Fahim, ex capo della sicurezza di Massud, il generale Abdul Rashid Dostum, capo di stato maggiore, e nel 2006 il ministro Esteri Adbullah. Fu questo l’humus su cui nacque il “Fronte per l’Unità”, che chiamò Abdullah a presentarsi come suo candidato, che avendo un padre pashtun era eleggibile anche dal maggior gruppo etnico afghano.

o   A maggio il Fronte poteva sperare di avere i voti almeno della maggioranza di uzbeki e tagiki, ma poi ci fu un tradimento: Fahim e Dostum sono passati al campo di Karzai.

●    Karzai ha promesso la vice-presidenza a Fahim, che gli porterà i voti dei tagiki del Nord.

o   Fahim, ammalato di diabete, si sarebbe costruito su terreno statale ville sontuose, e sarebbe dietro il business dei rapimenti di Kabul.

o   Dostum, leader degli uzbeki, era il più brutale e imprevedibile comandante dell’Alleanza del Nord; cambiò fronte quasi ogni anno durante la guerra civile; con Karzai divenne capo di stato maggiore; cadde in disgrazia e fuggì l’anno scorso in Turchia per aver continuato gli scontri armati con i rivali nelle province del Nord da lui controllate.

o   Nello scorso giugno improvvisamente Karzai l’ha reintegrato in tutti i suoi diritti civili, e richiamato alla funzione di capo di stato maggiore delle forze armate.

o   È da ritenere che l’alleanza strumentale costruita da Karzai non resisterà a lungo dopo le elezioni.

o   Karzai avrebbe tentato di allettare Abdullah con l’ipotesi di re-introdurre un premierato in Afghanistan, riforma che rientrava nel programma elettorale del Fronte per l’Unità di Abdullah.

●    Seconde elezioni presidenziali in Afghanistan, con 10mila soldati Nato che presidiano le urne; già da ora è chiaro che si tratta di una farsa, e questo per colpa del presidente uscente Karzai,

●    che ha fatto arretrare il paese per la sua sete di potere.

– Elezioni non paragonabili a quelle tenute in Europa: 41 i candidati, 17 milioni gli elettori registrati su una popolazione di 29milioni; quasi 5 milioni più delle elezioni del 2004; il governo ha lasciato il potere ai talebani in 90m distretti; nel paese per 3 decenni e mezzo c’è stata la guerra e nessuna libera votazione;

– da un sondaggio tenuto dall’università di Kabul risulta che il 67% degli Afghani non ha quasi alcuna fiducia nelle nuove istituzioni politiche.

– la maggioranza pensa che vinca anche queste elezioni 2009 Hamid Karzai, il presidente in carica che è oggi la figura più malvista del paese;

●    Karzai non è in grado di frenare i talebani neppure nella regione pashtun da dove egli proviene, e che per il suo sostenitore americano era già un cadavere politico.

o   Soli il 31% degli afghani voterebbe Karzai, 24 punti meno delle precedenti votazioni, ma rimane il favorito, che ha trasformato in farsa le elezioni ancor prima che abbiano inizio.

o   In poche settimane ha distrutto l’opposizione e ha legato la sua sorte ai favori di equivoci capi tribù.

– Anche negli ambienti politici di Kabul, Karzai è visto come “affarista”, “traditore”, che disonora il paese, opinione pressoché identica di monarchici, ex-comunisti, tagiki o pashtun.

– Ha improvvisamente ritirato la propria candidatura per le presidenziali – nonostante sapesse di avere l’appoggio delle tribù pashtun – su pressione di Karzai (così sostiene)

o   Gul Agha Sherzai (54 anni), uomo degli americani (il presidente Usa, Obama si è incontrato con lui nel 2008 in Afghanistan, e Sherzai ha presenziato a Washington all’insediamento di Obama), imprenditore edile ed ex comandante Mujaeddin, ha governato in modo particolarmente sanguinoso la provincia di Kandahar, tormentata dai talebani;

o   oggi governatore (si dice il più popolare in Afghanistan) della ricca provincia di Nangarhar, dalla cui capitale, Jalalabad transitano i camion di merci provenienti dal Pakistan, che forniscono circa €43 mn. di introiti doganali; da qui vennero i talebani.

– Sherzai ha 4 mogli, l’ultima di 14 anni; è in lite con la famiglia.

o   Alam Ishaqzai, economista laureato a Mosca; parla della candidatura di Sherzai, che certo non era gradita a Karzai dato che gran parte dei pashtun avrebbero votato per lui e non per Karzai; Karzai ha in seguito definito la rinuncia di Sherzai “un passo positivo per rafforzare l’unità di tutti gli afghani”; nessuno a Kabul sa se la candidatura di Sherzai è stata un ricatto o se l’hanno incoraggiato gli americani.

o   Karzai ha donato a Sherzai, in cambio del suo ritiro, i Giardini di Barbur, il più famoso parco di Kabul, in cui vi è la tomba del mogul Barbur

o   Ishaqzai: non possibile la democrazia in un paese in cui l’Occidente ha trasformato una minoranza in maggioranza, intendendo parlare di iraniani, turchi, indiani e anche tedeschi che preferirono appoggiare l’Alleanza del Nord.

