QUANTA MANCANZA DI COORDINAZIONE PUO’ REGGERE L’EUROPA?/IL VANTAGGIOMOLTEPLICITÀ; GERMANIA PRINCIPALE BENEFICIARIO EURO

GERMANIA, CRISI EURO, RAPPORTI DI POTENZA

DIBATTITO SU FUTURA STRUTTURA DELLA UE; CONTRO (MARZO-APRILE) E PRO (OTTOBRE 2011) EUROPA A DUE VELOCITÀ, NOCCIOLO DURO E PERIFERIA
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INTERNATIONALEPOLITIK  (DGAP)     120101
AVANTI  ANCORA – QUANTA MANCANZA DI COORDINAZIONE È IN GRADO DI REGGERE L’EUROPA?
–    Le crisi hanno accompagnato lo sviluppo della UE, quella recente sta seriamente mettendo alla prova il progetto Europa; sta prendendo forza una Europa nocciolo duro già prospettata dagli anni Novanta, ma c’è qualcosa di qualitativamente nuovo?
–    L’attuale situazione politica dell’Europa è simile ma più drammatica di quella del 1994 (Trattato di Maastricht  UE, 12 membri)
o    un documento Schäuble-Lamers (Schäuble, ex presidente gruppo parlamentare CDU e attuale ministro Economia tedesco – Lamers, portavoce CDU per la politica estera) così la tratteggiava:
o    Le istituzioni sono in tensione eccessiva, gli interessi si scontrano sempre di più;
o    tutti i paesi si trovano a gestire un profondo cambiamento nella struttura economica, parte di una ampia crisi di civiltà dell’Occidente;
o    in quasi tutta l’Unione si sta imponendo un nazionalismo regressivo, e un indebolimento dei governi e dei parlamenti nazionali.
o    Il politologo Josef Janning scriveva già al tempo (su IP): l’Europa ha bisogno di velocità diverse.
o    Schäuble e Lamers anche allora come oggi erano per un’Europa nocciolo duro;
–    Nel 2000, l’allora ministro Esteri Joschka Fischer (Verdi) aveva delineato la scelta che si sarebbe prospettata:
o    Integrazione completa della maggioranza dei paesi UE,
o    o piccola avanguardia di paesi, centro di gravitazione …, in grado di avanzare con l’integrazione politica?
–    Conciliare approfondimento e allargamento della UE con velocità diverse, un’idea ancora esplosiva; la differenziazione è considerata una necessità, un male limitato nel tempo, non un principio base positivo.
–    Giuristi e politici europei hanno forti dubbi su una Europa a diverse velocità e l’affiancamento di regolamenti giuridici diversi, temono la disgregazione giuridica, l’emarginazione politica di singoli paesi e la fine dell’unità.
–    La domanda è: quanta mancanza di coordinazione è in grado di reggere la UE, una “unione di popoli sempre più stretta”? È un esercizio di equilibrismo: mantenere un livello sufficiente di comunanza  ed evitare che si creino sistemi in concorrenza tra loro, che rendano impossibile una comune direttrice di attacco/avanzata e indeboliscano al UE come insieme.
o    il passo avanti in direzione di una maggiore integrazione compiuto oggi dai 17 dell’euro è dettato dalla necessità non da profonde convinzioni;
o    alcuni di essi (Grecia, Irlanda ad es.) preferirebbero non far parte dell’avanguardia.
–    Le decisioni del vertice del 27 ottobre 2011 in questa direzione differenziano più chiaramente i 17 paesi dell’euro da 10 paesi non-euro. È stato istituito un vertice dell’euro con capi di stato e di governo dei paesi euro, che si riunirà almeno due volte l’anno; van Rompuy è suo presidente ad interim, fino alla nomina di un presidente ad hoc. I paesi non-euro saranno semplicemente informati su dibattito e decisioni del gruppo euro.
o    9 dei 10 non euro (UK escluso) si sono detti interessati  a partecipare al trattato per una nuova struttura dell’unione economica e monetaria. Questo trattato – se vi si giungerà – affiancherà e non sarà una trasformazione del Trattato di Lisbona, come già ac-caduto per l’accordo raggiunto per la istituzione del fondo di salvataggio europeo EFSF.
–    Anche se i paesi non-euro aderiranno al nuovo trattato, la linea di demarcazione non è tra i 26 e il UK, ma tra i 17 euro e il resto della UE, benché governo tedesco e partner tentino di sdrammatizzare il rischio di divisione della UE. Con la prevista integrazione graduale aumenteranno le diversità tra chi è dentro e chi è fuori, nocciolo e periferia si distanzieranno ulteriormente.
–    La vecchia signora democrazia è troppo lenta per i mercati globalizzati? Il tempo stringe ma é ormai evidente la quasi impossibilità di mantenere la fine marzo 2012 come scadenza per il varo del nuovo trattato; parlamenti e parti sociali ne discuteranno gli orientamenti, poi ci dovranno essere le ratifiche dei singoli parlamenti nazionali o i referendum popolari.
–    La UE è sotto eccessiva pressione? Da una parte deve combattere i sintomi acuti della crisi, dovendo operare con un sistema incompiuto; al contempo deve riformare le basi della unione economico-monetaria.
–    La UE era giunta al limite della sua  capacità di adattamento già con la riforma del Trattato di Nizza durata 10 anni (e risolta per vie traverse tramite il progetto di Costituzione e poi il Trattato di Lisbona)
 
INTERNATIONALE POLITIK    11.03/04
IL VANTAGGIO DELLA MOLTEPLICITÀ – LA GERMANIA È IL PRINCIPALE BENEFICIAIRO DELL’AREA DELL’EURO, CHE QUALCUNO GLIELO SPIEGHI
●    Una unione monetaria europea che non comprende solo i “paesi nocciolo duro” (Germania, Austria, Benelux, Finlandia e Francia) ha portato negli scorsi anni e porta anche ora alla Germania enormi vantaggi economici, derivanti dall’esserne la locomotiva economica;
o    per gli esportatori tedeschi ha significato stabilità della domanda e dei prezzi, per l’insieme dell’economia tedesca  profitti di scala.
●    La Germania non paga alcun tributo economico al suo impegno politico per l’Europa, è perciò nel suo interesse appoggiare finanziariamente i paesi che si sono indebitati negli ultimi anni, non ul-timo per aver consumato prodotti tedeschi.  
●    La piena comprensione di questi vantaggi dovrebbe facilitare il superamento della crisi, anche se potrebbe essere difficile farla passare in alcuni settori della società tedesca.
o    Berlino ha direttamente tratto profitto della stabilità assicurata dall’euro ai paesi circostanti: la Germania ha un surplus commerciale con paesi che, diversamente, non avrebbero potuto permettersi di importare una tale quantità di merci tedesche.
o    Da ricordare che nel 1992 e 1995 gli altri paesi europei si trovarono nella condizione di non potersi permettere (a fronte del reale corso dei cambi) di aumentare la domanda di merci tedesche; né conseguì una improvvisa e consistente svalutazione nomi-nale rispetto al marco, che rallentò fortemente la capacità di esportazione tedesca, e che si ripercosse negativamente sulle economie in svalutazione.
