Editoriale 40. La grève e la Brexit

Non c’è purtroppo un rapporto diretto tra le lotte proletarie e studentesche di Francia e il distacco della Gran Bretagna dall’U.E. dovuto al prevalere del “leave” nel referendum.

Nel senso che la prima vicenda (lotta di piazza e scioperi contro il Jobs Act francese in corso da oltre tre mesi) è la rimessa i discussione “sul campo”, orgogliosa e tenace, da parte dei diretti interessati, delle politiche antioperaie attuate da tutti i governi borghesi del continente, mentre la seconda vede il prevalere, anche se di misura, di una linea imperial-nazionale che ai proletari non promette nulla di meglio della linea imperial-europeista, seppur raccolga elettoralmente e perversamente (scaricandolo contro l’immigrazione, cioè contro altri proletari) il disagio ed il giusto rancore annidato negli strati più profondi dei lavoratori e dei precari a bassa qualifica, dei pensionati e dei disoccupati inglesi.

Altra cosa, ben altra cosa, sarebbe stato il mettere in crisi il meccanismo imperialista U.E. a seguito di un movimento di massa che, dalla Francia, si fosse poi irradiato nel Regno Unito spostando il terreno del confronto continentale da “come uscire dalla crisi dentro l’Europa capitalistica”, a “come alzare la testa e lottare per uscire dal capitalismo”, cominciando col riprendersi come proletari almeno parte di ciò che padroni e governi ci hanno tolto in questi decenni.

Quando si dà battaglia, soprattutto contro un nemico come lo Stato francese che si è consolidato in più di due secoli di dominio borghese, non si può avere la certezza della vittoria. L’unica certezza è che chi non dà battaglia – vedi i sindacati italiani, quelli istituzionali ma anche quelli che si definiscono di base – ha già perso. Qualunque sia l’esito legislativo della “Loi Travail” la lotta dei lavoratori francesi, tenace e determinata, mostra la strada a tutti i lavoratori europei, e a quelli italiani in particolare. Immaginiamo come sarebbe se la grève francese avesse contagiato tutta l’Europa (ricordate il maggio 1968?) … Sarebbe l’inizio potenziale di un’altra Europa, con i proletari protagonisti anziché oggetto passivo dell’offensiva del capitale.

Non mitizziamo le lotte in Francia. Sappiamo che sono ancora limitate a una minoranza della classe – i settori più sindacalizzati dei trasporti e dell’energia e poche grandi imprese dell’industria e servizi, anche se in piazza ci sono andati anche molti lavoratori e giovani. Sappiamo che la coalizione di sindacati che ha preso in mano la direzione del movimento dopo il suo avvio in gran parte spontaneo – oltre che debole perché tutti insieme i sindacati francesi non organizzano che un decimo dei salariati – è lungi dal voler andare fino in fondo, e diversi sindacati, compresa la CGT, sono pronti ad abbandonare la lotta a fronte di concessioni di facciata o pro domo loro. Ma nessuno può cancellare il fatto che centinaia di migliaia di lavoratori e soprattutto di giovani sono passati da una rassegnata apatia ad alzare la testa e la voce negli scioperi e nelle piazze, dal cruccio individuale all’azione collettiva per divenire protagonisti e cambiare la società. No ai licenziamenti facili, no all’aumento della precarizzazione, no all’aumento e flessibilizzazione ulteriore dell’orario di lavoro!

Certo manca il “partito rivoluzionario” in grado di far maturare questo fermento in coscienza, organizzazione e azione comunista, evitare che l’inevitabile riflusso faccia ricadere chi si è mosso nella delusione e in una nuova rassegnata passività; ma il partito non cade dal cielo.

 Il nostro rammarico è che in Italia, complice il fragoroso silenzio dei media, le lotte francesi non hanno avuto un decimo della risonanza di massa degli europei di calcio. Che, mentre le borghesie lanciano un’offensiva coordinata contro i proletari, questi non sono in grado di rispondere in modo coordinato almeno su scala europea, e in gran parte, a partire da casa nostra, non rispondono affatto.

Sappiamo che CGIL e UIL – più la CISL che il Jobs Acts l’ha appoggiato apertamente – anziché rammaricarsi di non aver seguito la “via francese” e approfittare dell’esempio francese per rimontare il ritardo, hanno di certo tirato un sospiro di sollievo per essersela cavata, senza contestazioni di massa, con uno scioperetto generale salva-faccia nel lontano dicembre 2014. Mentre i sindacati di base hanno dato ancora una volta un segno della loro debolezza intrinseca accentuata dalla loro colpevole frammentazione, al di là di un encomiabile tentativo di manifestazione unitaria e di un’azione di lotta tra i ferrovieri organizzati in sindacati di base e all’interporto di Bologna organizzata dal SI Cobas. Sarebbe l’ennesima prova della sterilità di questo rissoso coacervo di parrocchie sindacali e la necessità che finalmente si muovano per superare se stessi in direzione di un sindacato di classe. Al di là dei motivi storici e oggettivi che possono “spiegare” la passività dei proletari italiani a fronte di quelli francesi – tra cui la più diffusa presenza della piccola borghesia e una più pesante disoccupazione giovanile, insieme a decenni di assenza di lotte generalizzate, per cui la lotta è sconosciuta a gran parte delle giovani generazioni – l’assenza di un sindacato (oltre che di un partito) di classe è il fattore su cui i rivoluzionari pur con tutti i loro limiti possono intervenire.

