I partiti dei banchieri

La recente puntata dello scandalo banche si è conclusa con le dimissioni a catena dei vertici di BPI (Banca Popolare Italiana, ex BP di Lodi), UNIPOL (il gruppo assicurativo emanazione delle “cooperative rosse”) e della stessa Banca d’Italia, nella persona del suo Governatore, Antonio Fazio.

Corruzione, violazione di leggi dello Stato, veri e propri furti a danno dei depositanti sono gli aspetti che hanno suscitato maggior scalpore e indignazione, perché perpetrati da personaggi al vertice del sistema finanziario italiano. Una buona parte dei coinvolgimenti politici non è ancora stata messa in vetrina, ma lo scandalo è già parte della campagna elettorale. Indubbiamente la vicenda rivela la decadenza morale – rispetto alla loro stessa morale – dei massimi esponenti della borghesia (un Fazio che si fa regalare i Cartier come una qualsiasi cocotte d’alto bordo; un Fiorani, Amministratore Delegato di BPI, cocco di cardinali e onorevoli, che screma i conti dei correntisti come i re di una volta limavano i bordi delle monete d’oro; un Billé, presidente di Confcommercio, che arreda casa sua con i fondi neri della Confcommercio e saccheggiando i fondi pensione dei dirigenti).

Né ci commuove l’improvvisa sollecitudine per i poveri risparmiatori rapinati, che servono certo alla campagna di stampa, ma poi verranno prontamente dimenticati quando gli obiettivi dell’operazione scandalo saranno stati raggiunti.

Noi non ci stupiamo quindi della corruzione emersa, perché tutta la storia del capitalismo ci mostra borghesi pronti a violare le loro leggi e la stessa “santità” della proprietà privata per il proprio arricchimento privato e ad usare sistematicamente la corruzione di politici e funzionari dello Stato quale strumento d’ordinaria amministrazione.

Ė d’altra parte “naturale” che nella società in cui domina il denaro e nello Stato che ne è l’espressione politici e funzionari, più che corrompibili, siano alla ricerca di poteri economici che li corrompano o, ciò che non è molto diverso, che li finanzino.

Né ci poniamo a difesa della legge e della morale borghese. Anche nel pieno rispetto di esse la borghesia ha commesso le più immorali nefandezze ed esercita lo sfruttamento del lavoro salariato.

Ci interessa qui andare alla sostanza della ennesima “guerra per banche”, nella quale anche la magistratura, nell’accertare e sanzionare la violazione della legge, è parte in causa, come parte in causa è stata la Banca d’Italia, che si vorrebbe custode “al di sopra delle parti” dell’interesse generale e del risparmio.

Le banche centralizzano il risparmio e partecipano allo sfruttamento

Lo scandalo delle banche nasce dallo scontro tra diversi gruppi capitalistici per il controllo del capitale monetario dei “risparmiatori”, uno scontro che ha carattere internazionale.

In Italia esiste una massa di risparmi consistente (nel giugno 2005 era pari a circa 2 955 MD di €, corrispondente a più del doppio del PIL italiano); la maggior parte di questi risparmi viene rastrellata da banche, assicurazioni, fondi di investimento, e canalizzata verso il finanziamento dell’acquisto di mezzi di produzione e forza lavoro salariata, per appropriarsi del prodotto del suo lavoro. Gran parte del plusvalore così ottenuto va alle imprese che hanno ricevuto i finanziamenti e agli intermediari finanziari; ai piccoli risparmiatori oggi non viene spesso garantito neppure il valore del denaro depositato al netto dell’inflazione. Ė comunque illusoria l’idea che il denaro frutti interessi per sua virtù. Solo attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato nel processo produttivo si produce quella ricchezza aggiuntiva (plusvalore) da cui derivano sia i profitti delle imprese che gli interessi intascati da intermediari e possessori del denaro. Tra capitale industriale e capitale monetario vi è una continua lotta per la ripartizione del plusvalore.

Il ruolo delle banche è ancora più rilevante in Italia dove la Borsa e i Fondi pensione non svolgono un ruolo rilevante come in altre metropoli, tanto che il debito verso le banche in Italia pesa per il 27% sul fatturato delle imprese, contro il 6% della Francia, l’8 degli USA e il 15 della Germania.