–    L’approccio attuale di scaricare tutti i meccanismi di riequilibrio sui salari reali dei paesi deficitari è autodistruttivo, perché l’economia tedesca trae vantaggio dal fatto che riesce ad avere un costante surplus commerciale verso i paesi vicini, in particolare in tempi di stagnazione globale.
o    Un vantaggio diretto di questo è che le casse statali e con queste il fondo finanziario di tutte le imprese e dei consumatori tedeschi vengono sostenuti dall’unione monetaria.
o    La migliore risposta a lungo termine che la Germania può dare alle sfide generate dalla crisi è quella di pretendere sì nell’area euro una maggiore sintonia nella politica fiscale e più rigidi controlli sulle banche, ma anche di non intestardirsi su ulteriori estesi regolamenti e misure di austerità.
–    La logica alla base è la stessa di quella del “problema di trasferimento” (1a Guerra Mondiale) a cui la Germania, come debitrice, fu esposta quando in seguito al Trattato di Versailles … (enorme debito, richieste di riparazioni e cambio fisso); gli Alleati dovettero consentirle di poter vendere merci per essere almeno in grado di pagare il servizio sul debito, a condizione di rigide misure di austerità. Dire semplicemente alla Germania che doveva risparmiare di più sarebbe stato fi-nanziariamente improduttivo per i creditori del tempo e forse anche politicamente disastroso.
o    Oggi si ripropone, con altre condizioni politiche, uno schema analogo, tra paesi nocciolo duro dell’euro e i paesi debitori (Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna – l’Italia non era ancora entrata nel gruppo N.d.T).
La crisi dell’euro può essere risolta se nel pacchetto di finanziamenti che accompagnano le misure di austerità rientrerà anche una ristrutturazione del debito (o come la si voglia chiamare).
–    Se un “socio minore” di un’unione monetaria può essere danneggiato dal fatto che nelle decisioni di politica monetaria non si tiene conto delle sue specifiche condizioni,
●    nel caso della “locomotiva di un’unione monetaria” (che grazie alla propria dimensione è in grado di influire maggiormente sulla congiuntura di altri paesi membri) le decisioni economiche dell’unione sono per gran parte identiche a quelle che essa prenderebbe per se stessa.
o    Non esiste alcuna indicazione empirica che la politica monetaria della BCE sia nella sostanza diversa da quella che la Bundesbank avrebbe scelto per la Germania, se mai la politica BCE è stata ancora più espansiva per i paesi della periferia dell’area euro.
–    Il primo vantaggio è il “Signoraggio”, cioè i profitti derivanti dall’utilizzo di una valuta al di fuo-ri della sua area originale (varie aree dell’Est Europa e del Mediterraneo, ma anche in alcuni settori dell’economia sommersa internazionale).
–    Secondo vantaggio, le imprese dell’area euro non devono preoccuparsi di fluttuazione dei corsi, e questo vale sia per le imprese tedesche che esportano nell’area esterna che usa l’euro, ma anche per le imprese di questi paesi che vogliono fari affari in Germania, e questo diminuisce i costi delle transazioni.
o    La Germania ha un mercato più ampio per vendere le proprie merci con la propria moneta nazionale di quello che aveva con il marco.
–    Terzo vantaggio: l’euro ha contribuito a far abbassare i tassi di interesse per i crediti agli investimenti; tale effetto è risultato più forte in altri paesi che non in Germania, che già prima dell’introduzione dell’euro doveva pagare il minor interesse di rischio sui suoi prestiti.
o    Tuttavia, il forte aumento delle azioni trattate in euro ha facilitato l’accesso al credito anche per la Germania, imprese e privati.
–    Quarto vantaggio: l’euro offre alla Germania la possibilità di confrontarsi alla pari nei negoziati internazionali con americani, cinesi, giapponesi o le economie emergenti, anche se già prima ha spesso trattato come rappresentante dell’Europa.
–    Quinto vantaggio: più grande è l’unione monetaria meglio può reagire alle crisi valutarie o svalutazioni esterne (!!! N.d.t).
o    Grazie alla grandezza dell’area euro, é stato possibile assorbire molto meglio i flussi di capitali in entrata, che nelle condizioni degli anni passati sarebbero stati eccessivi ri-spetto al volume dell’economia tedesca per mantenere stabile il marco.
o    L’euro è grande abbastanza per rimanere stabile e attirare ulteriori flussi di capitali che, fintanto che le crisi hanno cause esterne all’area euro, non hanno alcun effetto destabilizzante sullo sviluppo economico.
–    L’euro ha consentito a molti paesi europei (Spagna, e Italia, ad es.) di tenere il passo con la velocità di crescita del commercio internazionale e dell’integrazione finanziaria, anziché arretrare o esserne esclusi.
o    E questo ha avuto un’influenza diretta sulla produttività e sui salari reali in Germania.
o    In secondo luogo le diversità di struttura, sviluppo e congiuntura economici nell’area euro portano ad una diversificazione della domanda per l’economia tedesca, fattore di crescita più stabile per la Germania di quanto non sarebbe una zona euro economicamente omogenea.
o    I paesi dell’euro assorbono mediamente il 40% dell’export tedesco: nel periodo 2000-2008 essi hanno assorbito ¼ della crescita complessiva della domanda di merci tedesche.
Internationale Politik    11.03/04
Featured, Jahrgang 2011, März/April
Die Vorteile der Vielfalt – Deutschland ist Hauptnutznießer des Euro-Raums. Zeit, dass man ihm das sagt
16 May 2011
von Adam S. Posen,
Ausgabe März/April 2011
–    Die Wirtschaftslokomotive einer Währungszone zu sein, war und ist für Deutschland ein Segen. Nicht guter Wille, sondern nüchternes Kalkül sollte Berlin dazu bewegen, für den Euro zu kämpfen. Seine Pläne, Partnern in Not neue Regelungen und Sparmaßnahmen aufzuzwingen, sind aber alles andere als der Königsweg in eine stabile Euro-Zone.
–    In ihrer Rede auf dem Weltwirtschaftsforum in Davos Ende Januar schwor Angela Merkel ihre Regierung auf das Überleben des Euro ein. Nicht dass das Überleben des Euro oder das deutsche Interesse daran jemals ernsthaft in Frage gestanden hätten; doch nutzte Merkel die Gelegenheit, um einen „Wettbewerbsfähigkeits-pakt“ für die Länder der Euro-Zone zur Bedingung für eine deutsche Unterstützung zu ma-chen.