– Non ci sarebbe più alcuna opposizione in Afghanistan, tutti quelli in alto sono corrotti, ed è proprio questo che li unisce: una coalizione di affaristi, nulla di più. È per questo che è stato facile per Karzai eliminare tutti i concorrenti.

– Dichiara Oria, altro candidato alla presidenza, un uomo del vecchio regime, filo-russo, che ora non ha più incarichi; il padre un alto generale pashtun, per linea materna discende da un ex re afghano, diplomatico sotto il presidente stalinista Nadshibullah, impiccato nel 1996 dai talebani:

o   Anche il vice di Karzai, Fahim, è un traditore come Dostum; Abdullah ha fatto parte della banda di Massud, che per 30 anni ha sfruttato miniere di smeraldi e lapislazzuli nel Panshir, e con il ricavato ha formato la sua banda armata.

o   Come ha finanziato la sua campagna Abdullah? Riceve $400mn. l’anno che mette su un conto di Londra, dove risiede il fratello.

– Quel che è certo, a parte le cifre, è che i tagiki controllano ancora le miniere di lapislazzuli nel Nord; Nella valle del Pandshir abitano ora solo tagiki

Oria: Karzai ha versato $11 mn. (dalle casse statali) all’ex ministro Interni Ali Ahamed Jalali perché si ritirasse dalle elezioni.

[1] In occasione della sua entrata in politica nel 2001, in mancanza di un cognome del gruppo familiare, se lo è creato raddoppiando il nome.

Die Welt          090810

Vor der Wahl – Abdullah Abdullah will Afghanistans Obama sein

 Von Sophie Mühlmann 10. August 2009, 17:35 Uhr

–   Bei der Präsidentschaftswahl in Afghanistan gibt es nur einen Kandidaten, der Amtsinhaber Karsai gefährlich werden kann. Abdullah Abdullah spricht die Wähler geschickt an, gilt als skandalfrei und als Mittler zwischen den verschiedenen Volksgruppen. Zudem profitiert er vom Glanz eines toten Helden.

„Abdullah!“, kreischen die Menschen, wenn der Wahlkampf-Helikopter des ehemaligen Augenarztes in den staubigen Städten Afghanistans landet. Sie rufen seinen Namen, denn inzwischen setzen viele Afghanen ihre Hoffnungen auf ihn, wenn sie am 20. August zum zweiten Mal in der Geschichte des Landes einen neuen Präsidenten wählen.

Abdullah Abdullah im Wahlkampf

–   Was Hamid Karsai nicht geschafft hat, vielleicht kann es einem anderen gelingen? Obwohl der derzeitige Präsident noch immer als Favorit gilt, leuchtet der Stern seines Mitstreiters um das höchste Amt am Hindukusch täglich heller. Der ehemalige Außenminister Abdullah Abdullah hat von allen 41 Kandidaten die größten Chancen, Karsai abzulösen.

–   Seine Fans haben ihm den Spitznamen „Afghanistans Barack Obama“ verpasst. In seinen Wahlkampfreden spricht er die Hoffnungen der Millionen von Menschen an, die nach dem Sturz der Taliban vor knapp acht Jahren für ein besseres Leben gebetet hatten und enttäuscht wurden. All die Frustrierten, Desillusionierten, denen es trotz der viel versprochenen „neuen Ära“ keinen Deut besser geht.

–   Karsai ist schon lange nicht mehr der Hoffnungsträger der Afghanen, und er ist auch nicht mehr der Liebling des Westens. Er hatte 2004 Frieden, Jobs und Wiederaufbau versprochen – und nichts davon eingelöst.

–   Der Ex-Chirurg Abdullah, der seinen Vornamen mangels Familiennamen kurzerhand verdoppelte, als er 2001 in die Politik ging, hatte sich in den 80er-Jahren den anti-sowjetischen Guerillas der Nordallianz angeschlossen, die später zur Speerspitze im Kampf gegen die Taliban wurden. Abdullah folgte damals Afghanistans Nationalheld Ahmed Shah Massud ins Pandschir-Tal.

–   Noch immer strahlt ein wenig vom Glanz Massuds, der 2001 von al-Qaida ermordet wurde, auf Abdullah ab. Das macht einen Teil seines Erfolges aus.

