Dai pragmatici ai duri: quattro capi al bivio tra bombe e politica

GUIDO OLIMPIO

Duri nel cuore, pragmatici in politica, tattici
nell’uso del terrore. Questi gli ingredienti che rendono particolare la
leadership collettiva di Hamas, modellata così per due ragioni: la mancanza di
una figura preminente, la necessità di resistere ai raid israeliani. In pochi
mesi Israele ha eliminato il leader spirituale Ahmed Yassin e il successore Rantisi,
così come molti quadri e «ufficiali».  Una emorragia che avrebbe messo alle
corde qualsiasi partito ma che ha avuto effetti ridotti su una formazione dalla
grande base sociale. Una prova ulteriore che Hamas usa «anche» il terrorismo –
erano suoi 145 dei 215 uomini-bomba palestinesi – ma ha le caratteristiche del
movimento. Nella gerarchia orizzontale del gruppo esistono comunque dei gradi,
conferiti dall’esperienza e dal seguito. Il nome più importante è quello di
Mahmoud Zahar, nato nel 1945, con padre egiziano e madre palestinese.
Influenzato dalla Fratellanza musulmana in Egitto, tra i fondatori di Hamas,
scampato a due blitz, ha perso un figlio sotto le bombe, è stato molto vicino a
Yassin sia per convinzione che per la sua professione di dottore. Ad ottobre si
è distinto dicendosi a favore dell’opzione militare. Al suo fianco Nizar Rian,
battezzato «il bugiardo dalle quattro mogli». Con l’avvicinarsi del voto,
sentendo profumo di successo, Zahar ha tirato fuori il pragmatismo. Più
manovriero e «moderato» (secondo criteri locali) Ismail Haniya. Nato nel 1963
in un campo profughi, laureato in economia, ha passato 4 anni in una prigione
israeliana ed è stato espulso in Libano. Sopravvissuto a due tentativi di
eliminazione, ha ricoperto la carica di capo dell’ufficio di Yassin. Si è fatto
notare sollecitando il congelamento delle azioni armate: la sua base è
costituita dai «giovani leoni». Completano il mosaico Said Syam, un insegnante,
punto di contatto con le altri fazioni, e Hassan Youssef, leader nella West
Bank, un uomo dai toni pacati che per primo ha parlato di tregua con il nemico.

Mentre Zahar e Haniya risiedono nel cosiddetto «Hamas-stan» – la striscia di
Gaza – vive all’estero Khaled Mashal, il responsabile dell’ufficio politico.
Sulla quarantina, sfuggito ad un attentato al veleno da parte del Mossad, è
considerato dagli israeliani come l’ispiratore di molti attacchi. Non potendo
contare su una leva politica diretta, usa alcune cellule dell’ala militare, le
Brigate Ezzedin Al Kassam. Mashal, ovviamente, deve tenere conto delle esigenze
di chi lo ospita. La Siria, il Qatar (da dove predica via Al Jazira l’influente
teologo Al Qardawi) e l’Iran. Teheran e Damasco cercano – non sempre con
successo – di influenzare le Ezzedin per sabotare qualsiasi dialogo. Mashal ha
risposto assecondando sia gli intrighi che i negoziati per il cessate il fuoco.
Ora che Hamas ha fatto il pieno di voti è possibile che il peso dei leader
«esterni» – tra questi il duro Marzouk – diminuisca, anche se sono sempre in grado
di interferire.
A differenza di altri gruppi palestinesi, il braccio armato di Hamas si è
dimostrato disciplinato. Rispettando gli ordini, le Brigate hanno lanciato
l’ultima azione suicida sei mesi fa. A guidarle c’è una figura storica:
Mohammed Deif, detto il morto che cammina perché costantemente nel mirino di
Israele che ha provato a ucciderlo in ogni modo. «L’immortale» ha creato
un’unità femminile ed ha arruolato una artificiere donna dimostrando di saper
tener conto della Jihad rosa.
Hamas potrebbe adesso imitare gli Hezbollah libanesi che siedono in Parlamento
e mantengono la loro milizia. Politica e Kalashnikov. Gli islamici palestinesi
però devono innanzitutto formare i quadri di governo che non hanno mai avuto.
Rammentando che molto del loro futuro dipenderà dal rapporto con Israele e
l’Occidente. La contiguità territoriale, la dipendenza economica e geografica
dallo Stato ebraico dovrebbe spingerli a trattare piuttosto che a combattere.
Con la ragione che prevale sul cuore. Una scelta difficile nella regione più
irrazionale della Terra.

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