Cina, India : l'offensiva internazionale

  • L’emergere dei gruppi cinesi all’estero è il frutto
    dell’afflusso in Cina di multinazionali di tutto il mondo, che vi riversano
    60MD di IED l’anno e acquistano sempre più società cinesi:
  • il governo cinese cerca di lanciare le sue truppe
    sull’arena internazionale per renderle più competitive sul proprio mercato à
    campagna del 2003 “Go Global, e attuata soprattutto per i settori strategici
    chiusi agli investitori esteri, Tlc, armamento, energia), dall’agenzia statale
    Sasac, incaricata di orchestrare il “rinnovamento” di 161 imprese in 30-50
    gruppi competitivi a livello internazionale.

Ma per il resto, nonostante la retorica nazionalistica, il
governo cinese si limita a seguire più che a coordinare agli investitori cinesi
all’estero, e non è ancora in grado d fornire l’appoggio e le condizioni che
hanno consentito di svilupparsi ai gruppi giapponesi e coreani, che poterono
realizzare forti margini sul mercato interno grazie alle misure
protezionistiche statali.

  • La Cina
    cerca anche di diversificare le sue grandi riserve valutarie ($1
    trilione
    per lo più investititi in Buoni del tesoro americani): ha
    creato una struttura per gli investimenti internazionali come Temasek Holdings
    a Singapore.
  • Il gruppo di
    consulenza strategica Boston Consulting pone almeno 44 gruppi cinesi tra i
    100 nuovi sfidanti globali provenienti dai paesi in rapido sviluppo
    .
  • In forte
    crescita gli Investimenti Esteri Diretti 
    (IED) cinesi:
    • 2005, $12,3MD, +123% su 2004;
    • 2006, $15-20MD;
    • la stampa ufficiale prevede x3 o x4 il flusso annuale
      dei sino-dollari da oggi al 2010,
    • ma una parte dei IED cinesi torna in Cina dopo
      essere passata per Hongkong o altri paradisi fiscali
      ;
    • l’ex colonia britannica Hongkong, che continua
      ad essere contabilizzata separatamente dalla Cina, con $32MD di IED nel 2005
      (dati Cnuced), è una piattaforma per l’estero usata dai gruppi cinesi che vi
      hanno sede
      ; partono da qui le operazioni all’estero di gruppi statali o
      semistatali cinesi, come Lenovo
      (acquisto d’IBM nel 2005) o Cnooc (petrolio
      offshore);
    • nel 2005 gli IED che partono da Hongkong erano solo
      l’1,6% del totale mondiale
      , ma per l’Asia superavano già quelli da Singapore e Corea del Sud,
      ma erano inferiori ai $40 di IED del Giappone.

Grandi acquisizioni tentate dai gruppi cinesi :

  • Il gigante
    cinese della telefonia mobile, China mobile, ha avanzato un’offerta di €4MD),
    la maggiore finora di un gruppo cinese all’estero, ritenuta però insufficiente,
    per acquisire il gruppo lussemburghese Milicom; se fosse riuscita l’operazione
    avrebbe consentito ai cinesi di entrare nei mercati emergenti di Africa,
    America Latina e Asia;
  • già nel 2005
    China Mobile aveva tentato senza riuscire di entrare nel capitale
    dell’operatore pachistano PTCL.
  • il gruppo di
    componentistica Wanxiang è divenuto uno dei maggiori fornitori di VW e GM
    fabbricate in Cina;
  • SIPG, la
    società che gestisce il porto di Shanghai
    sta negoziando l’acquisizione
    del 40% dell’operatore di terminal portuali de Zeebrugge (Belgio)
    ; SIPG
    avrebbe €1MD a disposizione per acquisizioni all’estero fino al 2010.
  • Nell’ottobre
    2006 la giapponese MSK Solar è stata acquistata dal suo cliente
    cinese Suntech Power,
    leader in Cina per i pannelli solari, fondata nel
    2001 da uno studente cinese tornato dall’Australia…
  • La strategia
    di approvvigionamento delle risorse naturali è guidata centralmente: nel
    solo 2006
    le tre maggiori società petrolifere, PetroChina (filiale a
    Hongkong di CNPC), Sinopec, Cnooc e l’istituzione pubblica Citic
    hanno annunciato IED per oltre $10MD,
  • di cui due
    grandi acquisizioni in Russia (Udmurtneft) e in Kazakistan (tramite l’acquisto
    della canadese Nations Energy).