–   Dazu spannt der Kandidat eine Brücke über die tiefen Gräben zwischen Afghanistans Ethnien: Seine Mutter war Tadschikin, sein Vater Paschtune aus Kandahar. Abdullahs gemischte Herkunft spricht viele unterschiedliche Wähler an. Er verbindet die Volksgruppen und predigt den Wandel – auch deshalb vergleicht man ihn mit Amerikas Präsidenten.

Der Wind hat sich gedreht

–   Inmitten der früheren Kriegsfürsten, islamischen Extremisten und Drogenbarone, die sich um das Präsidentenamt bewerben oder in der derzeitigen Regierung mitmischen, sticht Abdullah angenehm heraus: Hoch gebildet, wortgewandt in Englisch und Französisch, wirkt er besonnen und distinguiert. Mit seinem grau melierten, sorgsam gestutzten Bart, den schweren Lidern und der leisen Stimme spricht er Afghanen und Ausländer gleichermaßen an. An seiner weißen Weste kleben keine Korruptionsskandale, an seinen Händen kein Blut.

–   „Es war sehr schwierig, mich davon zu überzeugen, zur Wahl anzutreten“, erklärte Abdullah in einem Interview, „ich wollte meinen Beitrag zum Wandel leisten, ihn aber nicht anführen“. Zu Beginn seiner Kampagnen wirkte er entsprechend unsicher. Im Mai, zum Auftakt des Wahlkampfes, gaben ihm die Umfragen gerade mal sieben Prozent der Stimmen, während man Karsai rund 33 Prozent voraussagte.

–   Doch der Wind hat sich gedreht und dreht sich weiter. Abdullah hat seine Kampagne in die Straßen und Dörfer getragen und Massenkundgebungen unter den bunten Zeltplanen abgehalten, die normalerweise für Hochzeiten benutzt werden. Inzwischen, nachdem immer mehr Menschen ihn mit offenen Armen begrüßten, glaubt Abdullah an sich selbst – und überzeugt damit immer mehr der rund vier Millionen Wahlberechtigten.

Die Probleme sind kaum zu zählen

–   Seine Reden sind populistisch, die Slogans simpel. „Gebt mir die Macht“, ruft er zum Beispiel den Menschen zu, „dann kann ich sie an Euch zurückgeben“. In Afghanistan, wo nur ein Drittel der Bevölkerung lesen und schreiben kann, kommt so etwas gut an. Abdullah passt seine Botschaften der Umgebung an: In Gegenden mit Mudschaheddin-Vergangenheit preist er die Tugenden der Märtyrer, in den Städten verspricht er konkrete Projekte und stärkere Dezentralisierung durch ein neues, parlamentarisches System. Der 49-Jährige hat Charisma und ist ein guter Netzwerker. Doch wie Karsai gilt er Kritikern als wenig zupackend und fähig, Probleme zügig anzugehen.

Und die Probleme Afghanistans sind kaum zu zählen – allen voran die Sicherheitslage. Die Taliban haben geschworen, die Wahl zu stören. Ein gutes Dutzend Wahlhelfer wurden bereits ermordet.

Laut einem neuen Bericht der UN-Hilfsmission in Afghanistan (Unama) und der afghanischen unabhängigen Menschenrechtskommission (AIHCR) hat die zunehmende Gewalt die Bewegungsfreiheit und die Redefreiheit von Kandidaten und ihrer Unterstützer stark begrenzt.

–   Die Behörden gehen davon aus, dass 700 der 7000 Wahllokale aus Sicherheitsgründen am Wahltag nicht öffnen können – vor allem im Süden, dort, wo Karsai favorisiert wird. Dies könnte den amtierenden Präsidenten die erforderliche 50-Prozent-Mehrheit kosten und zu einer Stichwahl führen – profitieren würde der zweitbeste Kandidat, Abdullah Abdullah.

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Der Spiegel     090706
SP

DER SPIEGEL 28/2009 vom 06.07.2009, Seite 98

Autor: Christian Neef
AFGHANISTAN – Der Dealer

–   Zum zweiten Mal wird der Präsident gewählt. Für den Westen ist das ein Schritt zur Demokratie, mit 10 000 Soldaten sichert er den Urnengang. Aber schon jetzt steht fest: Diese Wahl ist eine Farce, und schuld daran ist Hamid Karzai. Sein Machthunger wirft das Land zurück.

Von Christian Neef

Es ist Sommer geworden in der Stadt, und noch immer führt der Kabul River Wasser. Sonst lag er spätestens im Juni trocken, diesmal aber gurgelt der Fluss nach wie vor munter von den Viertausendern aus der Provinz Wardak heran, durchquert Kabul und stürzt sich mit Getöse die Schlucht hinunter Richtung Jalalabad.

