Editoriale 44. Uno sciopero da generalizzare. Sciopero generale per ripartire.

La politica italiana si muove tra il teatrino della legge elettorale e una politica estera ultra-attivista di continuità imperialista, rivolta soprattutto verso il tradizionale “giardino di casa” libico, e spacciata come politica per risolvere il problema dell’immigrazione; il tentativo di un settore della Lega di rilanciarsi con il referendum per l’autonomismo lombardo-veneto facendo leva tra i lavoratori sull’illusione che i loro problemi di precarietà del lavoro, perdita salariale e aumento dello sfruttamento possano essere risolti con il particolarismo regionale, allentando i rapporti tra Nord e Centro-Sud e non con la lotta contro gli sfruttatori del Nord, come se le amministrazioni di Lombardia e Veneto non avessero altrettanti sprechi, corruzione, rapporti mafiosi di Roma e delle altre regioni. Alla linea della divisione regionale e localistica contrapponiamo la linea dell’autonomia e della lotta di classe dei proletari.

In questa direzione, anche se con grossi limiti, va lo sciopero generale nazionale indetto per il 27 ottobre da CUB, SI Cobas, SGB, USI AIT, SLAI COBAS. Spicca l’assenza dell’USB, che come d’abitudine, mentre affermava di volere una data unitaria ha lavorato per il proprio sciopero separato per il 10 novembre, seguita da Confederazione Cobas (AdL Cobas equanimemente divide i propri lavoratori, privati e pubblici, tra i due scioperi). Per i vertici USB lo sciopero serve infatti a tirare la volata alla manifestazione di Eurostop indetta per il giorno dopo, su posizioni che alla lotta di classe e all’internazionalismo proletario sostituiscono il nazionalismo “sovranista” e uno schieramento mediterraneo di Stati a guida italiana.

Si è così persa un’altra occasione per almeno unire le forze già esigue di quelli che erano un tempo i “sindacati di base”. A questa frammentazione sindacale possiamo contrapporre l’esempio del sindacato brasiliano di opposizione Conlutas, minoritario ma forte di oltre 2 milioni di aderenti sindacali più circa un milione nelle organizzazioni “popolari” della lotta per la casa, delle donne, dei giovani, ecc. nel quale sono presenti numerose correnti politiche, che pur confrontandosi apertamente con le loro diverse posizioni per l’egemonia tra i lavoratori, uniscono le forze in un unico sindacato di classe per la conquista della direzione dell’intero movimento operaio, ancora egemonizzato dai partiti borghesi, a partire dal PT di Lula (con la CUT).

Evidenziati questi limiti e chiarito il nostro impegno a lavorare per un sindacato di classe anche in Italia, sosteniamo senza riserve lo sciopero del 27 ottobre, auspicando che venga seguito da masse di lavoratori ben oltre gli iscritti alle organizzazioni promotrici, come è già avvento con lo sciopero dei Trasporti del 16 giugno scorso. Se in diversi settori e località lo sciopero sarà purtroppo di testimonianza da parte di gruppi di lavoratori politicizzati, nel trasporto aereo, ferroviario, urbano e nella logistica lo sciopero può arrivare vicino a paralizzare il Paese e dare anche ai lavoratori di altri settori l’idea che lottare si può e non è inutile. Nella logistica lo sciopero è anche il quarto sciopero indetto da SI Cobas e AdL Cobas per il rinnovo del Contratto Nazionale, scaduto a fine 2015, e giunge al termine della dura vertenza con la SDA (il corriere di proprietà delle Poste), che con una serrata di tre settimane (che sarà fatta pagare ai contribuenti) e l’organizzazione di una spedizione squadrista in piena regola ha vanamente cercato di distruggere il SI Cobas. Solo ora i confederali proclamano tre giornate di sciopero, probabilmente per tirare la volata di un contratto che cederà alla richiesta padronale di rendere variabile parte del salario ora fisso.

La borghesia usa molti mezzi per dividere il proletariato. Quello oggi più in voga è la divisione in autoctoni e immigrati. Fino agli anni ’90 si trattava degli immigrati dal Meridione, con i loro dialetti, contro i quali la Lega chiedeva leggi discriminatorie per privilegiare gli autoctoni nei posti “buoni” della pubblica amministrazione; ora sono gli immigrati dagli altri paesi e continenti, additati come la causa del peggioramento delle condizioni dei lavoratori, e come loro concorrenti e avversari da respingere o comunque discriminare, al posto dei padroni che usano proprio questa divisione per peggiorare le condizioni di tutti. Le lotte nella logistica, dove la maggioranza di lavoratori immigrati hanno conquistato miglioramenti di condizioni per tutti, indicano la strada da seguire. Ma dietro a questa falsa contrapposizione i mass media spingono ad appoggiare la politica dei respingimenti e della gestione degli emigrati in subappalto a libici e nigerini, in una nuova versione dell’”aiutiamoli in casa loro”, che in realtà è funzionale a rimettere gli scarponi in casa loro … E non importa se i respinti sono condannati a un trattamento peggio degli schiavi. In questo numero presentiamo importanti aggiornamenti sulla politica estera dell’imperialismo di casa nostra in Libia e Iraq, nella sua ricerca di “un posto al sole” in competizione con gli altri imperialismi. Una politica che denunciamo e contro la quale si deve alzare l’opposizione dei lavoratori a partire dallo sciopero generale del 27.

