Ma i precari non crescono

ITALIA, PRECARIETÀ

CORRIERE Mer. 26/4/2006  
Ichino Pietro

Tra il 2001 e il 2005
stazionaria la quota di contratti a termine Sta sbagliando bersaglio chi mette
sotto accusa la legge Biagi

Ma le differenze di
produttività tra lavoratori sono cresciute e ora i più deboli rischiano di
«impigliarsi» nella trappola dell’ impiego fuori standard


Qualche giorno fa in un talk-show televisivo
abbiamo sentito un autorevole membro del governo uscente affermare che il
merito di un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro creati in Italia nel
corso dell’ ultima legislatura sarebbe della legge Biagi; e abbiamo sentito un
autorevole esponente della nuova maggioranza replicare che la legge Biagi
sarebbe, piuttosto, la causa principale dell’ aumento del lavoro precario.
Nessuna delle due affermazioni è seriamente sostenibile, se si ragiona sui dati
disponibili. I dati Istat riportati qui sopra dicono due cose. La prima è che il
forte aumento dell’ occupazione complessiva in Italia ha avuto inizio nel 1998,
ha raggiunto la sua punta massima del +2,6% nel 2001 ed è poi proseguito dal
2002 al 2005 in modo assai meno marcato
; se bastasse (ma non basta) la
coincidenza temporale per individuare gli effetti prodotti dalle leggi sull’
occupazione, il merito di quell’ aumento parrebbe dover essere attribuito al
«pacchetto Treu» del 1997 molto più che alla legge Biagi del 2003
. La
seconda cosa che si trae da quei dati è che la quota dei contratti a termine
rispetto al totale dell’ occupazione è aumentata – di circa due punti, dal 12%
al 14% – nel corso degli anni ‘ 90, ma non nel corso dell’ ultima legislatura
:
la riforma del 2001, varata in accordo con Cisl e Uil e respinta dalla Cgil,
non ha prodotto per nulla gli effetti di liberalizzazione dei contratti a
termine preconizzati allora dal governo Berlusconi. Degli effetti delle leggi
dell’ ultima legislatura sulle collaborazioni autonome continuative, sostituite
dal nuovo «lavoro a progetto», abbiamo già scritto nei giorni scorsi: la
materia non è stata certo liberalizzata, ma regolamentata in modo più
stringente. Neppure questa forma di lavoro precario ha comunque fatto
registrare un’ espansione negli ultimi due anni: semmai il contrario
. Quanto
al «lavoro a chiamata» e al «contratto di inserimento», essi sono stati quasi
del tutto ignorati dalle imprese
. La sola conclusione che può trarsi dall’
insieme di questi dati è che le misure di politica del lavoro adottate dal
governo Berlusconi non hanno prodotto né gli effetti di liberalizzazione del
mercato attribuiti loro dal governo stesso, né quelli di precarizazione del
lavoro attribuiti loro dall’ opposizione
. Come per un verso si può
escludere che quelle misure abbiano segnato un miglioramento decisivo nelle
performances del nostro mercato del lavoro, per altro verso, piaccia o no, si
deve escludere che il fenomeno del lavoro precario ne sia stato causato o
favorito in modo apprezzabile (alla stessa conclusione arriva, sulla base di
dati di fonte in parte diversa, Luca Ricolfi nel suo ultimo libro Tempo
scaduto, edito dal Mulino). Resta da chiedersi perché il precariato sia oggi
percepito diffusamente come problema più grave rispetto al passato
, visto
che la statistica non ne conferma un aumento complessivo rilevante. È ben vero
che, secondo gli ultimi dati forniti dalla Banca d’ Italia, di coloro che
sono passati dal non lavoro nel 2004 a un lavoro dipendente o autonomo nel
2005, il 40,5% l’ ha trovato nella forma del contratto a termine, del lavoro
interinale o del lavoro a progetto
: percentuale che era andata lentamente
crescendo negli ultimi anni. Ma se la quota complessiva di quei contratti di
lavoro precario resta contenuta ben al di sotto del 20% del totale, questo
significa che in due casi su tre (se non tre su quattro) essi si trasformano
abbastanza rapidamente in lavoro a tempo indeterminato
. Il problema è che
dei casi in cui il lavoro precario funge effettivamente da canale di accesso al
lavoro stabile nessuno parla: quelli che «fanno notizia» sono solo i casi in
cui questo non accade, in cui il lavoratore resta impigliato a lungo nella
trappola del lavoro precario. Ora, può essere che la quota dei «precari
impigliati» rispetto al totale sia aumentata più di quanto sia aumentato
complessivamente il lavoro precario; ma se questo è il problema, esso non nasce
né dalla legge Treu né dalla legge Biagi: esso nasce invece dall’ aumento delle
disuguaglianze di produttività tra gli individui nella società postindustriale,
cui le imprese reagiscono aumentando le disparità di trattamento. Questo
problema può essere affrontato soltanto col rafforzare professionalmente i più
deboli, o aiutarli a trovare la collocazione in cui possono rendere di più

(ciò per cui una fase di maggiore mobilità all’ inizio della carriera
lavorativa è indispensabile); mentre aumentare il costo del loro lavoro
rischia di condannarli alla disoccupazione
. Ridurre drasticamente la
possibilità di lavoro a termine o aumentarne il costo – come si propone ora di
fare il nuovo governo – può solo rendere la vita più difficile alla parte più
debole dei giovani che si affacciano sul mercato. Non dobbiamo dimenticare
che nel 1977, quando l’ alternativa era soltanto tra il lavoro stabile e la
disoccupazione, il contratto di formazione e lavoro
(sostanzialmente un
contratto a termine, della durata di uno o due anni, con retribuzione ridotta) venne
introdotto per iniziativa del sindacato e delle forze politiche di sinistra,
proprio per favorire l’ accesso dei giovani
. E nell’ ultimo ventennio
attraverso quella «porta» sono passati ogni anno centinaia di migliaia di
ragazzi, dei quali – qui i dati disponibili parlano chiarissimo – più di due
terzi hanno visto il contratto a termine trasformarsi, alla sua scadenza, in
contratto di lavoro ordinario. Il nuovo governo farà bene a non dimenticare
quell’ esperienza
.

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