Ein gutes Omen für die leidgeprüfte Stadt? Kabul jedenfalls freut sich und staunt, und überhaupt scheint es, als hätten all die schlechten Nachrichten, die die Welt täglich aus Afghanistan erreichen, mit der Hauptstadt nichts zu tun.

–   Die Front im Kampf gegen die Taliban? Gefühlt ist sie momentan ziemlich weit weg. In Kabul gibt es seit Wochen keine größeren Anschläge mehr, dafür aber endlich ausreichend Strom: Japaner und Inder haben eine neue Leitung von Usbekistan in die Hauptstadt gelegt, die sonst so unerträglich knatternden Stromaggregate schweigen nun, wenn abends das Fernsehprogramm beginnt. Am Flughafen ist der neue Abflugterminal eingeweiht, auch den haben die Japaner gestiftet, und gegenüber der Chicken Street steht schlüsselfertig das von Chinesen errichtete Krankenhaus.

–   Kabul brummt, Kabul vibriert. Die Türken asphaltieren die Ausfallstraßen, im Norden wachsen gläserne Supermärkte und Hochzeitspaläste empor, und schon morgens um neun kollabiert der Verkehr. Auch die neuen Ampeln samt grünem Rechtsabbiegepfeil bekommen ihn nicht in den Griff.

–   An den Kreuzungen stehen Werbetafeln mit dem Porträt eines Mannes. Lächelnd blickt er aus zehn Meter Höhe auf den Kabuler Alltag herab, er trägt den Chapan, den grünen afghanischen Mantel, den er lässig über die Schultern geworfen hat, und sagt: "Unser Weg ist ein friedlicher Weg". Sein Weg, soll das heißen und dass Kabuls Aufschwung zuallererst mit ihm zu tun hat, nicht mit den Ausländern – mit Hamid Karzai, Afghanistans Präsidenten.

–   Es ist Wahlkampf, am 20. August wird ein neuer Staatschef gewählt. Und weil die Afghanen hierfür erst zum zweiten Mal zur Urne gerufen werden, seit die Taliban aus Kabul vertrieben worden sind, werden an die Abstimmung große Erwartungen geknüpft.

–   41 Kandidaten hat die Wahlkommission zugelassen und an die 17 Millionen Wähler registriert, fast 5 Millionen mehr als beim Urnengang 2004 – beides feiert sie als Fortschritt auf dem Weg zur Demokratie. 10 000 zusätzliche Nato-Soldaten sollen dafür sorgen, dass der Wettkampf um die Stimmen ohne Zwischenfälle verläuft.

–   Es wird keine Wahl, an die sich europäische Maßstäbe anlegen ließen. Schon weil bei einer auf 29 Millionen geschätzten Bevölkerung viel zu viele Wahlkarten im Umlauf sind und die Regierung in 90 Distrikten die Macht den Taliban überlassen hat.

–   Das mag alles erklärbar sein in einem Land, in dem es dreieinhalb Jahrzehnte keine freien Abstimmungen gab, dafür aber jede Menge Krieg – wäre da nicht eine andere Zahl. Eine Umfrage der Kabuler Universität besagt, dass 67 Prozent der Afghanen die Hoffnung auf transparente Wahlen schon wieder aufgegeben haben. Und dass ihr Glaube an die neuen politischen Institutionen gegen null tendiert.

–   Eine Mehrheit glaubt offenbar auch, dass ausgerechnet jener Mann die Abstimmung 2009 gewinnt, der derzeit die wohl unbeliebteste Figur im Lande ist: Hamid Karzai, der amtierende Präsident. Ein Mann, der den Taliban nicht mal in seiner paschtunischen Heimat Einhalt gebieten kann und in den Augen seiner amerikanischen Förderer bereits eine politische Leiche war.

–   Angeblich nur noch 31 Prozent wollen Karzai ihre Stimme geben, das wären 24 Prozentpunkte weniger als letztes Mal, wenn man in einem Land wie Afghanistan Umfragen trauen darf.

–   Trotzdem ist er der Favorit. Aber er hat die Wahl, bevor sie überhaupt begonnen hat, bereits zur Farce gemacht.

–   Der 20. August wird keinen Fortschritt bringen für Afghanistan. Karzai hat in nur wenigen Wochen die Opposition zerschlagen und sein Schicksal mit der Gunst dubioser Stammesfürsten verknüpft. "Diese zwei Tatsachen – Mr. Karzais Unbeliebtheit und die Wahrscheinlichkeit seines Sieges – haben sich wie ein Leichentuch der Resignation über die Wahlkampagne gelegt", schreibt die "New York Times".

–   Karzai sei ein "Dealer", ein "Verräter", er bringe Schande über das Land, sagen sie in diesen Tagen auch in den politischen Salons von Kabul, und fast schon ist es egal, ob man Königstreue oder Ex-Kommunisten, Tadschiken oder Paschtunen befragt. Was der Präsident in diesen Wochen tue, werfe Afghanistan um Jahre zurück.