–    Unabhängig vom genauen Ergebnis der derzeitigen Verhandlungen über ihren Vorschlag ist die dahinter erkennbare Absicht doch sehr deutlich. Die Bundesregierung und mit ihr eine nicht unerhebliche Zahl der Deut-schen teilen eine Ansicht:
o    dass ein Mangel an Disziplin der Euro-Staaten, die am stärksten von der Wirt-schaftskrise betroffen waren, auch für die Krise des Euro selbst verantwortlich ist;
o    dass Deutschland einmal mehr seine eigenen wirtschaftlichen Interessen auf dem Altar der europäi-schen Einheit opfert, indem es kränkelnde Volkswirtschaften durch Rettungszahlungen vor dem Schlimmsten bewahrt;
o    und dass daher der Stabilität sowohl des Euro als auch Deutschlands am ehesten dadurch gedient ist, dass andere Länder dazu gezwungen werden, in der Wirtschaftspolitik dem Vorbild der Bundesrepub-lik so weit wie möglich nachzueifern.
Viele Partner, viel Segen
–    Dabei ist das genau der falsche Schluss – und er führt zu einem verkehrten Politikansatz, was die zukünftige Stabilität der Gemeinschaftswährung angeht. Ein gemeinsamer europäischer Währungsraum, der eben nicht nur die selbsternannten „Kernländer“ mit einbezieht, brachte und bringt gerade für Deutschland enorme wirtschaftliche Vorteile mit sich.
–    Diese Einschätzung ergibt sich weder aus Appellen an das vernünftige Eigeninteresse an einer funktionierenden Uni-on[e] (auch wenn das allein Grund genug wäre), noch ist sie Ausdruck versteckter Interessenpolitik der USA oder an-derer Staaten (obgleich ein starker und stabiler Euro dem Westen natürlich nützt).
–    Ganz gleich, wie sich die Einführung des Euro auf die Wirtschaft anderer Länder ausge-wirkt haben mag: Für Deutschland hat sich ein gemeinsamer Währungsraum mit möglichst vielen Partnern als Segen erwiesen.
–    Die Vorteile, die sich aus der Rolle der Wirtschaftslokomotive in einer Währungsunion er-geben, hat Deutschland in den vergangenen Jahren vortrefflich für sich zu nutzen gewusst.
–    Kommt hinzu, dass in dem Maße, wie die Euro-Zone größer und vielfältiger wird, ihr Nutzen für die Mitglieder wächst.
–    Daher ist die beste Antwort, die Deutschland auf die durch die Krise entstandenen Herausforderungen auf lange Sicht geben kann, die, aus ureigenem Interesse eine bessere Abstimmung in der Fiskalpolitik und strengere Ban-kenkontrolle im Euro-Raum zu fordern – aber eben nicht auf zusätzlichen umfassenden Regelungen und Sparmaßnahmen zu beharren.
Gut für Europa, gut für Deutschland
–    Ähnlich wie das Internet rufen Währungen einen „Netzwerkeffekt“ hervor, was bedeutet, dass ihr Nutzen mit der Anzahl der Teilnehmer steigt und dadurch für wieder neue Teilnehmer at-traktiv wird. Dabei sind die Fixkosten, die bei der Einführung der neuen Währung entstehen, die Gründung einer Zentralbank, die Umstellung der Zahlungsmechanismen oder die Schaffung von Einrichtungen zur Datenerfassung, in der Regel überschaubar.
–    Einem kleineren Mitglied einer Währungsunion könnten bei wachsender Größe Nachteile entstehen, da auf dessen spezifischen wirtschaftlichen Bedingungen bei geldpolitischen Entscheidungen kaum Rücksicht genommen wird (was teilweise eine Erklärung dafür liefern mag, was vor der Krise in Spanien und danach in Irland geschah).
–    Für die Wirtschaftslokomotive einer Währungsunion aber, also die, die aufgrund ihrer Grö-ße den stärksten Einfluss auf die Konjunktur anderer Mitgliedstaaten ausübt, sind die wirt-schaftlichen Entscheidungen der Union[e] größtenteils identisch mit denen, die sie auch für sich selbst treffen würde.
–    Solange es eine unabhängige und der Preisstabilität verpflichtete Zentralbank wie die EZB gibt, gefährdet eine größere Währungsunion die Preisstabilität in der führenden Wirtschaft nicht. Deutschland profitiert daher durch die Euro-Zone von steigenden Skalenerträgen.
–    Der erste dieser Vorteile für Deutschland lautet „Seigniorage“ oder das, was man früher als Münz-gewinn bezeichnet hat: die von der Notenbank bei der Herausgabe der Währung erzielten Gewinne, die anfallen, wenn eine Währung außerhalb ihres Ursprungsraums genutzt wird.
In vielen Teilen Osteuropas und des Mittelmeerraums sowie in einigen Bereichen der internatio-nalen Schattenwirtschaft ist der Euro die Defacto-Währung – was dem Bundeshaushalt in barer Münze zugute kommt: bis zu 0,2 Prozent des BIP (oder rund fünf Milliarden Euro) pro Jahr – jedes Jahr. Der Euro wird in weit stärkerem Maße außerhalb seines Ursprungsraums genutzt, als es bei der D-Mark jemals der Fall war. Und dabei ist das Potenzial noch nicht einmal voll ausgeschöpft.
Keine Rücksicht auf Kurse
–    Der zweite Vorteil, den der Euro bringt, besteht darin, dass Unternehmen, die innerhalb der Euro-Zone tätig sind, sowohl bei der Preisfindung als auch bei der Abrechnung keine Rücksicht auf Kursschwankungen nehmen müssen. Das gilt sowohl für deutsche Unternehmen, die ins Euro-Ausland exportieren, als auch für Unternehmen aus diesen Ländern, die in Deutschland Geschäfte machen wollen. Das verringert die Transaktionskosten, was durch geringere Preise auch dem Verbraucher nützt. Darüber hinaus nimmt das Handelsvolumen zu, was wiederum zu mehr Wettbe-werb und breiterer Auswahl für die Unternehmen führt und dadurch die gesamtwirtschaftliche Produktivität stärkt.[1]
–    Als „Export-Europameister“ profitiert gerade Deutschland von diesem Stabilitätsnetzwerk und hat naturgemäß einen größeren Handlungsspielraum, seine Produkte in der heimischen Währung abzuset-zen, als dies mit der D-Mark möglich war. Das bedeutet auch, dass Geschäfte mit Produzenten außerhalb der Euro-Zone immer öfter in Euro abgewickelt werden, was dort ebenfalls zu geringeren Kosten und Risiken führt.
–    Einen dritten Vorteil stellt die Tatsache dar, dass der Euro für eine Senkung der Zinssätze für Inves-titionskredite gesorgt hat. Zugegebenermaßen war dieser Effekt in anderen Ländern stärker spürbar als in Deutschland, da die Bundesrepublik bereits vor der Euro-Einführung den nied-rigsten Risikoaufschlag auf seine Anleihen entrichten musste.
