Somalia: l’Italia propone la soluzione “irachena” – Il piano per un’amministrazione internazionale

Corno d’Africa, Somalia, Italia, Kenya, potenze
Nigrizia          120217
Ismail Ali Farah

Somalia: l’Italia propone la soluzione "irachena" – Il piano per un’amministrazione internazionale

Un documento non ufficiale, circolato in ambienti diplomatici internazionali, mostra la visione della Farnesina su Mogadiscio: un’amministrazione internazionale su modello iracheno.

fonte International Crisis Group

 

Didascalia a lato: Le informazioni di questa cartina sono basate su informazioni ricevute da varie fonti. Data la situzione dinamica in Somalia, la cartina deve essere considerata come “lavori in corso”.

Le aree di influenza descritte nella cartina non vanno confuse con le aree di controllo, le aree di influenza non hanno per definizione dei confini chairi, pertanto questa cartina non rappresenta alcuna convalidazione di confini di nessuna amministrazione politica o di aree di clan.

 

–   Sostituire le istituzioni federali con un’amministrazione internazionale di Onu e Unione africana: questa è la proposta informale che la Farnesina, con la consulenza di esperti vicini alle organizzazioni non governative, ha fatto circolare, lo scorso gennaio, tra i rappresentanti diplomatici del Call Group per la Somalia – gruppo ristretto dell’International Contact Group per la Somalia.

–   Il documento, destinato esclusivamente agli "addetti ai lavori", è tuttavia trapelato attraverso gli organi di stampa, suscitando la reazione indignata di parte della comunità somala all’estero e in patria. Il quotidiano kenyano Daily Nation targa la proposta come «assurda» mentre, tra gli analisti somali, c’è chi parla di «bizzarra agenda neocoloniale che pone la Somalia sotto amministrazione fiduciaria».

–   Un modello che ricorda l’autorità guidata da Paul Bremer, imposta sull’Iraq, subito dopo la caduta di Saddam Hussein. Un’amministrazione che, rispetto all’attuale sistema adottato in Somalia, non ha certo mostrato una maggiore trasparenza nella gestione dei fondi e su cui pendono diverse ombre, tanto che, poco prima di lasciare l’Iraq, Bremer si è assicurato di inserire nella legislazione irachena una norma che garantisse l’immunità a tutto il personale, civile e militare, dell’Amministrazione, includendo i contractors.

–   Secondo la proposta dell’Italia – che sulla Somalia, è bene ricordarlo, ha esercitato un dominio coloniale, prima, un’amministrazione fiduciaria, poi –

o    il Governo federale di transizione (Tfg) andrebbe sostituito dal prossimo 21 agosto con un rappresentante speciale, scelto preferibilmente tra ex capi di stato africani, nominato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e affiancato da un "Core group" composto dai rappresentanti di Stati uniti, Unione europea, Turchia, Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo) e Gcc (Consiglio di cooperazione del Golfo).

–   Il mandato di questa amministrazione provvisoria dovrebbe protrarsi fino al 31 dicembre 2013. L’utilizzo dei fondi destinati al paese passerebbe attraverso uno stretto controllo dei donatori, mentre un’assemblea costituente – l’ennesima – composta da 100 delegati, si occuperebbe, così, a tempo pieno, di preparare una nuova Costituzione.

–   Il documento propone, inoltre, di offrire ai gruppi estremisti islamisti, l’opportunità, «rinunciando al terrorismo internazionale», di aderire al processo, offrendo loro la possibilità di vedersi cancellare le sanzioni a proprio carico.

–   La popolazione somala non sarebbe pronta, dunque, a gestire il proprio processo di pace, soprattutto dopo i fallimenti collezionati in passato.

o    Sembrano pensarlo i paesi limitrofi, come il Kenya, che ha dato il via, lo scorso ottobre, ad un’operazione militare tesa al controllo delle regioni del Basso e Medio Juba, e l’Etiopia, posizionata con le proprie truppe a Belet Weyne e nelle regioni prossime al confine.

o    Sembrano pensarlo anche i movimenti islamisti di ispirazione salafita con base nella penisola arabica, che, attraverso l’organizzazione estremista di Al Shabaab, hanno esportato il proprio modello di "governance" in un paese che, prima, non conosceva attentatori suicidi.

o    E ancora gli Stati uniti, con le incursioni di droni sul territorio somalo e,

o    infine, l’Italia con quest’ultimo atto.