Wie aber hat er diesen Coup geschafft, und was werden dessen Folgen sein?

–   Eine einmalige Chance habe Karzai gehabt: "die Chance, Afghanistan politisch wieder zu einen. Er hat sie verpasst".

–   So sagt es Abdullah Abdullah, der gelernte Augenarzt, der fast fünf Jahre lang Karzais Außenminister war. Jetzt ist er dessen bedeutendster Gegner, er ist der Kandidat der oppositionellen "Einheitsfront".

–   Dahinter steckt die frühere "Nordallianz", das vom legendären General Ahmed Schah Massud geführte Bündnis von Tadschiken und Usbeken, das 2001 siegreich in Kabul einmarschierte.

–   Abdullah hat sich mit seinem Stab in einem Haus in Shar-i Nau einquartiert, der teuren Gegend gleich hinter dem Kabul City Centre, seine Familie lebt sicherheitshalber noch immer in Indien.

–   Im Vorzimmer sitzen: ein Bürgermeister aus der Provinz Samangan, ein Oberst aus dem tadschikischen Pandschirtal, ein paar schläfrige Leibwächter mit abgewetzten Kalaschnikows auf den Knien und die üblichen Bittsteller, die in diesen Wochen durch die Büros der Präsidentschaftskandidaten ziehen, um zu testen, bei wem künftig die stärkeren Bataillone sind. Es ist acht Uhr abends, Abdullah hat einen harten Tag hinter sich, aber er bewahrt Haltung, so wie man ihn aus der Zeit des Bürgerkriegs kennt, als er das Gesicht der Nordallianz war: gefärbte Haare, ein gepflegter Bart, die braune Wildlederjacke sitzt akkurat.

–   Der 48-Jährige formt seine Sätze mit der leichten Arroganz des Kabuler Intellektuellen, dessen Vater unter König Zahir Schah immerhin Senator war. Stünde hinter ihm nicht jenes goldgerahmte Foto, das ihn in den Achtzigern im Kampfanzug neben Massud, dem "Löwen vom Pandschirtal", zeigt, irgendwo im Norden während des Widerstands gegen die sowjetischen Besatzer – man käme nicht darauf, dass er einst im Untergrund war.

–   Karzai habe nie die Taliban als die eigentliche Gefahr gesehen, sagt Abdullah, "sondern immer nur die Nordallianz. Er hat in den letzten Jahren all seine Energie darauf konzentriert, uns als politische Kraft auszuschalten – und dabei übersehen, dass sich die Taliban neu formieren". Nun werde die Sicherheitslage im Land jede Woche schlimmer.

–   Es ist der Zorn von Tadschiken und Usbeken, der aus ihm spricht, einer Gruppe, die 36 Prozent der afghanischen Bevölkerung stellt und sich noch heute als Bezwinger der Taliban versteht.

–   Und zugleich der Argwohn [il sospetto] gegenüber dem Paschtunen Karzai, der die Taliban noch unterstützte, als die Nordallianz längst militärisch gegen die Gotteskrieger zu Felde zog.

–   Tatsächlich hat sich der Präsident in seiner ersten Amtszeit von jenen Ministern getrennt, die einst auf Seiten der Allianz kämpften: von Verteidigungsminister Mohammed Fahim, dem früheren Sicherheitschef Massuds, von General Abdul Raschid Dostum, dem Stabschef der Armee, und 2006 von seinem weltgewandten Außenminister – Abdullah Abdullah.

–   Das war der Humus, auf dem die "Einheitsfront" entstand. Sie rief Abdullah zu ihrem Kandidaten aus, weil er einen paschtunischen Vater hat und damit, theoretisch, auch für die größte ethnische Gruppe wählbar ist. Noch im Mai standen die Aktien gut, die Front konnte hoffen, zumindest die Mehrheit der usbekischen und tadschikischen Stimmen zu bekommen. Doch dann passierte, was in Afghanistan seit Menschengedenken zum politischen Werkzeug gehört: schnöder Verrat.[ignobile tradimento] Fahim und Dostum liefen über zu Karzai.

–   Das habe ihn, sagt Abdullah, "tief enttäuscht". Habe Fahim selbst der Kandidat der Opposition werden wollen? "Nein, er hat gar keinen politischen Ehrgeiz, aber er wollte gern Erster Vizepräsident werden, er glaubt, dass Karzai wieder gewinnen wird. Und Karzai bot ihm, was er sich erträumt: die Rolle des Vizepräsidenten."

Ein "Deal mit einem Dealer", sagt der Ex-Außenminister, lächelt abfällig und überprüft gelangweilt den Schnitt seiner Fingernägel: "Beim Volk hat Karzai damit doch bereits verspielt."