Si capisce perché, non appena è stato avviato il processo di privatizzazione del sistema creditizio italiano – per l’80% pubblico fino agli inizi degli anni ’90 – si sono scatenate lotte accanite per la conquista delle banche più deboli o più facilmente scalabili, che hanno portato ad un forte processo di concentrazione del sistema bancario italiano.

Concentrazione delle banche italiane

Nella nuova fase apertasi con la privatizzazione delle tre BIN (Comit, Credit, Banco di Roma) fra il 1990 e il 2002 vi è stato un forte processo di concentrazione con 483 fra fusioni, incorporazioni e trasferimenti di controllo, con una media di 37 operazioni l’anno (con due punte di 66 nel ’95 e nel ’99); fra il 1987 e il 2004 il numero delle banche italiane è sceso da 1200 a 778 mentre tra il ’93 e il 2002 il numero di sportelli per banca passava da 21,3 a 36. Questa concentrazione e questa situazione di oligopolio ha permesso ai padroni della finanza di aumentare enormemente i loro profitti: la redditività delle banche per i loro azionisti (ROE) è quintuplicata dall’1,2 al 6,4%. Il numero dei dipendenti fra il ‘95 e il 2003 è stato ridotto di 53 mila fino agli attuali circa 300.000, nonostante gli sportelli siano passati da 14 a più di 30 mila, e la loro incidenza sui costi è passata dal 42 al 33%.

Il grado di concentrazione delle banche in Italia non è minore che in Germania, Francia e Gran Bretagna, anche se i maggiori colossi bancari europei sono ancora più grandi: tra i 37 gruppi creditizi europei compresi nell’indagine di R&S 2003 sulle principali banche internazionali, soltanto tre sono di nazionalità italiana: Banca Intesa, UniCredit e Sanpaolo Imi, nell’ordine ventottesima, trentaduesima e trentacinquesima. Ė naturale che i colossi europei abbiano messo i loro occhi su diverse banche italiane, forti della liberalizzazione dei movimenti dei capitali nella UE. Anche alcune banche italiane hanno in realtà fatto importanti acquisizioni in Europa: ad esempio Unicredit ha recentemente acquistato l’importante banca tedesca HVB (HypoVereinsBank).

Protezionismo finanziario

Le banche italiane temono le concorrenti estere, e temono che il loro ingresso in Italia spezzi gli accordi monopolistici che permettono loro un più elevato margine di intermediazione (ossia i ricavi sul denaro dato in prestito) rispetto alle altre metropoli – in altre parole in Italia il capitale bancario arraffa una quota maggiore del plusvalore prodotto dai lavoratori. Ma proprio per questa ragione troviamo gli industriali a favore delle banche estere. Fazio, che non è mai stato un euroentusiasta, specie dopo che ha dovuto cedere alla BCE il controllo sulla moneta, si è tenuto stretto il potere di vigilanza sul sistema bancario e ha cercato di utilizzarlo per favorire il consolidamento di poli bancari italiani e proteggerli dalle incursioni dei gruppi finanziari stranieri, europei inclusi. Ha tenuto una linea protezionista, o se si vuole nazionalista, anche se secondo alcuni critici non è stato coerente, essendosi opposto nel 1999 alle scalate del Sanpaolo Imi a Capitalia e di Unicredit alla Comit perché avrebbero spezzato equilibri economici e politici che Fazio voleva difendere.

In sede UE invece Fazio è stato accusato dai commissari europei di ostacolare i gruppi bancari stranieri. Egli si è difeso affermando che gli stranieri “detengono oggi in Italia una quota del capitale dei primi 4 gruppi bancari pari in media al 17%; […] invece in Germania la quota dei primi 4 gruppi che appartiene a operatori esteri è del 7%, in Francia del 3% e in Spagna del 2,6 per cento.” In altri termini: ognuno fa il liberista in casa degli altri, ed è protezionista in casa propria.

Il settore banche è fra gli ultimi ad aprirsi alla concorrenza in tutti i paesi europei, in parte per ragioni strategiche, perché da essi dipendono la politica di supporto alle imprese, e gli eventuali salvataggi.