–   Intanto la Somalia – non senza colpe – si prepara all’ennesima umiliazione sul piano internaziona,le. Una bozza di risoluzione al vaglio del Consiglio di sicurezza dell’Onu sta per fornire al Kenya una giustificazione internazionale alla sua presenza nel paese, ponendo le sue truppe sotto l’ombrello della locale missione di pace dell’Unione africana (Amisom). Il testo potrebbe essere presentato oggi, per essere sottoposto al voto il 22 febbraio prossimo, in vista della Conferenza di Londra sulla Somalia, prevista il 23 febbraio.

–   I soldati al servizio dell’Amisom passerebbero così da 12.000 a 17.700, consentendo anche la partecipazione di Djibouti e Sierra Leone. La risoluzione consentirebbe a Nairobi di "scaricare" parte dei costi dell’invasione sul budget dell’Onu, che salirebbe a 500 milioni di dollari l’anno in spese di equipaggiamento, mentre parte dei salari dei soldati peserebbe, sempre secondo tali ipotesi, su fondi messi a disposizione dall’Unione europea.

Queste, dunque, sarebbero le basi su cui potrebbe aprirsi, la settimana prossima, la Conferenza di Londra. I rappresentanti di organizzazioni internazionali e 40 paesi si riuniranno per decidere il futuro della Somalia, visto l’evidente fallimento del Tfg, in scadenza il 20 agosto.

La redazione di Nigrizia – 17/2/2012

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ICG (International Crisis Group)             120215
L’intervento militare kenyano in Somalia

– L’intervento militare del Kenya deciso in tutta fretta nell’ottobre 2011 di inviare migliaia di soldati nella valle dello Juba in Somalia contro le milizie al-Shaab non è stato preparato adeguatamente né politicamente, diplomaticamente e militarmente;

– il governo kenyano vi ha investito troppo per ripensarci; diminuiranno le pressioni finanziarie e logistiche quando le forze kenyane entreranno a far parte della missione dell’Unione Africana (AU) in Somalia (Amison)

– esso rischia:

o   di scatenare una campagna di terrore di al-Shaab;

o   potrebbe dar riaprire vecchie ferite, fomentare le liti tra i clan, radicalizzare i somali che vivono in Kenya.

– Se si prolungasse, l’intervento rischia di suscitare l’opposizione dell’opinione somala fino ad una resistenza armata che potrebbe essere cooptata da al-Shaab. Le forze somale sono già in difficoltà su un terreno a cui non sono abituate, gli alleati somali non hanno aiutato, e al-Shaab usa la guerriglia, invece che affrontare direttamente i carri armati kenyani.

– Esso va a confermare i timori somali che il Kenya sta cercando di controllare un territorio un tempo parte del Kenya coloniale; al-Shaab lancia appelli pan-somali, cercando di sfruttare le rivendicazioni dei somali kenyani contro Nairobi.

– La Provincia del Nord Est è divenuta il ventre molle della guerra contro al-Shaab, che sta destabilizzando la provincia.

ICG (International Crisis Group)        120215

The Kenyan Military Intervention in Somalia

Africa Report N°184 15 Feb 2012
EXECUTIVE SUMMARY AND RECOMMENDATIONS

–   The decision in October 2011 to deploy thousands of troops in Somalia’s Juba Valley to wage war on Al-Shabaab is the biggest security gamble Kenya has taken since independence, a radical departure for a country that has never sent its soldiers abroad to fight.

–   Operation Linda Nchi (Protect the Country) was given the go-ahead with what has shown itself to be inadequate political, diplomatic and military preparation; the potential for getting bogged down is high; the risks of an Al-Shabaab retaliatory terror campaign are real; and the prospects for a viable, extremist-free and stable polity emerging in the Juba Valley are slim.

–   The government is unlikely to heed any calls for a troop pullout: it has invested too much, and pride is at stake. Financial and logistical pressures will ease once its force becomes part of the African Union[e] (AU) mission in Somalia (AMISOM).

–   But it should avoid prolonged “occupation” of southern Somalia, lest it turn local Somali opinion against the intervention and galvanise an armed resistance that could be co-opted by Al-Shabaab, much as happened to Ethiopia during its 2006-2009 intervention.