Purtroppo, questa notevole lotta operaia francese, che rompe meritoriamente anni ed anni di assuefazione alle politiche di austerità imposte al proletariato europeo, rischia di essere sommersa dalla campagna aperta dopo il referendum sul “Brexit” tenutosi in Gran Bretagna il 23 giugno. E da ciò che ne conseguirà.

La vittoria sul filo di lana (poco più di un milione di voti di scarto) dei sostenitori del “leave”, pone tutta una serie di problemi agli imperialismi europei, impegnati da un quarto di secolo nella costruzione di un blocco economico continentale (l’U.E.) che desse maggior competitività e proiezione internazionale a ciascuno di essi, aggiungendo al mercato unico l’utilizzo di una moneta unica (l’euro), la definizione di “ferree” regole di bilancio e di controllo del debito. Il salto verso l’unione politica e militare, da alcuni auspicato e da altri rigettato è comunque rimasto nel cassetto dei sogni.

Ma proprio perché questo processo non riusciva ad assumere le sembianze di uno “Stato sovranazionale”, si è praticamente fermato a metà, sempre più impigliato nelle reti degli interessi “particolari” di ciascuna borghesia, in una conflittualità interna mai sopita. Mentre negli Stati Uniti la FED decide la politica monetaria dall’Alaska alla Florida, con il Tesoro federale che compensa eventuali scompensi da questa determinata su alcune regioni, in Europa la politica di Draghi è sotto attacco da parte tedesca perché avvantaggerebbe i paesi meno “virtuosi” del Sud Europa, e non esiste un Tesoro UE che possa fungere da cassa di compensazione. L’Italia approfitta dei tassi vicini allo zero favoriti dal Quantitative Easing di Draghi per azzerare il costo del suo abnorme debito pubblico – fino a che il tavolo sotto il castello di carte dell’euro non riprenderà a traballare.

Il risultato è una crisi manifesta dell’intero impianto U.E. a fronte di salassi sociali condotti dai governi borghesi verso le masse proletarie d’Europa e della ormai conclamata “ingovernabilità” del fenomeno migratorio (che si vuole sfruttare ma che non si riesce minimamente a controllare).

Nulla di strano dunque che, da qualche anno a questa parte, settori particolari delle classi dominanti dei singoli imperialismi e delle singole borghesie dell’U.E. facciano leva su disoccupazione, degrado sociale e immigrazione per ridefinire le “regole” U.E. a suo tempo stabilite, contestare gli “euroburocrati” di Bruxelles e ormai sempre più spesso spingere per “l’Exit” da questo baraccone “staccato dai popoli” (come se i governi nazionali rappresentassero realmente i “popoli” e non gli interessi degli sfruttatori).

A ciò si aggiunge il fatto che l’idea alla base della creazione della Comunità Europea nel 1956, la creazione di un mercato comune con l’abbattimento delle barriere doganali – un vantaggio enorme in un mondo con tariffe doganali medie che si aggiravano sul 40% – costituisce oggi un incentivo molto minore, nel mondo del WTO con tariffe medie intorno al 4-5%. Per i liberisti che puntano al mercato mondiale come mercato libero, l’abbandono di quello “comune” non è un dramma ma una liberazione dal protezionismo europeo verso il resto del mondo – fino a quando non riprenderà a soffiare il vento protezionista, che già preparò il secondo conflitto mondiale. Quanto alle politiche migratorie, ogni borghesia (tranne quelle che ricevono l’urto dei flussi, come l’Italia e la Grecia) vorrebbe essere libera di scegliersi i suoi nuovi schiavi salariati e aprire e chiudere le porte a chi e quanti preferisce. E quanto all’Euro, che la Gran Bretagna si è ben guardata dall’adottare, la sua area è quella a più bassa crescita del mondo intero.  L’Euro non pare proprio la medicina contro la depressione…

Dire che la tanto santificata “unione politica” tra gli imperialismi europei dopo quindici anni di Euro ancora zoppica è un eufemismo. Non solo inglesi, tedeschi e francesi continuano a farsi i loro interessi verso il resto del mondo, ma anche l’imperialismo italiano della retorica europeista fa i propri comodi (innanzitutto delle sue poche grandi imprese) in giro per il mondo, spesso rivaleggiando coi suoi “partner” europei, ed è tra i primi al mondo per numero di militari all’estero.