Italianità e liberismo

Le più recenti battaglie hanno riguardato l’acquisizione della Banca Nazionale del Lavoro e della banca Antonveneta (quinta banca italiana per patrimonio e con un forte radicamento nel Nord Est industriale). Nelle due banche era già presente un azionista straniero, incoraggiato all’investimento azionario dal governo italiano in una fase precedente di crisi (la spagnola BBVA, Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, iniziò nel ’98 l’investimento in BNL fino a controllarne il 14,7%; l’olandese ABN Amro a partire dal 1995 ha acquisito il 12,7% di Antonveneta). In tempi recenti BNL ha subito molte perdite avendo investito nei bond argentini. Al contrario le due banche straniere scalatrici sono ai vertici della redditività (nella classifica del ROE, ABN Amro con 29,6% è il secondo gruppo europeo e BBVA con 20,5% il quinto).

Le due banche straniere hanno quindi visto l’occasione di garantirsi il controllo delle due banche italiane, per penetrare in modo più significativo nel mercato italiano (nella sua presentazione ufficiale ai piccoli azionisti ABN Amro annuncia la sua intenzione di lanciarsi nel business dei Fondi pensione appena avviato dalla riforma Maroni e di investire nello sviluppo di quella piccola e media industria del Nord Est che eccelle “nei prodotti ad alto valore aggiunto e sofisticati”.

Di fronte a questa campagna la Banca d’Italia, o almeno il suo governatore, si è schierata a fianco dei gruppi italiani (Unipol per BNL e la Popolare di Lodi (poi Italiana) poi BPI di Fiorani per Antonveneta) che – pare in collusione tra loro – hanno tentato di contrapporsi ai pretendenti spagnolo e olandese, violando secondo i magistrati inquirenti le stesse leggi e regolamenti italiani, e accettando regali da Fiorani. Dato che il gruppo Fiorani-BPI trovava appoggi politici soprattutto nel polo di centro-destra e UNIPOL ha storici legami con le Coop “rosse” e i DS, la doppia scalata contava di avere la copertura di gran parte dello schieramento parlamentare oltre che del governatore di Bankitalia.

Ma le frazioni borghesi italiane si sono divise.

Quando nel marzo 2005 Fazio dichiara “Siamo di nuovo in trincea per difendere l´italianità del nostro sistema bancario e, quindi, del nostro sistema produttivo sostenuto in questo momento proprio dalle banche. E non sarà facile, vista l´aggressività degli stranieri e il nuovo corso della Commissione UE”, ottiene il plauso di politici e sindacati, oltre che di Confartigianato, Confagricoltura e Confcommercio, preoccupate che “i risparmi della nostra gente, destinati a finanziare attraverso la rete di banche locali le nostre attività artigianali, commerciali, agricole e della media e piccola industria prendano altre strade per sostenere i grandi gruppi, quelli che ci fanno concorrenza”.

Ma la Confindustria si è schierata contro Fazio e per l’apertura alle banche straniere, perché le grandi imprese industriali ritengono di avere tutto da guadagnare dalla concorrenza delle banche estere all’oligopolio delle banche italiane. Infatti, anche se Fazio dichiarava recentemente che “per effetto delle fusioni il grado di concentrazione del nostro sistema bancario è molto cresciuto e oggi la quota di mercato dei primi 4 gruppi è del 44%, perciò il sistema è diventato più concorrenziale”, gli industriali lamentano un “costo del denaro” maggiore che in Europa. Secondo altre fonti le banche italiane più che le imprese penalizzano le famiglie; secondo il World Retail Banking Report la gestione di un conto corrente presso una banca italiana costa in media 301€ contro una media europea di 98 e una media mondiale di 78.

Schieramenti misti

In ogni caso, come accennato, lo schema “italiani contro stranieri” coglie solo l’aspetto più vistoso della guerra, che vede schieramenti misti: anche gli scalatori italiani hanno dovuto cercare potenti alleati stranieri per organizzare le scalate, mentre i gruppi italiani erano tutt’altro che compatti dietro agli scalatori italiani. Ad esempio Luigi Abete, presidente BNL, era del tutto favorevole alla scalata agli spagnoli, come anche il Gruppo Generali, azionista di BNL, e assolutamente contrario a spartire il settore assicurazioni gestito da BNL con Unipol. Contro Fiorani e pro olandesi c’era Cesare Geronzi, direttore generale di Capitalia, ma anche un gruppo di piccoli azionisti di Antonveneta. Da parte sua Fiorani nell’assalto ad Antonveneta aveva arruolato i Benetton, i Riello, Gnutti, gli imprenditori lombardo-veneti azionisti di Deltaerre.