–    Jedoch hat sich durch die enorme Zunahme der in Euro gehandelten Aktien auch für Deutschland der Zugang zu Krediten vereinfacht, sowohl für Unternehmen als auch für Pri-vatanleger. Diese Zunahme ist ein direktes Ergebnis der weiten Verbreitung des Euro. Europa wird dadurch insge-samt ein attraktiverer Investitionsstandort für Fremdkapital, als dies unter dem in D-Mark gehandelten Schuldenmarkt der Fall war. Eine weitere Steigerung der Liquidität ist die Folge.[2] Diese Zugewinne lassen jede Erhöhung der Risikoprämie für deutsche oder europäische Anleihen – die größte Sorge, die sich in Deutschland aus dem Kreditausfall anderer Euro-Mitglieder ergab – relativ unbedeutend erscheinen.
–    Viertens bietet der Euro Deutschland die Möglichkeit, Amerikanern, Chinesen, Japanern oder aufsteigenden Wirtschaftsmächten in internationalen Verhandlungen auf Augenhöhe zu begegnen. Natürlich, Deutschland war Gründungsmitglied der G-5 und dann der G-7 und hat oft stellvertretend für Kontinentaleuropa gesprochen. Es wird in Zukunft allerdings in steigendem Maße des Gewichts und der Legitimität der gesamten Euro-Zone bedürfen, will die Bundesrepublik im Rahmen der G-20 oder des IWF weiterhin eine (mit-)entscheidende Rolle spielen: Ein weiteres Argument dafür, dass Deutschland sich eher für eine Ausweitung der Euro-Zone einsetzen sollte, anstatt den Wert der Gemeinschaftswährung anzuzweifeln.
–    Fünftens: Je größer eine Währungsunion ist, desto besser kann sie auf externe Währung-skrisen oder Abwertungen reagieren. Die Euro-Zone kann den Wert der gemeinsamen Währung auch in schweren globalen sowie inneren wirtschaftlichen Turbulenzen stabil hal-ten.
o    Kapitalzuflüsse, die gemessen am deutschen Wirtschaftsvolumen zu hoch gewesen wären, um die D-Mark unter den Umständen der vergangenen Jahre stabil zu halten (wie es dem „kleinen“ Schweizer Franken widerfuhr), konnten durch die schiere Größe des Euro-Raums deutlich besser absorbiert wer-den.[3] Der Euro ist groß genug, um stabil zu bleiben und sogar noch zusätzliche Kapitalzuflüsse her-vorzurufen, die, solange die Krisen ihren Ursprung außerhalb der Euro-Zone ha-ben, keine destabilisierende Wirkung auf die wirtschaftliche Entwicklung haben.
Nüchternes Kalkül
–    Natürlich musste eine große Währungsunion neben Deutschland mehr als nur den harten Kern, bestehend aus Österreich, Benelux, Finnland und, möglicherweise, Frankreich, bein-halten. Es sollte klar sein, dass diese strategische Erwägung nicht zwingend die ausschlaggebende Motivation für den Entschluss der Länder zur Teilnahme ab 1999 oder danach war, da der Maastricht-Vertrag jedem EU-Mitglied ohne „Opt-out“-Klausel langfristig einen Beitritt zur Euro-Zone abverlangt.
–    Für Deutschland stellt sich die Frage, ob die wirtschaftlichen Kosten, die mit einer vielfältigen Währungsunion verbunden sind, so hoch sind, dass sie die aus der Gemeinschaft resultierenden Vorteile überwiegen. Auch wenn es manchem schwerfallen dürfte zu akzeptieren: Die Vielfalt der Euro-Zone nutzt der deutschen Wirtschaft, unabhängig davon, was für eine Art der politischen Solidarität das Land befürwortet – oder eben nicht befürwortet.
–    Zunächst einmal stärkt die Vielfalt der Euro-Zone das Potenzial für tiefer gehende wirtschaftliche Integration. Es sind die Integration der Märkte und die damit einhergehende Ankurbelung des Wettbewerbs und der Auswahl bei gleichzeitig fallenden Kosten, die einen steten Quell an wirtschaftlichen Vorteilen für die Deutschen (und andere Europäer) darstellt.
–    Die Existenz des Euro hat es möglich gemacht, dass viele Länder in Europa, etwa Spanien und Italien, dazu in der Lage waren, mit der Wachstumsgeschwindigkeit des globalen Han-dels und der finanziellen Integration Schritt halten, anstatt zurückzufallen oder gar den An-schluss zu verlieren.
–    Das wiederum hatte einen direkten Einfluss auf die Produktivität und die Reallöhne in Deutschland, die unter anderen Vorzeichen so womöglich nicht zustande gekommen wären.
–    Trotz der Bedenken, die Angela Merkel und andere Regierungsmitglieder angesichts der mangelnden Lohnzurückhaltung in Euro-Ländern, die nicht dem Kernbereich angehören, angemeldet hatten, zeigt die Erfahrung doch, dass sich andere Mitglieder im Großen und Ganzen dem deutschen Modell der Kopplung der Löhne an das gesamtwirtschaftliche Wachstum (und manchmal leider auch darunter) angenähert haben.[4]
–    Zweitens führen Unterschiede in der wirtschaftlichen Struktur, Entwicklung und Konjunktur innerhalb der Euro-Zone zu einer Diversifizierung der Nachfragequellen für die deutsche Wirtschaft. Daraus ergibt sich ein weitaus stabilerer Wachstumsweg für Deutschland, als dies in einer wirtschaftlich weitgehend homogenen Euro-Zone der Fall wäre.
–    In Deutschland bestand lange ein Mangel an Binnennachfrage, sowohl beim Konsum als auch bei den Investitionen (der, so wie es aussieht, zum Glück überwunden zu sein scheint). In dieser Zeit sorgte die Präsenz wachsender Märkte, die eng mit der deutschen Wirtschaft verwoben waren, dafür, dass die heimische Nach-frageflaute ausgeglichen wurde.
–    Die Partnerländer der Bundesrepublik in der Euro-Zone nehmen durchschnittlich 40 Pro-zent der deutschen Exporte ab, was bedeutet, dass sie für ein Viertel des gesamten Wachstums der Nachfrage nach deutschen Produkten zwischen 2000 und 2008 verantwortlich waren.
–    Theoretisch hätte dies für Deutschland mit Kosten verbunden sein können, da die Geldpolitik der EZB zur Eindäm-mung übermäßiger Nachfrage und Inflation in anderen Staaten konsequenter hätte ausfallen können, als es einer ver-gleichsweise langsam wachsenden deutschen Wirtschaft gut getan hätte. Genau hier profitierte Deutschland von seiner Bedeutung als europäische Wirtschaftslokomotive. Es existiert kein empirischer Hinweis darauf, dass sich die Geldpolitik der EZB fundamental von jener unterschied, die die Bundesbank für Deutschland allein angewandt hätte – wenn überhaupt, dann war die Geldpolitik der EZB in der Rückschau für die Länder am Rande der Euro-Zone sogar noch zu expansiv.