L’esplosione della questione dell’”indipendenza catalana” è sintomatica del grado di difficoltà che il processo di unificazione europea sta attraversando.

Visto il peso economico della Catalogna sia in Spagna (19% del PIL), sia nell’ U.E., il referendum per l’indipendenza che ha scatenato la crisi politica tra Madrid e Barcellona ha per forza di cose avuto un impatto decisamente superiore agli altri “separatismi” sparsi per il continente: dagli scozzesi ai valloni, dai baschi ai corsi.

Il problema va ricondotto a delle coordinate di classe, ed impostato partendo da questa base.

La spinta alla separazione della Catalogna dalla Spagna, astraendo per un attimo dalla lunga storia che si è accumulata in tre-quattro secoli, deriva sostanzialmente dal desiderio della borghesia catalana di staccarsi dal “carrozzone” centralistico allo scopo di mantenere i suoi profitti, ed “emanciparsi” dal gravame fiscale verso Madrid.

Il che non significa non si debba però considerare in questa vicenda il peso di lingua, tradizione, identità dei catalani. Così come la lunga lotta condotta da essi per emanciparsi dai soprusi del potere centrale, di cui il franchismo è stato il massimo artefice della storia moderna.

Questo fattore è un dato reale, palpabile, e attecchisce trasversalmente in ampi settori di piccola borghesia e di proletariato.

Sappiamo tutti che Barcellona dopo il 1978 (anno del varo della attuale Costituzione “democratica”) ha gradualmente ottenuto un certo grado, seppur controverso, di autonomia. Fatto è che oggi esso non è più sufficiente per mantenere la Catalogna tra le prime cinque aree di sviluppo del continente europeo.

Da qui sorge la fibrillazione che porta nelle piazze centinaia di migliaia di persone, di varia estrazione sociale…anche se una componente importante di essa è costituita certamente da giovani senza lavoro e da proletari che stanno pagando sulla loro pelle il peso del capitalismo nella forma dei diktat congiunti di Madrid e Bruxelles.

Questo ultimo aspetto, che non dobbiamo né sottovalutare né esaltare acriticamente, non basta però di per sé a dare un impronta politica “proletaria” al movimento.

Movimento diretto da una borghesia che sembra proiettata verso mediazioni poco onorevoli, nonostante i proclami roboanti e gli appelli alla mobilitazione. Non dimenticando mai che essa è comunque divisa al suo interno tra una maggioranza “mediatrice”, una minoranza “intransigente” ed una fetta importante di unionisti dichiarati, vedi Ciudadanos (ma non solo).

Denunciamo senza esitazione l’azione repressiva, la politica di sopraffazione nazionalistica del governo Rajoy, che approfondisce il solco “identitario” che già nei fatti separa il proletariato catalano dal resto del proletariato spagnolo e sosteniamo il diritto dei catalani all’autodeterminazione, ossia a decidere se rimanere nello Stato spagnolo o rendersi indipendenti.

C’è l’opportunità della lotta aperta di masse di popolo, ci sono gli scioperi, le mobilitazioni, l’attivismo in strati di popolazione altrimenti passivi.

C’è l’occasione pratica di poter chiarire ai proletari catalani che, anche per loro, una volta tolto di mezzo il “dominio castigliano”, comunque “il nemico è in casa propria”.

Ma c’è anche il pericolo che nuove ondate nazionaliste sommergano tutto questo, dividendo ulteriormente la classe operaia. Nel proletariato castigliano va combattuto lo sciovinismo che vuole impedire ai catalani il diritto di decidere. Nel proletariato catalano va combattuta l’illusione che l’indipendenza possa garantire il miglioramento delle sue condizioni, accodandosi alla propria borghesia e rinunciando alla lotta di classe indipendente.

Quale che sia il corso degli eventi , auspichiamo che il proletariato della Catalogna possa rapidamente riprendere quel ruolo di “traino” per i suoi fratelli di classe spagnoli come avvenne nella rivoluzione del 1936-’37, affogata nel sangue dal franchismo e dallo stalinismo.