Quelli sopra citati sono i calcoli dei grandi borghesi euroscettici, che stanno aumentando di numero a seguito della stagnazione europea, e trovano eco non solo nei partiti populisti e xenofobi che essi finanziano (da UKIP al Front National all’Alternative für Deutchland in Germania, Lega e M5S in Italia, per non parlare di raggruppamenti dell’estrema destra), ma trovano eco anche in raggruppamenti di “sinistra”, in Italia soprattutto i residuati dello stalinismo che, arruolati nel partito anti-tedesco, perseguono il progetto “campista”1 di un’Europa mediterranea (a guida ovviamente italiana) contrapposta alla Mittel Europa a direzione tedesca. Di fatto aspirano a divenire l’Alternative für Italien di settori della borghesia italiana, già accarezzati da Berlusconi con le sue polemiche anti-euro, e ora rappresentati con molte più chances da Salvini e Grillo.

Noi non abbiamo tifato né Brexit né Remain, disgustati da uno spettacolo in cui si rispondeva al disagio sociale dei proletari britannici non invitando ad imboccare la strada maestra della lotta di classe, ma a farsi portaborse dell’una o dell’altra frazione borghese, nel nome dell’interesse nazionale ed imperiale, o dando addosso ai fratelli immigrati o sperando nell’ombrello protettivo di Bruxelles.

Allo stesso modo non cadiamo nella trappola di chi anche in Italia, da destra come da sinistra, cerca di deviare i proletari dalla necessità di lottare contro il padronato italiano e il suo governo verso una “lotta” nazionale contro la Germania e per l’uscita dalla UE. Come se i padroni italiani e Berlusconi, Monti, Letta e Renzi avessero avuto bisogno dei suggerimenti tedeschi per sferrare gli attacchi contro i lavoratori!

Queste campagne per l’Exit ci disgustano tanto più in quanto alimentano sentimenti nazionalisti tra i lavoratori, mentre occorre puntare sulla solidarietà internazionalista tra i lavoratori europei e del mondo contro i rispettivi Stati e governi. E in quanto siamo per il superamento rivoluzionario.

Quanto tali tendenze, che hanno avuto un certo riscontro elettorale in Italia, Francia, Regno Unito, Austria ed in diversi paesi dell’Est Europa, abbiano la forza di spaccare definitivamente l’involucro U.E. non è possibile ad ora stabilirlo.

Possiamo solo constatare che la maggioranza dei grandi gruppi borghesi d’Europa non sono al momento interessati a por fine all’esperienza di unione continentale. Seppure proprio l’esito del referendum inglese potrebbe spingere in avanti sia forze centrifughe che forze centripete, aprendo una crisi politica continentale di vaste proporzioni.

Del resto, anche le elezioni in Spagna, pur non creando una sponda mediterranea al ribaltone inglese (l’eurofilo PPE rimane il primo partito seppur senza maggioranza assoluta, seguito dall’eurofilo PSOE, con Podemos distaccata), non fanno che rimarcare la difficoltà borghesi (Germania a parte) nel darsi governi “stabili”.

Non per niente una delle maggiori preoccupazioni dei “mercati” dopo l’esito del referendum inglese risiede nell’individuare una classe dirigente britannica in grado di supportare con coerenza le conseguenze dello stesso “leave”: Cameron bruciato e dimissionario; il suo collega conservatore Boris Johnson (uno degli artefici del Brexit) già in frenata; e senza che dal Labour (spaccato a sua volta, e col segretario Corbyn sfiduciato dai parlamentari mentre consolida la propria base tra gli iscritti ) giungano notizie rassicuranti per la borghesia britannica…

Da parte nostra, proprio nel referendum inglese troviamo conferma di un’analisi che ha caratterizzato il gruppo di compagni raccolti attorno a questa rivista. In sintesi: il fatto che quella all’“imperialismo europeo” non è una tendenza inarrestabile e irreversibile; il carattere opportunista dell’ideologia che assolutizza la tendenza al consolidamento di uno Stato sovranazionale europeo per minimizzare la persistenza dello Stato nazionale dell’imperialismo italiano; il fatto che quest’ultimo rimane il “nemico in casa nostra” contro il quale dobbiamo innanzitutto opporci, denunciandone le malefatte. Questo è un discrimine politico fondamentale, non meno attuale oggi che ai tempi di Karl Liebknecht e Vladimir Lenin.

Sia che il processo di “exit” della Gran Bretagna assuma una accelerazione e porti scompiglio a breve negli assetti europei ed extra, sia che si ripieghi su una compromissoria “trattativa” che avrebbe il solo effetto di prolungare la crisi politica nel cuore del continente, il compito dei comunisti rimane quello di attrezzarsi per collegare tra loro lotte reali e le avanguardie combattive, i militanti rivoluzionari e non gli opportunisti schedaioli sempre pronti a svendere i lavoratori per il classico piatto di lenticchie.

Come in Francia, oltre la Francia.