–   Aber dem wird das Stimmen bringen im tadschikischen Norden, dort hat Fahim großen Rückhalt. Nur die Kabuler sind entsetzt: Karzai habe sich mit dem Teufel verbündet, sagen sie – mit einem schwer an Diabetes erkrankten Mann, dessen Milizen auf ihren Pick-ups durch die Hauptstadt jagten, als stünden sie jenseits der Gesetze, der sich im Stadtteil Karte Parwan protzige Villen auf Staatsland erbaut habe und hinter dem Kidnapping-Business in Kabul stecken soll – erst vorige Woche habe es wieder vier Entführungen gegeben. Mit Schaudern malen sie sich aus, Fahim werde der erste Mann im Staat sein, falle Karzai irgendwann einmal aus.

Und der Fall Dostum? Ja, auch der habe ihn "schwer überrascht", sagt Abdullah.

–   Der Usbeken-Führer war der unberechenbarste und brutalste Kommandeur der Nordallianz, im Bürgerkrieg wechselte er fast jährlich die Fronten, unter Karzai stieg er zum Armee-Stabschef auf. Weil er sich in den von ihm kontrollierten Nordprovinzen immer wieder Scharmützel mit Rivalen lieferte, fiel er in Ungnade, voriges Jahr flüchtete er in die Türkei.

–   Im Juni setzte Karzai ihn überraschend wieder in "alle seine bürgerlichen Rechte" ein und berief ihn erneut als Stabschef des Oberkommandierenden der Armee. Das alles sei "vielleicht nicht demokratisch", gab die regierungsnahe "Afghanistan Times" zu, als "Mittel zur Beibehaltung einer Mindestmenge von Frieden und Kooperation zwischen den wichtigsten ethnischen Blocks" aber durchaus erlaubt.

–   Ausführlicher kommentieren mag Abdullah auch diesen Vorgang nicht, er weiß, die Überläufer haben ihn fast schon um seine Chance gebracht. Aber man könne davon ausgehen, dass Karzais Zweckbündnisse nicht lange über den Wahltag hinaus halten. Der Schaden im Bewusstsein der Afghanen jedoch werde "von Dauer sein", sagt Abdullah. Weil da offen Schindluder getrieben werde mit der Demokratie.

Habe Karzai nicht auch ihn als Konkurrenten wegkaufen wollen? Der Ex-Außenminister schweigt, er sucht nach Worten.

–   Ja, räumt er dann ein, er sei beim Präsidenten gewesen. Der habe ihn gefragt, was er davon halte, wenn es nach der Wahl wieder einen Premierminister gebe in Afghanistan. Angeboten habe Karzai ihm dieses Amt nicht, er habe lediglich seine Meinung hören wollen, sagt Abdullah.

–   Aber natürlich weiß der Präsident, dass die Wiedereinrichtung des Amts eines Ministerpräsidenten im Programm von Abdullahs "Einheitsfront" steht.

Die Fernstraße nach Jalalabad und weiter nach Pakistan, von den Chinesen neu asphaltiert, bietet diesen Sommer Bilder von atemberaubender Schönheit: Überall Weizen, Reis und Zwiebelfelder – die sonst staubbraune Landschaft vor bizarrer Bergkulisse zeigt sich in kräftigem Grün. Nangarhar ist eine wohlhabende Provinz.

–   Gul Agha Sherzai weiß das sehr wohl, er ist hier der Gouverneur, heute weiht er die neue Straße von Spin Ghar in die Provinzhauptstadt ein. Er hat seinen bulligen Leib in die Pirahan Tunban gezwängt, die Tracht mit Weste und langem weißem Hemd über der Hose, er hat den Turban der Paschtunen auf dem Kopf und zerschneidet nun das rote Band. Auch die letzte Distriktstraße werde "in den nächsten zwei Jahren" rekonstruiert, verspricht er gönnerhaft. Dabei haben die Amerikaner die Straße finanziert.

–   Sherzai, 54, der steinreiche Bauunternehmer und ehemalige Mudschahidin-Kommandeur, war früher Chef in der von den Taliban schwer geplagten Provinz Kandahar; seine Herrschaft dort, heißt es, sei "besonders blutig" gewesen, selbst nach den Standards afghanischer Warlords.

–   Jetzt ist er Statthalter in Nangarhar, einer Provinz, von der das Wohl und Wehe Kabuls abhängt. Durch Jalalabad wälzen sich Tag und Nacht die bunten Trucks mit Waren aus Pakistan, wer hier sitzt, kann der Hauptstadt die Luft abdrehen, von hier rückten einst die Taliban vor.

