Tornano affari e forse truppe, Eni a caccia di greggio in Iraq – Giuliana Sgrena

Paolo Scaroni apre la corsa italiana al petrolio iracheno, ma il governo non riesce a far passare la legge sulla privatizzazione. Scontro tra Kurdistan e Baghdad sulla vendita dell’oro nero

«Non si può rimanere fuori dall’Iraq», sostiene Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni. Naturalmente, aggiunge, «compatibilmente con la sicurezza delle nostre persone …». E vista la situazione della sicurezza in Iraq forse i tecnici dell’Eni saranno preceduti dalle nostre truppe, che l’ex ministro della difesa Martino, in campagna elettorale, aveva suggerito di rimandare anche se Berlusconi l’aveva definita un’«opinione personale». Ma per Scaroni la situazione sta migliorando. Chi gliel’ha detto? Forse il capo dell’esercito iracheno che nei giorni scorsi ha «ripulito» Nassiriya, uccidendo quaranta miliziani.
I giacimenti di Nassiriya erano infatti già stati promessi all’Eni da Saddam anche se l’accordo non era stato ufficialmente sancito, ma evidentemente l’Ente nazionale idrocarburi contava sulla parola data visto che l’Italia aveva dislocato il proprio esercito nella città irachena del sud. Ma ora Scaroni fa riferimento soprattutto al nord, ed è infatti nel nord kurdo, peraltro solo sfiorato dalla violenza che sono iniziati gli sfruttamenti di giacimenti, senza l’approvazione del governo di Baghdad. Proprio la scoperta di nuovi campi petroliferi – vicino a Dohuk e Suleimaniya – ha permesso la fuga in avanti del Kurdistan, mentre il governo iracheno non riesce a formulare una legge sulla privatizzazione del petrolio accettabile in parlamento. Una prima bozza varata nel febbraio 2007, osteggiata dai sindacati del settore oltre che da alcuni partiti, è stata più volte rimaneggiata ma finora senza successo. E sebbene il premier Nouri al Maliki, nei giorni scorsi a Bruxelles, abbia parlato di imminente approvazione della legge, nessun segnale sembra confortare il suo ottimismo. Nemmeno le pressioni Usa hanno avuto successo. E senza legge non è possibile dare il via agli appalti, perché dovrebbero rispettare la legge vigente, che non prevede privatizzazioni. E non è stata nemmeno formalizzata la formazione della Compagnia petrolifera nazionale irachena.
Del resto senza la garanzia della privatizzazione nessuna società si impegnerebbe in investimenti per ammodernare gli impianti di estrazione resi obsoleti dalla guerra e dall’embargo. Che prima o poi la privatizzazione ci sarà non dubitano le 120 compagnie che si sono già iscritte presso il ministero del petrolio iracheno. Ma sono soprattutto le compagnie americane a premere per lo sfruttamento dell’oro nero, del resto sono proprio queste a fare la parte del leone: sette si sono piazzate nella lista delle prime 36 scelte dal ministero del petrolio iracheno per spartirsi il bottino di guerra. Due le italiane selezionate, oltre all’Eni anche l’Edison. E l’Eni, con Scaroni, mette le mani avanti. La concorrenza è agguerrita: la russa Lukoil, quattro cinesi, la spagnola Repsol, la francese Total, etc. In ballo un grosso bottino: 115 miliardi di barili in riserve accertate (le terze al mondo), che potrebbero salire fino a 400 secondo altre stime. E soprattutto un petrolio eccellente, che viene estratto al costo di 1,5 dollari o anche meno al barile, e con il prezzo corrente di 118 dollari (circa, ieri) si può facilmente intuire gli introiti.
Intanto continua il braccio di ferro tra il ministero del petrolio e il governo kurdo, che ha già firmato 15 contratti di estrazione e di esportazione di petrolio con 20 compagnie straniere, piccole e grandi. Gli accordi saranno rispettati, «nessuno può cancellare i contratti firmati dal Kurdistan», ha affermato il primo ministro kurdo Nechirvan Barzan, anche se per il ministro del petrolio iracheno, Hussein al Shahristani, questi contratti sono «illegali». La prima compagnia straniera a estrarre petrolio in Kurdistan, dal 2006, è stata la norvegese Det Norske Oljeselskap (Dno), che incasserà dal 10 al 30 per cento degli introiti del pozzo di Tawke, vicino a Dohuk, le cui riserve vengono calcolate in circa 100 milioni di barili. E’ invece la svizzero-canadese Addax Petroleum in joint venture con la turca Genel Enerji a sfruttare i pozzi di Taq Taq, a sud di Suleimaniya. Le riserve di Taq Taq sono calcolate in 1,2 milioni di barili. Insieme alle altre compagnie impegnate nella zona si calcola che entro la fine dell’anno il Kurdistan possa arrivare a produrre circa 200mila barili al giorno, oltre 1 milione entro 5 anni. L’attuale produzione irachena è di 2,3 milioni di barili al giorno. Le riserve del Kurdistan sono calcolate dal ministro dell’energia Ashti Hawrami in 25 miliardi di barili, da aggiungere ad altri 20 delle zone contestate del nord (compresa la provincia di Ninive) e i 10 miliardi accertati a Kirkuk. Lo status di Kirkuk resta da definire ma la scoperta dei nuovi giacimenti permette al Kurdistan di rafforzare i propri poteri contrattuali nei confronti del governo di Baghdad e di non far dipendere le proprie velleità secessioniste dalla città contestata.
Vista l’insicurezza di Nassiriya l’Eni punterà sul Kurdistan?

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