Exporteure als Profiteure
–    Eine damit verbundene und vermutlich noch wichtigere Tatsache ist, dass Deutschland direkt von der Stabilität profit-iert, die der Euro den umliegenden Ländern gewährt – was die südliche Hälfte der Euro-Zone mit einschließt. Deutschland verfügt über einen Handelsüberschuss mit Ländern, die es sich unter anderen Umständen gar nicht hätten leisten können, so viele deutsche Produkte zu importieren, wie sie es tun.
–    Es kann nicht schaden, daran zu erinnern, was 1992 und 1995 geschah, als sich die übrigen Länder Europas zum letzten Mal in der Situation befanden, sich beim realen Wechselkurs gegenüber der D-Mark keine steigende Nachfrage nach Produkten „Made in Germany“ mehr erlauben zu können. Eine deutliche und abrupte nominale Ab-wertung gegenüber der D-Mark war die Folge, welche der deutschen Exportfähigkeit einen heftigen Dämpfer versetzte und sich dadurch wiederum negativ auf die „abwertenden“ Volkswirtschaften niederschlug. Es waren „Lose-Lose“-Situationen, deren erneutem Auftauchen der Euro nun vorbeugt.
–    Man vergleiche dies mit der aktuellen Krise, in der die Aufgabe, Handelsungleichgewichte in-nerhalb der Euro-Zone auszugleichen, den Defizitländern auferlegt wird und mit keiner Währung-saufwertung für Deutschland verbunden ist.
–    Natürlich, in seiner Derzeitigen extremen Form ist dies weit davon entfernt, für Deutschland der Idealzustand zu sein. Zudem stellt es eine Gefahr für die Volkswirtschaften der Defizitländer dar und ist daher auch höchstwahrscheinlich nicht mehr lange tragbar.[5]
–    Aber ein Blick auf die derzeitige Verteilung der Gewinne zeigt, wie groß der wirtschaftliche Profit ist, den Deutschland aus der Eingebundenheit wichtiger Handelspartner in den Euro-Raum schlagen kann: Stabilität für Deutschlands Exporteure in Sachen Nachfrage und Preise.
Euro und Eigeninteresse
–    Die Euro-Krise lässt sich in den Griff bekommen, wenn, und so wird es wahrscheinlich geschehen, eine Umschuldung (unter anderem Namen) Teil des zusammen mit den Sparmaßnahmen beschlossenen Finanzierungspakets sein wird.
–    Neben den traditionell zähen Verhandlungen und der, vor allem im Frühjahr 2010, beinahe außer Kontrolle geratenen Umsetzung, ist die entscheidende Frage die nach dem Willen der deutschen Regierung, das Problem zu lösen.
–    Angela Merkel hat keinen Zweifel daran gelassen, dass ihre Regierung dazu entschlossen ist, wenngleich zähneknirschend. Es sollte kein unlösbares Problem sein, für eine solche Entschlossenheit sowohl bei der Regierung als auch bei der Bevölkerung zu sorgen. Denn eine große und vielfältige Euro-Zone liegt in Deutschlands ureigenstem Interesse, wie eng auch immer man dieses inter-pretieren mag. Diese Einsicht dürfte allerdings in einigen Teilen der deutschen Gesellschaft nur schwer zu vermitteln sein.
–    Ein besseres Verständnis der Vorteile, die Deutschland aus der Währungsunion zieht, sollte nicht nur die unmittelbare Krisenbewältigung erleichtern, sondern auch Handlungsanweisun-gen für eine langfristige Stabilisierung des Euro liefern.
–    Der derzeitige Ansatz, alle Angleichungsmechanismen auf die Reallöhne der Defizitländer abzuwälzen, ist selbstzerstörerisch,
o    denn die deutsche Wirtschaft profitiert von der Tatsache, dass es ihr gelingt, gegenüber ihren Nachbarn einen konstanten Handelsüberschuss einzufahren, speziell in Zeiten globaler Flaute.
–    Sie zieht überdies unmittelbaren Nutzen daraus, dass ihre Staatskasse und damit der finan-zielle Grundstock aller deutschen Unternehmen und Verbraucher durch die europäische Währungsunion unterfüttert ist. Diese schützt sie vor Kursschwankungen und größeren Einbrüchen bei der Wettbewerbsfähigkeit, indem sie den weniger solide aufgestellten Nachbarn ein Fortkommen ermöglicht.
–    Deutschland entrichtet seinem politischen Europa-Engagement keinerlei ökonomischen Tribut. Daher ist es im deutschen Interesse, jenen Ländern finanzielle Unterstützung zu gewähren, die ihre Haushalte in den letzten Jahren nicht zuletzt durch den Konsum deutscher Produkte überdehnt haben. Dies wird die Märkte offen halten und Wachstumseinbrüchen auf beiden Seiten vorbeugen.
–    Die dem zugrunde liegende Logik ist die gleiche wie beim so genannten „Transferproblem“, welchem sich Deutschland, damals als Schuldner, im Zuge des Versailler Vertrags ausgesetzt sah, als es auf einem riesigen Schul-denberg, gepaart mit Reparationsforderungen und bei festgelegtem Wechselkurs, saß.
–    Die Alliierten mussten Schulden umschichten und Deutschland erlauben, genügend Pro-dukte absetzen zu können, um wenigstens die schon geminderten Schulden bedienen zu können – zudem unter der Vorgabe strenger Sparmaßnahmen. Deutschland schlicht zu sagen, dass es mehr sparen muss, wäre für die damaligen Gläubiger finanziell nutzlos und vermutlich politisch verheerend gewesen.
–    Eine vergleichbare Konstellation besteht heute zwischen den Kern-Euro-Ländern und ihren Schuldnern, also Griechenland, Irland, Portugal und Spanien, glücklicherweise unter gänzlich anderen politischen Voraussetzungen.
–    Eine Kombination aus gesteigerter deutscher Binnennachfrage (inklusive Lohnerhöhungen für Be-schäftigte), weiteren Kapitalflüssen in die krisengeschüttelten Teile Europas, Anerkennung der Verluste deutscher Banken durch Darlehen an die Peripherie der Euro-Zone (also die fakti-sche Rekapitalisierung deutscher Banken) und aus Steuertransfers ist das Gebot der Stunde. Manches davon ist erfreulicherweise bereits Realität, anderes wiederum muss zur langfristigen Strategie werden, anstatt als kurzfristige Krisenreaktion bloßes Stückwerk zu bleiben. Eine erweiterte Euro-Zone liegt so unmittelbar in Deutsch-lands Interesse, dass sich die Anstrengung lohnt.