Zhibin Gu, consulente specialista sulla Cina di Shenzen:

i problemi dei gruppi cinesi di fronte al processo di
internazionalizzazione:

  • non hanno
    basi solide, per la maggior parte sono indebitati;
  • si
    sviluppano su un mercato interno spesso saturo e anarchico;
  • quelli
    privati mancano di trasparenza, come difesa contro la burocratizzazione;
  • sono esposti
    all’arbitrio di uno “Stato-partito”
  • l’incertezza
    della proprietà: oltre allo Stato possono essere azionisti dei grandi gruppi
    pubblici anche regioni e comuni;
  • sono spesso
    scollegati dai mercati finanziari (diversamente dai gruppi indiani), e meno
    sottomessi alle esigenze dell’azionariato;
  • mancano di
    esperienza internazionale e di capacità manageriale, solo 60 sulle 500 maggiori
    imprese cinesi sarebbero pronte per l’internazionalizzazione (ricerca di IBV
    China, IBM Institute for Business Value).
  • Ma: i gruppi
    cinesi che sopravvivranno alla doppia competizione sul mercato cinese e
    internazionale saranno temibili.

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Le Monde            070116

Nel 2006 la Cina ha attirato circa 50 miliardi di euro
di investimenti esteri

Gli IED non finanziari in Cina nel 2006, hanno raggiunto i
$63,021 MD, 8circa €50MD), + 4,5% su 2005, dopo un -0,5% nel 2004.

Aggiungendo il settore finanziario (che assume il segno -)
gli IED sono calati del 4,06%, sul 2005, pari a $69,47 MD.

Dopo l’autorizzazione agli investimenti esteri del 1980, il
PIL cinese x10.

La Cina vuole attirare soprattutto competenze e tecnologia,
(date le sue enormi non ha bisogno di capitali, riserve monetarie), e allo
scopo saranno ridotte le imposte e accelerate le procedure di approvazine degli
investimenti nelle province di Sichuan e Yunnan, invece che a Shanghai e nella
zona industriale del Fiume delle perle.
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Le Monde            070110

Chine, Inde : l’offensive internationale 

Les entreprises chinoises multiplient et diversifient
leurs acquisitions à l’étranger.
Cette expansion ne va pas sans risque ni échec et les pousse à améliorer
leurs capacités de management. Les groupes indiens font de même, dopés financièrement par la
bonne santé de leur marché intérieur. 

SHANGHAÏ
CORRESPONDANT

–    Si
elle avait abouti
, l’acquisition, par China Mobile, du fournisseur
de services de téléphonie luxembourgeois Millicom aurait été, à 5,3
milliards de dollars (4 milliards d’euros), la plus élevée jamais réalisée par
une société chinoise à l’étranger
. Elle aurait
permis au numéro un de la téléphonie mobile chinoise
de prendre pied sur les
marchés émergents d’Afrique, d’Amérique latine et d’Asie
, où règne
l’opérateur luxembourgeois
.

Millicom a jugé l’offre
insuffisante
, et China
Mobile, qui en 2005 a tenté sans succès d’entrer dans le capital de
l’opérateur pakistanais PTCL,
est désormais en quête d’une autre proie.

–    Tout comme l’équipementier Wanxiang,
devenu, à la faveur de l’explosion du marché automobile chinois, un fournisseur
de premier plan pour les véhicules Volkswagen et General Motors fabriqués en
Chine
: après avoir reniflé les restes de l’américain Delphi, ce groupe
privé s’intéresserait à des actifs dont Ford souhaite se défaire.

–    SIPG,
la société gérant le port de Shanghaï – le troisième au monde pour les
conteneurs
-, est en
discussion pour acquérir 40 % de l’opérateur des terminaux portuaires de
Zeebrugge
(Belgique). Son président a déclaré à la presse chinoise avoir
provisionné l’équivalent
de 1 milliard d’euros en vue de prises de participation à l’étranger, d’ici à
2010.

–    Au mois d’août 2006, c’est la société japonaise MSK
Solar, un fabricant de modules photovoltaïques, qui était rachetée par son
client Suntech Power, le leader chinois du panneau solaire. Fondée en 2001 par
un étudiant en sciences revenu d’Australie
, Suntech a pu lever les fonds
nécessaires à l’opération grâce à son entrée à la Bourse de New York, en 2005.

–    Dans un rapport récent, le groupe de conseil en
stratégie Boston Consulting Group ne place pas moins de 44 groupes chinois
parmi les 100 nouveaux "challengers globaux" en provenance des
"pays en développement rapide
", dont BYD Co., un gros
fabricant de batteries qui se lance dans l’automobile.

De plus en plus
visible, la présence des entreprises chinoises à l’étranger défraie la
chronique et fait ressurgir la peur du péril jaune. Pressés, les groupes chinois privilégient
l’acquisition d’actifs ou de sociétés existantes, selon qu’ils cherchent à
sécuriser des approvisionnements en ressources naturelles, à acquérir un
savoir-faire et une image de marque, ou à racheter un concurrent ou un
fournisseur
.