–   Seit Sherzai da ist, geht es Jalalabad gut, Teppiche werden geknüpft und Motorrikschas gebaut, drei Milliarden Afghani, umgerechnet 43 Millionen Euro, betragen allein die Einnahmen vom Zoll. Die Stadt ist sicher, angeblich ist in Nangarhar sogar der Mohnanbau eingestellt. Sherzai, so sagen zumindest die Paschtunen, sei derzeit Afghanistans populärster Gouverneur.

–   In jedem Fall ist er ein Mann der Amerikaner. Barack Obama hat sich bei seiner Afghanistan-Reise 2008 eigens zu ihm nach Jalalabad bemüht, und natürlich war der Gouverneur auch zu Obamas Inauguration in Washington.

Er residiert im einstigen Winterpalast der afghanischen Monarchen, "erbaut von König Abdur Rahman Khan, rekonstruiert von Gouverneur Gulagha Sherzai", wie es draußen auf einer Tafel steht.

–   Aber Sherzai geht es heute schlecht. Er hat neue Zähne bekommen, sie schmerzen heftig, und auch sonst gibt es Ungemach: Er hat Streit mit der Familie, er hat sich – zusätzlich zu seinen drei Frauen – mit einer 14-Jährigen verlobt, das ist Stadtgespräch sogar in Kabul.

–   Warum er so überraschend seine Kandidatur als Präsidentschaftskandidat zurückgezogen habe? Er, der mächtige Paschtunen-Stämme hinter sich weiß und Karzai vorgeworfen hat, der komme "nicht aus seinem Bunker" heraus? Nun, brummt er, das sei doch bekannt, er sei vier Stunden bei Karzai gewesen, "ich habe dort seinen kleinen Sohn gedrückt und entschieden, mich aus dem Rennen zurückzuziehen". Sagt’s und springt in seinen Jeep, er muss zu der 14-Jährigen nach Kabul. Sein Vize möge weitere Auskunft geben.

–   Der heißt Alam Ishaqzai, ist ein Mann mit rundlichem Gesicht, er hat Volkswirtschaft in Moskau studiert und dort sogar promoviert, auf seiner Visitenkarte steht "Professor". Ein sachkundiger Verwaltungsmann an der Seite eines Chefs, der wie viele Mudschahidin-Kommandeure nie eine Hochschule gesehen hat – das ist eine gängige Kombination in Afghanistan. Ishaqzai schimpft erst einmal auf den mangelnden Realitätssinn der internationalen Gemeinschaft. Dass es keine Demokratie geben könne in einem Land, in dem der Westen "eine Minderheit zu einer Mehrheit gemacht" habe. Womit er vor allem Iraner, Türken, Inder und wohl auch die Deutschen meint, die gern die ehemalige Nordallianz unterstützen.

Ja, sagt er dann, Sherzai habe tatsächlich kandidieren wollen.

–   Natürlich hat der gewusst, dass dies Karzai nicht gefallen konnte, ein großer Teil der Paschtunen hätte dann nicht für den Präsidenten, sondern für ihn gestimmt.

–   Ob seine Bewerbung nur ein Erpressungsmanöver war oder die Amerikaner ihn ermutigt hatten? Niemand weiß das in Jalalabad. Ishaqzai sagt, dass er mit seinem Wahlprogramm nach Kabul gefahren sei und Karzai ihm dort versichert habe, er wolle genau das tun, was auch Sherzai plane, womit dessen Kandidatur dann ja überflüssig sei. Sherzais Verzicht sei "ein positiver Schritt zur Stärkung der Einheit aller Afghanen", ließ Karzai später verbreiten.

Der Haken an der Geschichte ist: Kaum einer der 41 Präsidentschaftskandidaten hat überhaupt ein Wahlprogramm.

–   Solch ein Verzicht sei "nie umsonst, schon gar nicht in Afghanistan", sagt Mohammed Akbar Oria: "Karzai hat Sherzai zum Dank Baburs Garten geschenkt, den berühmtesten Park Kabuls, in dem der Gründer des Mogul-Reiches Babur begraben ist." Er wisse das sehr wohl, er habe seine Leute in den Ministerien von Kabul.

–   Oria ist ebenfalls Präsidentschaftskandidat. Er stammt aus einer paschtunischen Familie hoher Generäle, in mütterlicher Linie war einer der Vorväter mal König von Afghanistan.

–   Oria ist 55, er hat Jura studiert und später im Außenministerium gedient, er war Diplomat, unter Nadschibullah, dem kommunistischen Präsidenten, den die Taliban 1996 an einer Kabuler Kreuzung aufknüpften. Er ist ein Mann des alten Regimes, einer, der heute keinen Job mehr hat wie viele, die den Kommunisten dienten.