Sul fronte estero, Goldmann Sachs incaricava Mario Draghi, il suo vicepresidente per l’Europa e oggi nuovo governatore di Bankitalia, di appoggiare BBVA, mentre ABN Amro era appoggiata da Franco Bernabè, ex capo di ENI e di Telecom, per conto dei Rothschild, e da Lehman Brothers, e si avvaleva della consulenza dell’ex presidente Consob ed ex senatore eletto nelle liste PCI, Guido Rossi. Per lo schieramento italiano l’operazione di Fiorani era garantita dalle sedi londinesi di Dresdner Bank e Deutsche Bank (che del resto pare avesse partecipato con Lazard anche al tentativo di scalata al Corriere della Sera), ma anche da finanziamenti da parte di Paribas, Société Générale, Royal Bank of Scotland, WestLBank e Lloyd. Esisteva d’altro canto anche un’azione di concerto fra Unipol e Deutsche Bank, finita ora nel mirino della magistratura, oltre ad un contratto di finanziamento a Unipol, stipulato da BNP Paribas, Crédit Suisse, Deutsche Bank, Bayerische Hypo und Vereinsbank, Nomura e Lloyds Tsb. Tutto questo conferma che una guerra per banche in Italia non può che essere una battaglia internazionale. Le azioni della magistratura hanno giovato ad ABN Amro (che infatti ha acquisito il controllo al 100% di Antonveneta) e BBVA, ma hanno danneggiato le banche tedesche interessate a una operazione in area lombardo-veneta.

In realtà non esiste un “capitale nazionale”, ancor meno quando si parla del capitale finanziario, che centralizza denaro raccolto in ogni parte del mondo per trasferirlo ovunque trovi convenienza. Esistono però concentrazioni di capitale finanziario a base nazionale e regionale, che hanno intrecciato legami con le imprese che operano nell’area, e con i politici locali. Per noi che facciamo riferimento al proletariato internazionale non si tratta di prendere le parti di una frazione del capitale internazionale contro altre, ma di denunciare il carattere borghese di tutti gli schieramenti politici che appoggiano i vari gruppi finanziari.

Partito trasversale

L’intervento della magistratura ha scoperchiato l’esistenza di un partito trasversale, di interessi finanziari con solidi legami in entrambi gli schieramenti, di centro-destra e di centro-sinistra.

Le dimissioni di Fazio sono peraltro l’atto conclusivo di un lungo braccio di ferro iniziato nel 2003: anche lo scandalo Parmalat (ottobre 2003) era stato utilizzato dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti per chiedere le dimissioni di Fazio e impostare una Riforma del Risparmio che ridimensionasse i poteri di Bankitalia, ponesse un termine al mandato del governatore e ridistribuisse i poteri di vigilanza sul sistema bancario.

Facendo leva sulla difesa della “italianità” delle banche Fazio parò l’attacco. La pace fatta fra Fazio e la Casa delle Libertà (a spese di Tremonti, di lì a poco dimissionario) è andata sotto il nome di “patto dello sciacchetrà” (dal vino che vi si è bevuto). La Lega Nord, fino allora schierata con Tremonti, aveva dovuto presentarsi “col cappello in mano” da Fiorani per veder salvata la banca “padana” Credieuronord in sofferenza. E Fazio aveva fatto da sensale. Sempre Fiorani era intervenuto a salvare dall’insolvenza Paolo Berlusconi in un affare di discariche. Ma il patto trasversale intorno a Fazio comprendeva anche uno spezzone dei DS e della “sinistra”: Unipol muove alla conquista di BNL con la benedizione di D’Alema, Bersani, Visco, Bassanini e Fassino, ma anche di Nerio Nesi, ex presidente BNL e ora PDCI, che chiede grandi fusioni domestiche per fronteggiare lo straniero. Al contrario, il gruppo aggregato intorno alla banca “rossa” senese Monte dei Paschi si defila dall’operazione.

Agli inizi di marzo 2005 quindi il governo aveva varato un Decreto sul Risparmio in cui le Autorità di controllo restavano cinque (Antitrust, Consob, Bankitalia, Isvap e Covip), la vigilanza sulla concorrenza bancaria restava a Bankitalia ed era confermato il mandato a tempo indeterminato del governatore.

