Georgia: i nazionalismi locali pedine dello scontro imperialista

Ancora un conflitto etnico nell’ex-URSS: migliaia di profughi, morti e distruzione.
Un conflitto dove lavoratori e gente comune seguono le proprie borghesie nel nome di ideologie nazionaliste e rivendicazioni territoriali, per assecondare l’appetito delle classi dirigenti locali che vengono usate come pedine dalle grandi potenze per il loro intervento in un’area strategica sia per l’estrazione sia per il trasporto degli idrocarburi: la Georgia è attraversata, a qualche decina di Km dall’Ossezia del Sud, da un oleodotto che permette di trasportare il petrolio dall’Azerbaigian alla Turchia saltando la Russia; viceversa Mosca progetta il gasdotto South Stream che attraverso l’Ossezia del Sud dovrebbe portare il gas del Caspio fino in Europa.

Ossezia del Sud dove la popolazione è in gran parte di etnia russa e Abkhazia hanno una larga autonomia conquistata nella guerra del ‘92-’93; il loro territorio è presidiato da una “missione di pace” russa (riconosciuta dall’ONU) che è garanzia della loro “indipendenza di fatto”. Molti loro cittadini hanno acquisito passaporto russo e Mosca si riserva di proteggere con le armi non solo lo status-quo fra indipendentisti e governo georgiano, ma anche la sicurezza dei propri neo-cittadini (buon pretesto per l’intervento oltre i confini).

Il presidente georgiano Saakashvili è uno stretto alleato degli USA: si è formato alla Columbia University, ha inviato duemila soldati in IRAQ, ha moltiplicato gli accordi con gli USA, ottenendone ingenti forniture militari e chiede da tempo di entrare nella NATO (ingresso frenato finora dai timori di Francia e Germania che non vogliono alzare lo scontro con la Russia). Si vanta di aver fatto del suo paese un “bastione della democrazia e della libertà nel Caucaso”, sorvolando sull’opposizione repressa, la stampa imbavagliata, le sparizioni dei rivali…

Più sincera – ma per ora senza successo – è stata la sua volontà dichiarata di ristabilire la sovranità georgiana su Ossezia del Sud e Abkhazia: da giugno stava schierando forze al confine osseto e le sue unità hanno intrapreso scontri non solo coi separatisti, ma anche col contingente russo. Questo ha dato a Mosca il pretesto per un’offensiva su larga scala anche in territorio georgiano.

La guerra non è solo uno scontro locale, ma soprattutto un nuovo capitolo del confronto russo-americano sull’estensione della NATO e dello schieramento militare americano nei paesi dell’ex-URSS (fra cui i progetti di scudo spaziale anti-missile). Ma l’amicizia con gli USA non ha garantito Saakashvili davanti alla controffensiva russa: l’Europa ha preferito firmare il piano di pace del presidente di turno Sarkozy (appoggiato da Italia e Germania), che prevede il ritorno allo status-quo precedente gli scontri e la rinuncia da parte georgiana all’uso della forza, cioè la ratifica della vittoria militare russa. Una proposta americana di condanna dell’offensiva russa è stata lasciata cadere.

Il piano Sarkozy non è frutto di una lunga discussione fra tutte le capitali europee: la UE resta divisa fra i paesi dell’est – più ostili a Mosca e vicini a Washington – e quelli occidentali – che preferiscono buoni rapporti con la Russia.

L’imperialismo italiano, diviso fra i legami economici con la Russia e l’alleanza con gli USA, ha aderito all’iniziativa di Sarkozy, nonostante l’orientamento nettamente filo-atlantico dell’attuale governo e con buona pace di chi descrive l’ITALIA come un paese “subalterno” agli USA o addirittura come una loro colonia.

Al di là di quanto dice il diritto internazionale borghese in questi casi (sacralità dei confini di uno stato sovrano, diritti delle minoranze linguistiche, autorità delle istituzioni internazionali nel prevenire i conflitti) balza agli occhi come i confini di fatto dipendano non dai principi legalitari (che vengono applicati a piacimento da ogni potenza a seconda della propria convenienza) ma dai rapporti di forza, forza diplomatica ma soprattutto militare.

E’ inevitabile pensare al Kossovo (dove la popolazione albanese ha ottenuto l’indipendenza violando l’integrità territoriale serba non in virtù di voti ONU, mediazioni o accordi fra i governi, ma grazie alle forze NATO) o alla Cecenia (dove l’indipendentismo locale è stato schiacciato nel sangue con la benedizione occidentale da quella stessa potenza che ora difende l’autodecisione degli osseti).

E’ presto per dire se gli ammonimenti del patto atlantico (USA e paesi est-europei in primis) si tradurranno in fatti di peso trasformando la crisi del Caucaso in un nuovo lungo conflitto, cosi come è presto per dire se la pesante reazione russa indica una nuova linea “imperiale” di Mosca; ma è evidente che i nazionalismi locali, oltre che esprimere gli interessi delle borghesie e dei potentati locali, traducendosi in pulizie etniche, sono anche pedine delle potenze imperialiste da usare e sacrificare. I sogni di sicurezza e sovranità della borghesia georgiana per ora sono rimasti parole. Quelli di abkhazi e sud-osseti dipendono dalla protezione interessata dell’imperialismo russo.

Come internazionalisti non ci interessa prendere parte per questa o quella borghesia locale, né tanto meno per le potenze imperialiste che le appoggiano o le sacrificano a seconda delle circostanze.

Ma denunciamo le sofferenze delle popolazioni, esibite dagli opposti schieramenti come mezzo di pressione diplomatica, ma inflitte con indifferenza. Non vogliamo disquisire sui principi della legalità internazionale, che vengono usati solo per coprire gli interessi in gioco. Sappiamo che lo spostamento dei confini garantisce una pace temporanea ed è destinato ad alimentare nuove rivendicazioni appena mutano i rapporti di forza. Ma denunciamo gli interessi economici e geopolitici che vengono mascherati con ideologie patriottarde o etnico culturali.

Come comunisti sappiamo che le guerre, al di là delle etichette nazionaliste usate per mobilitare le masse, sono il frutto inevitabile del sistema capitalista; solo l’eliminazione della divisione in classi sociali e frontiere può dare una pace duratura.

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