Es ist Freitag, Tage zuvor ist seine Mutter gestorben, und Oria gibt nun in seinem Haus unterhalb des alten Forts von Kolola Pushta, von wo aus Putschisten 1929 König Amanullah stürzten, den traditionellen Empfang. Er hat ein großes Zelt aufbauen lassen.

Es ist eine bunte Gesellschaft, die da auf dem Boden sitzt und dem Reis mit Spinat zuspricht, mit dem Kampf der Mudschahidin hatte sie nie etwas zu tun: Die Männer mit den Jacketts kommen aus Kabul, die mit den Westen aus Nangarhar, die Alten mit dem Turban sind aus dem Süden angereist, auch ein General ist dabei. Man tauscht sich aus darüber, dass ein Karzai-Berater in der Provinz Takhar drei seiner vier Frauen umgebracht hat; darüber, wie ungeniert der Präsident jede Entscheidung des Parlaments ignoriert und dass er gerade vier zu 18 Jahren Haft verurteilte Drogenschmuggler einfach wieder freigelassen hat.

–   "Er führt sich wie ein König auf", sagt einer in der Runde; "er kann nicht mehr lassen von seinem Amt", ein anderer. Es gebe keine Opposition mehr, alle da oben seien korrupt, genau das verbinde sie: eine Koalition aus Geschäftsleuten, mehr nicht. Deswegen sei es für Karzai so leicht, zur Wahl alle Konkurrenten aus dem Weg zu räumen.

–   Karzais Vize Fahim, sagt Oria, sei "genauso ein Verbrecher wie Dostum". Abdullah wiederum, der Ex-Außenminister, habe zur "Bande von Massud gehört, die 30 Jahre die Smaragd- und Lapislazuli-Minen im Pandschirtal ausgebeutet und damit ihre Waffengänge bezahlt hat".

–   "Wollen Sie hören, womit Abdullah seinen Wahlkampf finanziert? Er bekommt noch immer 400 Millionen Dollar pro Jahr, sie gehen auf ein Konto in London, wo sein Bruder sitzt." Oria lächelt wissend und steckt sich die zehnte Marlboro an.

–   Dass seine Zahlen stimmen, ist natürlich nicht verbürgt, aber dass die Tadschiken noch immer die Lapislazuli-Schächte im Norden kontrollieren, bestätigt sogar das Bergbauministerium in Kabul. Um das Bild rund zu machen, erwähnt Oria noch Ex-Innenminister Ali Ahmed Jalali, dem habe Karzai elf Millionen Dollar gezahlt, damit auch er sich aus dem Präsidentenrennen zurückziehe. "Staatsgelder wohlgemerkt", sagt Oria: Was derzeit im Präsidentenpalast ablaufe, sei "eine Verschwörung gegen das Volk" – mit dem Ziel, "die einfachen Menschen von den Futtertrögen der Elite fernzuhalten".

–   Tawakal Khan ist einer dieser "einfachen" Afghanen. Er ist 50 Jahre alt und bewacht das neue Nationalheiligtum, das mitten im Pandschirtal steht, bei Basarak, 120 Kilometer nördlich von Kabul. Hier hatte sich einst Ahmed Schah Massud verbarrikadiert.

Jetzt ist er tot, zwei Selbstmordattentäter von al-Qaida haben ihn 2001 umgebracht, zwei Tage vor dem Fall der Twin Towers in New York. Er liegt nun hier auf einem Felsvorsprung hoch über dem wilden Pandschir-Fluss, und über dem Sarg wölbt sich ein "Märtyrer-Dom" mit goldener Kuppel, nebenan werden Hotel und Bibliothek gebaut. Afghanistan mag keine Vorstellung von seiner Zukunft haben, aber es hat Massud als Ikone einer glorreichen Vergangenheit.

–   Im Pandschirtal leben nur Tadschiken. Karzais Herrschaft, sagt Khan, habe keine Fortschritte gebracht. Er habe zehn Esser zu Hause, bekomme aber nur 10 000 Afghani für seinen Dienst, 140 Euro, zu Mudschahidin-Zeiten habe er besser verdient.

Die Wahl werde nichts ändern: Sie hätten bereits 2004 für den tadschikischen Kandidaten gestimmt, aber die Wahlzettel wurden manipuliert. "Karzai hat uns schon damals betrogen", sagt Khan, "er wird es auch diesmal wieder tun."

Was bislang üblich war, muss so aber nicht bleiben.

–   Die unkontrollierte Machtfülle, die Karzai inzwischen genießt – gestützt von der internationalen Gemeinschaft und von deren Geld -, lässt diesen Mann immer mehr aus dem Ruder laufen. Man wird nach der Wahl ernsthaft darüber nachdenken müssen, einen politischen Konstruktionsfehler zu beseitigen: Man muss endlich die Allmacht des Präsidenten beschneiden.

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