–    Principal indicateur de ce phénomène, l’investissement direct chinois
vers l’étranger (ID) est en hausse rapide : en 2005, il a atteint 12,3
milliards de dollars, soit un bond de 123 % par rapport à 2004. En 2006, il
devrait osciller entre 15 et 20 milliards de dollars. La presse officielle
chinoise évoque même un doublement ou un triplement du flux annuel sortant de
"sino-dollars" d’ici à 2010.

–    Le calcul des investissements directs sortants chinois (ID) est
toutefois malaisé
: une partie d’entre eux reviennent en Chine après
avoir transité par Hongkong ou des paradis fiscaux.

–    En revanche, l’ex-colonie britannique, qui continue d’être
comptabilisée séparément de la Chine dans les statistiques, est, avec 32
milliards de dollars d’ID sortants en 2005 d’après la Conférence des Nations
unies sur le commerce et le développement (Cnuced), une plate-forme de choix
vers l’extérieur pour les groupes chinois qui y ont leur siège
. Ainsi,
c’est dans les ID sortants d’Hongkong que sont comptabilisées une partie des
opérations menées à l’étranger par les sociétés publiques ou semi-publiques chinoises,
comme Lenovo (rachat d’IBM en 2005) ou Cnooc (pétrole offshore).

–    En pourcentage, les ID chinois sortants (hors Hongkong)
représentaient à peine 1,6 % du total mondial en 2005
, mais en Asie ils
dépassent déjà, en flux, ceux de Singapour ou de la Corée du Sud, tout en
restant inférieurs à ceux du Japon (40 milliards de dollars en 2005).

–    A bien des égards, l’émergence des groupes chinois à l’étranger est
une résultante de l’afflux en Chine des multinationales du monde entier, qui y
déversent 60 milliards de dollars d’investissements annuels et font main basse
sur un nombre croissant de sociétés locales
, souvent les meilleures : le
gouvernement chinois est conscient qu’il lui faut lancer ses troupes dans
l’arène internationale afin de les rendre plus compétitives sur leur propre
marché.

–    Tel
est l’objectif de la
campagne
"go global" ("devenez globaux"), initiée en 2003
et mise en oeuvre essentiellement dans
les secteurs
stratégiques partiellement fermés aux investisseurs étrangers – comme les télécommunications,
l’armement ou l’énergie
par la Sasac (State Assets Supervision and Administration Commission).
Cette agence d’Etat est chargée d’orchestrer la mue des 161 entreprises qu’elle
contrôle en "30 à 50 groupes compétitifs au niveau international
et
dotés de leurs propres droits de propriété intellectuelle et marques",
réitérait récemment devant la presse son directeur, Li Rongrong.

–    Depuis quelques années, la stratégie d’approvisionnement
en ressources naturelles est pilotée en très haut lieu, notamment pour le
pétrole
:

–    rien qu’en 2006, PetroChina (filiale à Hongkong de
CNPC), Sinopec, Cnooc – les trois géants étatiques du pétrole
et la structure publique Citic ont annoncé pour plus de 10 milliards de dollars
d’investissements à l’étranger, dont deux grosses acquisitions en Russie (Udmurtneft) et au Kazakhstan
(via le rachat du canadien
Nations Energy
).

Pour le reste, le gouvernement, malgré sa
rhétorique nationaliste, suit le mouvement bien davantage qu’il ne le coordonne
ou ne l’assiste
: le Conseil d’Etat a ainsi émis, en octobre 2006, ses
premières directives à l’attention des investisseurs chinois à l’étranger et en
appelle à plus de supervision et de soutien, via les ambassades.

La Chine réfléchit
également à diversifier
ses formidables réserves monétaires (un trillion de dollars, placés
majoritairement par la banque centrale en bons du Trésor américains
), en
créant par exemple une structure d’investissement international comme
Temasek Holdings à Singapour.

La Chine
d’aujourd’hui est donc loin d’offrir à ses candidats à la mondialisation le
soutien, et les conditions, qui ont permis aux groupes japonais, puis coréens,
de se développer. "Quand
les sociétés japonaises ont envahi le monde avec leurs voitures, leur
électronique et leurs appareils ménagers, ils étaient confrontés à une réalité
bien différente. Leur marché domestique était fermé au monde extérieur, ce qui
a permis aux sociétés japonaises de réaliser des marges confortables chez
eux", é
crit George Zhibin Gu, dans China’s Global Reach
(éditions Fultus Corporation, 2006, 252 pages).