The intervention was hastily approved, after a string of cross-border kidnappings, by a small group without sufficient consideration of the consequences, at home as well as in Somalia. Military leaders were apparently convinced it would be a quick campaign, but the Kenyan Defence Forces (KDF) promptly ran into difficulties on the unfamiliar terrain. Somali allies failed to deliver and began squabbling, while Al-Shabaab, rather than confront Kenyan tanks and armoured personnel carriers head-on, predictably reverted to guerrilla warfare – something the KDF was poorly trained and equipped to fight. Irrespective of whether its troops are “rehatted” into AMISOM, there is a real prospect Kenya will find itself with undependable allies, enmeshed in a protracted counter-insurgency campaign against a resilient and experienced enemy.

–   The involvement in Somalia was partly motivated by a desire to inoculate North Eastern Province from the chaos across its border, ease a huge refugee burden and curtail the radical influence of Al-Shabaab, but the unintended consequences may prove destabilising.

–   The venture could reopen old wounds, foment new inter-clan discord, radicalise Kenyan Somalis and undermine recent social, economic and political advances. The North Eastern Province is now the soft underbelly in the war against Al-Shabaab. New evidence suggests the radical Islamist movement is intent on destabilising the province, and part of its strategy is to outflank the KDF and wage a low-intensity guerrilla campaign there and in other areas behind Kenyan lines. A string of deadly grenade attacks in Garissa and elsewhere, initially dismissed as the work of local malcontents, now is seen to have a pattern. Most of the venues targeted have been bars frequented by government and security officials and poorly-defended government outposts.

–   Furthermore, the intervention taps into deep-seated Kenyan fears of Somali encroachment and corresponding Somali qualms that Kenya seeks to assert control over territory that was once part of colonial Kenya. Al-Shabaab is trying to exploit Kenyan-Somali grievances against Nairobi and making pan-Somali appeals, although without much apparent success to date. For Kenya’s venture to have a positive outcome, its leadership will need to define its goals and exit strategy more clearly, as well as work effectively with international partners to facilitate reconciliation and the development of effective local government mechanisms in the areas of Somalia where its forces are active, as part of a larger commitment to ending Somalia’s conflicts and restoring stability to the region.

While this briefing is an independent treatment of the Kenyan intervention in Somalia, some elements, in particular issues related to Al-Shabaab, Kenyan Somalis, and North Eastern Province, have also been discussed in earlier Crisis Group reporting, most recently the briefing Kenyan Somali Islamist Radicalisation (25 January 2012). Crisis Group will publish shortly a briefing on the wider issues involved in restoring peace to Somalia.

RECOMMENDATIONS
To the Kenyan Government:

1. Provide clearly articulated, measurable goals and an exit strategy for its intervention in Somalia and ensure that any major offensives, either individually or as part of AMISOM, are accompanied by a political strategy to win the support of local clans and social groups and stabilise those areas in which they are present;

2. Resist the temptation to seek spectacular gains; target Kismayo port both to deny Al-Shabaab critical funds with which to pay and resupply its forces and to force the clans of Kismayo to reassess their interests; but do so only with deliberation, avoiding costly urban conflict whose civilian casualties would damage the goals of countering terrorism and radicalisation and after allowing time for measures such as an economic blockade (with exceptions for humanitarian aid) and attrition from combat on multiple fronts to work;

3. Develop a mechanism with AMISOM to coordinate the activities of allied local administration security forces;

4. Initiate – with international partners, including the UN, U.S., UK and others – local peace and reconciliation conferences immediately; allow them to feed into larger conferences only after most local disputes have been resolved;

5. Develop a plan with regional and other international partners, as well as genuine representatives of local clans and social groups, for administering Kismayo; and consider requiring an international partnership with the local government for transparent management and oversight of the port and airport, much as was done in Liberia; and

6. Convene an international working group to prepare the political, technical and administrative modalities of a mechanism to assume responsibility for revenue collection at Kismayo port and airport for a five- to ten-year period, including an oversight board with mixed international and Somali composition but controlled by the former and supported by experts (forensic accountants) and international customs officers, much as was done in Liberia; and ensure that the revenue is used to develop all of Lower and Middle Juba, as well as Gedo equitably.

Nairobi/Brussels, 15 February 2012
International Crisis Group © 2011
 

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