Den angeblichen „Sündern“ der Euro-Zone eine übermäßige Konformität mit ökonomischen Leitsätzen und Strukturen aufzuzwingen, würde sich langfristig rächen. Wie erfolgreich ein solches Programm zunächst auch sein mag, es würde die Vorteile, die Deutschland aus seiner Euro-Mitgliedschaft und Schlüsselposition zieht, deutlich schmälern. Ein wohlwollender und unterstützender Ansatz, der den ge-steigerten (aber immer noch geringen) Steuertransfer und die Herausgabe strengen Auflagen unterliegender Euro-Bonds bein-halten würde, kann als Investition in die zukünftige Attraktivität des Euro für potenzielle neue Mitglieder betrachtet werden. Und mehr Mitglieder, die wiederum mehr Vielfalt in die Euro-Zone bringen, würden Deutschlands Nutzen aus dieser Wäh-rungsunion weiter steigern.
Prof. Dr. ADAM POSEN ist Senior Fellow am Peterson Institute for International Economics in Washington, DC.
[1] Siehe Andrew Rose: One money, one market: the effect of common currencies on trade, Economic Policy, April 2000, Seite 7–46; Richard Baldwin: The Euro’s Trade Effects, ECB Working Paper Nr. 594, März 2006.
 
[2] Siehe die Artikel zur finanziellen Integration in Jean Pisani-Ferry und Adam Posen (Hrsg.): The Euro at Ten: The Next Global Currency?, Brüssel, Juni 2009.
[3] Martin Wolf: Germans are wrong: the eurozone is good for them, Financial Times, 7.9. 2010.
[4] Adam S. Posen und Daniel Popov Gould: Has EMU had any impact on the degree of wage restraint?, in David Cobham (Hrsg.): The Travails of the Eurozone, Palgrave 2007.
[5] Siehe Barry Eichengreen: Jämmerliches Versagen, Handelsblatt, 1.12.2010; Adam Posen: Germany’s Chinese New Year and What to Do About It, Eurointelligence Syndicate, 19.2.2010; Gabor Steingart: Versailles ohne Krieg, Handelsblatt, 19.11.2010.
 
INTERNATIONALEPOLITIK    120101
ANDIAMO ANCORA AVANTI – QUANTO POCO SINCRONISMO C’È IN EUROPA
Wir gehen dann schon mal vor – Wie viel Ungleichzeitigkeit verträgt Europa?
01.01.2012 | von Almut Möller
Internationale Politik 1, Januar/ Februar 2012, S. 20-26
Kategorie: Europäische Union, Europa
–    Krisen begleiten die Entwicklung der Europäischen Union[e] seit jeher. Doch die jüngsten Er-eignisse stellen das Projekt Europa ernsthaft auf die Probe. Die Union[e] erfindet sich in der Krise neu. Sie hat keine andere Wahl. Ihr Gesicht wird am Ende dieses Prozesses ein anderes sein: Kerneu-ropa nimmt Gestalt an.
–    Der europäische Einigungsprozess ist „an einen kritischen Punkt seiner Entwicklung gelangt“. Die Institutionen seien überdehnt, die Interessen klafften immer stärker auseinander.
–    In allen EU-Ländern sei ein „tiefer wirtschaftsstruktureller Wandel“ zu meistern, der zur „umfassenden Zivilisations-krise der westlichen Gesellschaften“ gehöre, und fast überall in der Union[e] komme es zu einem „regressiven Natio-nalismus“ sowie einer „sehr starken Inanspruchnahme“ und Schwächung nationaler Regierungen und Parlamente.
–    Eine Analyse der Lage in Europa vom Dezember 2011? Weit gefehlt. Es handelt sich um einen Auszug aus dem Schäuble-Lamers-Papier aus dem Jahre 1994, in dem der damaligem CDU-Fraktionsvorsitzende Wolfgang Schäuble und der außenpolitische Sprecher der Fraktion Karl Lamers die Konturen eines „Kerneuropa“ skizzierten.1 Die europapolitische Ausgangslage, zu Beginn des Papiers geschildert, ist in wesentlichen Aspekten auch auf die heutige Lage anwendbar. Allerdings hat sie sich seitdem deutlich zugespitzt.
–    Dass Europa „verschiedene Geschwindigkeiten“ benötige, schrieb damals auch der Politikwissenschaftler Josef Janning in dieser Zeitschrift.2 Erst kurz zuvor war die Europäische Ge-meinschaft mit dem Vertrag von Maastricht zur „Union[e]“ geworden, deren zwölf Mitglieder intensiv darüber diskutierten, wie sich das Zusammenwachsen des Kontinents nach dem Fall des Eisernen Vorhangs organisieren ließe: Wie könnte man mögliche Erweiterungen mit der in Maastricht beschlossenen Vertiefung der Integration in Einklang bringen?
Idee mit Sprengkraft
–    Unter den Vorschlägen von Schäuble und Lamers nimmt die Festigung eines Kerns integra-tionswilliger EU-Länder eine zentrale Stellung ein. Diese Länder, allen voran Deutschland und Frank-reich, hätten die Aufgabe, „den zentrifugalen Kräften in der immer größer werdenden Union[e] ein starkes Zentrum entgegenzustellen“ – insbesondere in der Wirtschafts-, Finanz- und Sozialpolitik.
–    Heute ist Wolfgang Schäuble als Bundesfinanzminister einer der entscheidenden Protagonisten bei der Bewältigung der Krise der Europäischen Union[e] – und diese hat soeben den Schritt in Richtung Kerneuropa gemacht. Die 17 Länder der Euro-Zone haben unter dem Druck der Finanzmärkte beschlossen, einen neuen Vertrag abzuschließen, der zu einer echten Wirtschafts- und Währungsunion führen soll.
–    Ganz neu war die Idee, Vertiefung und Erweiterung durch „verschiedene Geschwindigkeiten“ in Einklang zu bringen, schon in den neunziger Jahren nicht. Sie besaß aber damals wie heute Sprengkraft. Hartnäckig hält sich das Ideal der EU als einheitlicher Rechtsgemeinschaft mit einem gemein-schaft­lichen Besitzstand („Acquis communautaire“). Differenzierung gilt als notwendiges, zeitlich begrenztes Übel, ist jedoch noch kein akzeptiertes aktives Gestaltungsprinzip.
–    Natürlich, mit dem Euro und dem Schengen-Abkommen haben wir Beispiele für Differenzierung in zentralen Berei-chen der Integration. Und in den EU-Verträgen finden sich Instrumente, die explizit zur Differenzierung geschaffen wurden, etwa die „verstärkte Zusammenarbeit“. Aber die Perspektive eines „Europa der verschiedenen Geschwindigkeiten“ und das damit verbundene Nebeneinander unterschiedlicher rechtlicher Re-geln gilt nicht nur Europarechtlern, sondern auch vielen Europapolitikern als bedenkliche Entwicklung. Einer differenzierten Union[e], so die Befürchtung, drohe rechtliche Zerfaserung, die politische Ausgrenzung einzelner Länder und das Ende der Einheit.