M. Zhibin Gu,
consultant spécialiste de la Chine basé à Shenzhen, prévoit que les groupes chinois ont besoin
de "dix ans d’apprentissage" avant d’être suffisamment avertis des
risques liés à l’expansion internationale, tant leurs "arrières" sont
fragiles
: ils sont pour
la plupart sérieusement endettés
– plusieurs scandales bancaires ont
révélé l’existence de prêts non remboursés au sein de grandes sociétés – et
évoluent en Chine sur un marché souvent saturé et anarchique. Enfin, privées de
visibilité juridique, ils sont sans cesse exposés à l’arbitraire d’un
"Etat-parti" qui peut, à tout moment, changer les règles du jeu et
les prendre au piège.

Contrairement à leurs homologues indiens, les groupes
chinois sont souvent déconnectés des marchés financiers et moins soumis aux
exigences de l’actionnariat

même quand ils sont cotés à Hongkong et New York, tant la réalité de la gestion
des actifs chinois manque
de transparence
. La privatisation partielle ou totale des entreprises
d’Etat à la discrétion de leurs gérants, le flou entourant la propriété des
entreprises en Chine – outre l’Etat, les régions et les municipalités peuvent
être actionnaires de grandes sociétés parapubliques, comme Qingdao pour Haier,
et interviennent parfois de manière contre-productive – sont autant de facteurs
d’incertitude. Les groupes
privés, comme Huawei ou Wanxiang, ont donc tendance, pour se protéger du
"facteur bureaucratique
", à opacifier leur gestion.

Dans ce contexte, le déficit en expérience
internationale et en savoir-faire managérial
est devenu un motif de
poids dans la quête de partenaires à l’étranger.

Il apparaît au second rang des préoccupations
des groupes chinois, au côté de la technologie, et après la recherche de nouveaux
marchés,
dans le sondage
récent réalisé par IBV China (IBM Institute for Business Value)
dans son
rapport sur la globalisation des groupes chinois. Il est nécessaire, pour les
sociétés chinoises désirant s’internationaliser, "d’acquérir une masse critique
de talents internationaux", estime Alan Beebe, directeur de recherche
d’IBV China.

Le rapport n’identifie que 60 sociétés, parmi les 500
plus grosses entreprises chinoises, aptes au test de l’internationalisation
. Car les risques pour les sociétés
chinoises sont d’autant plus élevés qu’elles choisissent le raccourci apparent des
fusions-acquisitions
, un exercice réputé périlleux.

L’échec peut être cuisant, comme celui de TCL, forcé
aujourd’hui de liquider l’activité téléviseur de Thomson acquise en 2004
. Ses rivaux, qui ont choisi la croissance
organique, s’en tirent mieux : c’est le cas de Hisense, qui vend en France
ses écrans plats assemblés en Hongrie.
Cette société d’Etat de Qingdao a
grossi en rachetant des groupes locaux, dont Kelon, un ancien champion privé de
l’électroménager du Guangdong mis brusquement en faillite.

Une chose est
sûre : les groupes chinois qui survivront au double défi du marché chinois et
international seront redoutables.
En attendant, le taux de roulement promet d’être élevé.

Brice Pedroletti

Article paru dans
l’édition du 10.01.07

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Cina, economia, IED

Le Monde            070116

La Chine a attiré
près de 50 milliards d’euros d’investissements étrangers en 2006

LE MONDE | 16.01.07
| 13h59  •  Mis à jour le 16.01.07 | 13h59

–   
Les investissements directs étrangers (IDE) non financiers en Chine ont
rebondi en 2006, signe de l’intérêt renouvelé des sociétés étrangères pour le
marché local et son 1,3 milliard d’habitants
.

–   
Ils ont atteint 63,021 milliards de
dollars (près de 50 milliards d’euros), soit une hausse de 4,5 % par rapport à
2005, après un recul de 0,5 % en 2004, a indiqué, lundi 15 janvier, le
ministère chinois du commerce. Si l’on inclut en revanche le secteur financier,
les IDE ont diminué de 4,06 % par rapport à 2005, pour totaliser 69,47
milliards de dollars.

–   
Depuis l’autorisation des
investissements étrangers en 1980, le produit intérieur brut chinois a été
multiplié par dix. Pékin veut, toutefois, privilégier la qualité des
investissements plutôt que leur quantité, a annoncé, en novembre 2006, la
Commission nationale de développement et de réforme.

La Chine veut surtout attirer "des compétences et
des technologies, et n’a pas besoin de capitaux étrangers, étant donné ses
extraordinaires réserves de chang
e", explique Sun Mingchun, économiste chez Lehman Brothers.

A cette fin, le
premier ministre, Wen Jiabao, a annoncé des réductions d’impôts et promis des
procédures d’approbation accélérées pour des investissements dans les provinces
du Sichuan et du Yunnan, plutôt qu’à Shanghaï et dans la zone industrielle du
delta de la rivière des Perles. – (Bloomberg, AFP.)

Article paru dans
l’édition du 17.01.07

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