Dalla diffusione del voto “xenofobo” e “populista” in tutti i paesi alla lotta sulle migrazioni (ultimo esempio l’Austria); dallo scontro sui vincoli di Bilancio alla mancata politica estera comune; dalle faide tra gruppi imperialisti ai separatismi: tutto concorre a mettere in evidenza una crisi del processo di unificazione europea che può essere negata solo da chi non la vuole vedere.

In Italia, ed esattamente nelle “ricche” regioni della Lombardia e del Veneto, è stato indetto dalla Lega Nord un altro referendum, apparentemente sulla falsariga di quello catalano; seppure solo consultivo, che non chiedeva l’indipendenza bensì una maggiore “autonomia”, e nel “rispetto della legge”.

La base economica che lo sostiene è anche qui un “contenzioso fiscale” tra “ricche periferie” e potere centrale (secondo la propaganda referendaria si tratterebbe di “tenersi in casa” 20 miliardi di euro per il Veneto e 53 miliardi per la Lombardia).

Ma nell’iniziativa del referendum c’era pure, e diremmo in misura maggiore, una operazione politica che si articola nel seguente modo.

La Lega Nord ha inteso: 1) condurre una adunanza pre-elettorale su un programma di federalismo liberista aperto; 2) conquistare una posizione di leadership nel Centro-Destra, neutralizzando il “ritorno” di Berlusconi; 3) riequilibrare i suoi rapporti interni troppo sbilanciati verso le pulsioni “nazionaliste” di Matteo Salvini, ridando vigore a quelle regionaliste e “amministrative” della coppia Zaia-Maroni.

Tradotto: facendo l’exploit di voti in Veneto ed in Lombardia si pensava di “trascinare” elettoralmente il resto d’Italia nelle politiche della prossima primavera.

L’operazione ha avuto un certo successo in Veneto, con una partecipazione al voto del 57%, rispetto alla quale suona come un flop il 38% della Lombardia (sopra il 40% nelle province prealpine e solo il 31% nella Milano metropolitana), con oltre il 95% di sì tra i voltanti

Dal punto di vista pratico, cioè dal punto di vista del “pagare meno tasse a Roma” cambierà poco, se non altro perché vi sono dei vincoli costituzionali che la Lega si guarda bene dal mettere in discussione. Ma non abbiamo liquidato il referendum con un’alzata di spalle.

Esso, se non altro, è stata una prova di mobilitazione di una formazione politica chiaramente di destra, xenofoba, nazionalista e localista insieme, che punta a dividere ulteriormente gli operai (tra ”nordisti” e “terroni”, “italiani” e immigrati) facendo leva su un sistema identitario tribale associato ad un liberismo fondamentalista e sull’ideologia del Nord “produttivo” contro il Sud “parassitario”, della ”efficienza” contro il “de-grado”, sbandierando ad esempio il mito della “Sanità virtuosa” lombardo-veneta, la quale però a ben guardare presenta fenomeni acuti di corruzione, sprechi, rincari, chiusure di presidi, discriminazione sociale che la stanno facendo diventare sempre più “cosa da ricchi”.

Così come si è tentato di rilanciare la campagna per la “Flat Tax” (aliquota unica al 15%), le Infrastrutture, le “Zone economiche speciali” che alla fine scaricherebbero sui proletari l’onere di tasse sempre più gravose e di costi proibitivi per i servizi sociali.

A queste campagne, su argomenti che sono del resto trasversali agli schieramenti parlamentari, occorre rispondere politicamente. Con la propaganda, l’agitazione, la lotta, l’organizzazione. Impugnando localmente, dove possibile, non solo il lavoro, ma anche i temi della salute, della casa, della scuola, dell’ambiente…di tutto ciò che tocca la vita quotidiana dei proletari.

Al di là delle considerazioni sui ceti politici e imprenditoriali delle varie regioni, sul radicamento dei fenomeni mafiosi anche al Nord, e sul fatto che lo Stato centrale ridistribuisce le risorse sulla base delle clientele politiche e non dei bisogni, come comunisti non possiamo sostenere l’egoismo delle regioni “ricche” (in cui ci sono tanti poveri) opponendoci alla solidarietà tra regioni che hanno un reddito pro capite superiore del 30% alla media nazionale e regioni con reddito pari alla metà delle prime.

Contro il localismo interclassista che finge che proletari e capitalisti siano sulla stessa barca, anche sul terreno fiscale l’attenzione va posta alle crescenti tasse sui consumi (IVA) e sulla busta paga, mentre le grandi imprese godono dei paradisi fiscali e una parte della piccola borghesia evade allegramente.

Dobbiamo sviluppare una “Rete Proletaria” in grado di contrapporre mobilitazione a mobilitazione, iniziativa ad iniziativa: rispondendo colpo su colpo a forze reazionarie che lavorano per impedire la saldatura degli sfruttati, e per scaricare in una “guerra tra poveri” le contraddizioni del capitalismo.