–    Wie viel Ungleichzeitigkeit verträgt eine „immer engere Union[e] der Völker“? Diese Frage ist durchaus berechtigt. Es ist ein Balanceakt, einen hinreichenden Stand des „Gemeinsamen“ in der Un-ion[e] zu bewahren und zu verhindern, dass miteinander konkurrierende Systeme entstehen, die eine gemeinsame Stoßrichtung unmöglich machen und die Europäische Union[e] als Ganzes schwächen.
In diesen Tagen stellt sich die Frage nach dem „wie viel“ an unterschiedlichen Geschwindigkeiten mit neuer Dringlichkeit. Was ist, wenn die Zukunft der Europäischen Union[e] auf dem Spiel steht? Wenn das Ende der gemeinsamen Währung droht? Wenn die Fliehkräfte so stark sind, dass die Dämme brechen und die Union[e] auseinanderfällt? Ist dann nicht das Voran-schreiten einer Gruppe von EU-Ländern geradezu geboten, auch wenn so einige Gewissheiten der Vergangenheit über Bord geworfen werden müssen?
–    Differenzierung als Flucht nach vorn? Aus integrations­politischer Sicht ist das die entscheidende Frage der Euro-Krise. Noch nie in der Geschichte der europäischen Integration stand die Union[e] als Modell dermaßen unter Druck. Kommt jetzt Kerneuropa, weil Kerneuropa kommen muss?3
–    Nun ist Differenzierung in der EU tatsächlich nichts Neues. Wie das „Europa der verschiedenen Geschwindigkeiten“ seit den neunziger Jahren an Boden gewann, dafür liefert die Geschichte des Euro das beste Beispiel. Der Eifer allerdings, mit dem die Regierungsvertreter in Berlin derzeit auf diese Kontinuität hinweisen, lässt die Frage aufkommen, ob hier rhetorisch abgeschwächt und verhüllt werden soll, dass wir es mit einer neuen Qualität zu tun ha-ben und durch den Reformprozess der Euro-Zone eine völlig neue Union[e] geschaffen wird.
–    Erinnert sei an die Humboldt-Rede des damaligen deutschen Außenministers Joschka Fischer aus dem Jahre 2000, in der dieser prognostiziert hatte: „Dann wird, getrieben durch den Druck der Verhältnisse und der von ihnen ausgelösten Krisen, die EU innerhalb der nächsten Dekade irgendwann vor der Al-ternative stehen:
o    Springt eine Mehrheit der Mitgliedstaaten in die volle Integration und einigt sich auf einen europäischen Verfassungsvertrag zur Gründung einer Europäischen Föderation?
o    Oder, wenn dies nicht geschieht, wird eine kleinere Gruppe von Mitgliedstaaten als Avantgarde diesen Weg vorausgehen, d.h. ein Gravitationszentrum aus einigen Staaten bil-den, die aus tiefer europäischer Überzeugung heraus bereit und in der Lage sind, mit der politischen Integration voranzuschreiten?“4
–    Diesen Schritt zu mehr politischer Integration haben die 17 Euro-Länder nun vollzogen – nicht weil sie von integrationistischen Überzeugungen getrieben waren, sondern aus schlichter Notwendigkeit. In den vergangenen Jahren haben Europas Regierungen wiederholt versichert, dass die Europäische Union[e] und die gemeinsame Währung ein Bollwerk gegen die Schattenseiten der Globalisierung sein sollten. Nun sind die Euro-Länder in der Realität angekommen – und müssen als Nationalstaaten lernen, weite Kernbereiche staatlicher Souveränität miteinander und mit den Brüsseler Institutionen zu teilen.
–    Bemerkenswert ist dabei, dass es sich bei diesem „Kern“ keineswegs nur um willige und fähige Euro-Länder handelt – Länder wie Griechenland oder Irland wünschten sich vielleicht ins-geheim, der Gruppe der Vorreiter nicht angehören zu müssen. Neben einer ganzen Reihe weiterer Fragen, die sich in den kommenden Monaten stellen werden, ist dies sicher ein entscheidendes Problem: Was pas-siert, wenn der „Kern“ sich dauerhaft als nicht gesund erweist?
Panzerfaust auf Europäisch
–    Bereits seit den Beschlüssen des Euro-Gipfels vom 27. Oktober 2011 ist die Marschrichtung klar. Die (noch) 17 Euro-Länder schließen sich enger zusammen, festigen eigene Institutionen und Verfahren und grenzen sich dabei sehr viel deutlicher als bisher von den Nicht-Euro-Ländern ab. Die Wirtschaftsunion soll vertieft, die Überwachung der nationalen Haushalte gestärkt werden.
–    Ein „Euro-Gipfel“ bestehend aus den Staats- und Regierungschefs der Euro-Länder und dem Präsidenten der EU-Kommission wurde offiziell etabliert; er soll mindestens zwei Mal im Jahr tagen, vermutlich sehr viel häufiger. Den Vorsitz in diesem Gremium hat vorerst Herman Van Rompuy übernommen, bis ein Präsident für den Euro-Gipfel benannt ist. Dieser soll dann auch dafür Sorge tragen, dass die Nicht-Euro-Länder über die Diskussionen und Beschlüsse künftiger Euro-Gipfel informiert werden.
–    Neun von den zehn Nicht-Euro-Ländern haben Interesse bekundet, sich dem Vertrag über die neue Architektur der Wirtschafts- und Währungsunion anzuschließen. Momentan ist offen, ob diese Zusage tatsächlich eingelöst werden kann, denn nationale Parlamente werden in dieser Frage mitent­scheiden.
–    Aber selbst wenn sich die Nicht-Euro-Länder dem neuen Vertrag anschließen, kann dies nicht darüber hinwegtäuschen, dass die Trennlinie de facto nicht zwischen 26 EU-Ländern und Großbritannien, sondern zwischen den 17 Euro-Ländern und dem Rest verläuft. Zwar bemühen sich die Bundesregierung und ihre Partner in der EU momentan, das Thema einer drohenden Spaltung der Union[e] zu entdramatisieren, indem sie immer wieder die Zahl 26 und nicht 17 ins Spiel bringen – in der Praxis aber wird die 17 sehr viel relevanter sein.
–    Großbritannien ist das einzige Land, das schon zum jetzigen Zeitpunkt klar Position be-zogen und jede Beteiligung an den neuen Regelungen kategorisch abgelehnt hat. Dies ist auch der Grund dafür, warum die Euro-Länder ihre neuen Regeln nicht auf der Grundlage des Vertrags von Lissabon mit Unterstützung aller 27 EU-Länder organisieren konnten. Stattdessen mussten sie auf das Modell eines neuen Vertrags ausweichen, der zunächst neben dem Vertrag von Lissabon stehen wird.