La sconfitta di Fazio

Le banche straniere stoppate hanno trovato una sponda in parte della magistratura italiana, che nel frattempo ha aperto una serie di inchieste, scoprendo estese irregolarità nel comportamento dei banchieri. Alcune “gole profonde” hanno fatto finire sui giornali i testi delle intercettazioni telefoniche e la pressione si è fatta insostenibile per Fazio, che si è dovuto dimettere, come Consorte e Sacchetti (dirigenti Unipol) e Gnutti (grande azionista delle banche coinvolte). Fiorani nel frattempo era stato arrestato. Nell’Esecutivo e in Parlamento è prevalsa la linea per riportare sotto il controllo del governo la Banca centrale italiana, che in seguito a Tangentopoli aveva acquisito molta indipendenza e addirittura svolto un’azione di supplenza prestando alla politica molti suoi esponenti, da Dini a Ciampi.

Nella nuova versione della Riforma del Risparmio, poi varata dal Parlamento in tutta fretta a ridosso delle vacanze natalizie, il governo ha modificato sia le regole di nomina del Governatore della Banca d’Italia (nominato dal Capo dello Stato, su proposta del Governo, sentito il Consiglio superiore della Banca d’Italia e non più dai banchieri-azionisti) sia la durata del mandato (sei anni, rinnovabili e non più a vita), come da ora sarà a termine anche il mandato del “Direttorio” di Bankitalia. E’ stata in parte scalfita l’autorità di Bankitalia su fusioni e acquisizioni: sarà condivisa con l’Antitrust. La storia delle Banche centrali dimostra che esse possono avere brevi o lunghi interludi di relativa indipendenza, ma nei momenti di emergenza vengono vigorosamente sottomesse alle esigenze dei governi nazionali.

In questa battaglia economico-politica ha pesato anche la pressione delle banche estere tramite la Commissione UE e la Banca Centrale Europea: il protezionismo finanziario ha un costo nella bilancia dei rapporti con i soci UE.

La nomina a governatore di Draghi, non un uomo al di sopra delle parti, ma uno che fino al giorno prima rappresentava uno schieramento di banche estere (e che quando era al Tesoro ha promosso le privatizzazioni bancarie) indica la prevalenza dello schieramento liberista e pro apertura ai gruppi stranieri. Se ABN Amro ha ormai assunto il controllo di Antonveneta, la Banca d’Italia del governatore pro tempore Desario ha bocciato almeno per ora l’OPA di UNIPOL su BNL, riaprendo tutti i giochi. Sono da attendersi nuove “campagne d’Italia”.

La “guerra per banche” ha messo in evidenza come il colore della finanza sia uno solo, quello del capitale, e che i vari colori dei partiti parlamentari servono a rappresentare, con differenti ideologie, differenti frazioni della borghesia. Ormai tutti concordano su una sola cosa, che nessuno di loro può scagliare la prima pietra. I Catoni della sinistra al massimo invocano “il rispetto delle regole” del capitale, nell’intento di illudere i lavoratori che vi possa essere un capitalismo “pulito”, “corretto” e “progressista”. Nella patria della democrazia borghese, gli Stati Uniti, i finanziamenti dei vari gruppi a partiti e politici sono in gran parte “legali”, istituzionalizzati con il sistema del lobbying (uffici il cui business è quello di far passare gli interessi dei loro mandanti tra i parlamentari e nel governo) e avvengono alla luce del sole. La “corruzione diretta dei funzionari” e dei “rappresentanti del popolo” è parte riconosciuta del sistema. Il problema per il marxismo non è di rispetto o violazione delle leggi, ma è un problema di sistema economico-sociale: nel capitalismo la politica parlamentare è la politica del denaro, e la democrazia è “il migliore involucro” del capitalismo. L’ultimo scandalo delle banche mostra che entrambi gli schieramenti che si contenderanno le prossime elezioni sono al servizio dei vari gruppi finanziari.

Il nostro impegno di comunisti è per costruire una forza espressione dei lavoratori, che sia di opposizione al sistema capitalistico, non a questo o quel governo del grande capitale; non per moralizzare il capitalismo, ma per rovesciarlo, e far crescere un nuovo modo di produzione, socialmente morale perché non più fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’interesse privato, ma sulla cooperazione dei produttori in una società senza classi.

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