–    Die schon bei der Errichtung des Europäischen Rettungsfonds (EFSF) und des Europäischen Stabilitätsmechanismus (ESM) erfolgte Einigung auf völkerrechtliche Verträge außerhalb des Vertrags von Lissabon setzt sich damit fort. Diese Entwicklung bedeutet nicht nur, dass die Rechtsgrundlagen für die EU noch komplexer werden. Es stellt sich auch immer stärker die Frage, wie sich der Acquis communautaire in Zukunft zum Acquis differencié verhält.
–    Dieser Schritt ist mit ganz praktischen Folgefragen verbunden: Ist es möglich, die EU-Institutionen für die Umsetzung der Ziele des neuen Vertrags zu nutzen? Großbritannien hat auch hier bereits Widerstand angekündigt. Falls die EU-Institutionen dennoch zum Zuge kommen, werden dann nur die Ver-treter beteiligt, deren Länder den Vertrag ratifiziert haben? Im Detail sind hier noch einige Fragen offen.
–    Es deutet sich jedoch schon jetzt an, dass die geforderte zeitlich und inhaltlich begrenzte „schnelle Reform“ eine Illusion bleiben wird. Seit dem Dezember-Gipfel 2011 sind grundlegende Richtungsfragen der europäischen Integration auf dem Verhandlungstisch, bei denen Parlamente ebenso werden mitreden wollen wie die Vertreter von Wirtschaft und Zivilgesellschaft.
–    Die jüngsten Beschlüsse zur Stärkung der Governance der Euro-Zone sind sicher nicht die „Ba-zooka“, die der britische Premier David Cameron im Kampf gegen den Druck der Finanzmärkte im Sinn hatte. Aber sie sind eine Art „Panzerfaust auf Europäisch“, da sie eine neue Zentrum-Peripherie-Logik etablieren und letztlich zu einer völlig neuen Union[e] führen könnten. Abgesehen davon, wie die „neue“ Euro-Zone im Detail organisiert wird – hier soll es bis März 2012 Klarheit geben – und abgesehen von der Frage, ob sie mit diesen Maßnahmen tatsächlich auf ein solides Fundament gestellt werden kann, ist eines schon jetzt klar: Das Verhältnis zwischen den „ins“ und „outs“ der Euro-Zone droht zur neuen Trennlinie in der EU zu werden. Denn der wesentliche Unterschied zwischen der neuen Euro-Zone und den schon heute praktizierten Formen der unterschiedlichen Geschwindigkeiten liegt darin, dass es sich um eine neue Qualität der abgestuften Integration handelt, die die Unterschiede zwischen den „ins“ und den „outs“ möglicherweise in Zukunft dermaßen verstärkt, dass Kern und Peripherie sich zu weit voneinander entfernen.
–    Um eine Zerfaserung der EU zu verhindern, werden die Euro-Länder weiter beteuern, dass sie sich nicht als exklusiver Club verstehen, sondern in ihren Entscheidungsprozessen auch gegenüber Nicht-Euro-Ländern transparent und jeder-zeit offen für neue Mitglieder sind, sofern die Beitrittskriterien zum Euro erfüllt sind. Laut Vertrag ist die Euro-Zone ohnehin auf ein Anwachsen ihrer Mitglieder angelegt (lediglich Großbritannien und Dänemark haben ein Opting-out). Dennoch bleibt die Frage, wie in der Zwischenzeit das Verhältnis zwischen den Euro- und den übrigen EU-Ländern organisiert wird. Eine Spaltung der Union[e] lässt sich langfristig ebenso wenig ausschließen wie die Perspektive einer Euro-Zone, die umgeben ist von einer losen Peripherie, in die auch Länder wie die Türkei oder die Ukraine einbezogen werden. Aber das ist Zukunftsmusik.
An der Grenze der Anpassungsfähigkeit
–    Zunächst ist mit den Gipfelbeschlüssen des ausgehenden Jahres 2011 auch das leidige Thema Vertragsreform zurück-gekehrt. Die Union[e] tritt in eine neue Runde der Änderung und Erweiterung ihrer rechtlichen Grundlagen ein – das war noch vor wenigen Jahren tabu. Noch sehr präsent ist die Hängepartie der Reform des Vertrags von Nizza, die mit dem Umweg über den Verfassungsentwurf bis hin zum Vertrag von Lissabon im Jahre 2009 fast ein Jahrzehnt gedauert hat. Die Europäische Union[e] war schon damals an die Grenze ihrer Anpassungsfähigkeit gelangt, weil die EU-Länder nur noch unter enormen Anstrengungen in der Lage waren, die recht-lichen Grundlagen ihrer Zusammenarbeit an neue Herausforderungen anzupassen.
–    Einigkeit unter 27 EU-Ländern herzustellen ist inzwischen lediglich die erste große Hürde, gefolgt von Verfassungs-gerichten, nationalen Parlamenten, Referenden. Bereits an dieser ersten Hürde ist die EU auf dem Gipfel im Dezember 2011 gescheitert. Ein Vertrag außerhalb des Vertrags von Lissabon soll jetzt die Lösung bringen. Auch diesmal wird dessen Unterzeichnung Einstimmigkeit und eine Ratifizierung in jedem Unter-zeichnerstaat erfordern. Die Euro-Länder haben sich einen ehrgeizigen Zeitplan vorgenommen. Der neue Ver-trag soll spätestens bis März 2012 verabschiedet werden. Doch schon dies ist vermutlich kaum machbar. Und dann stehen erneut Ratifizierungen in den nationalen Parlamenten oder Ref-erenden an. Eine neue Hängepartie droht.
–    Eines haben die Euro-Länder jedoch in der gegenwärtigen Lage nicht: Zeit. Ist die alte Dame Demokratie zu langsam für die globalisierten Märkte? Wie kann ein notwendiger fundamen-taler Integrationsschritt unter Zeitdruck organisiert werden, wenn die bestehenden Verfahren dies nicht hergeben? Wie können Reformschritte auch in Zukunft demokratisch legitimiert werden? Oft wird in der öf-fentlichen Debatte übersehen, dass die Union[e] in diesen Monaten unter doppeltem Druck arbeitet: Sie muss die akuten Krisensymptome bekämpfen, arbeitet dabei aber gleichzeitig mit einem unvollendeten System.
–    Parallel muss sie deshalb auch die Grundlagen der Wirtschafts- und Währungsunion reformie-ren. Steht das europäische Mehrebenensystem vor der totalen Überforderung? Noch nie hat sich diese Frage so drängend gestellt wie heute. Fürs Erste aber bereiten sich die Euro-Länder auf die nächste Runde ihrer institutionellen Weiterentwicklung vor. Das Gesicht der Europäischen Union[e] wird am Ende dieses Prozesses ein anderes sein: Kerneuropa nimmt Gestalt an. Die Union[e] erfindet sich in der Krise neu. Sie hat keine andere Wahl.
ALMUT MÖLLER ist Leiterin des Alfred von Oppenheim-Zentrums für Europäische Zukunftsfragen im Forschungsinstitut der DGAP.

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