Missione Onu, se siamo pacifisti dobbiamo provarci

Rina Gagliardi
Se fossimo molto ingenui, più di quanto ci
impegniamo a non essere, dovremmo esprimere un forte stupore. Mentre su
una missione militare certamente pericolosa, e di utilità politica
pressoché nulla, come quella in Afghanistan, si sono sentite poche voci
dissonanti (tutte comunque a sinistra), sul progetto Unifil per il
Libano, così fortemente perseguito dal governo Prodi e dal ministro
D’Alema, fioccano le perplessità e i dubbi, come raramente era
accaduto. Non è perplessa soltanto la destra, per evidenti ragioni
strumentali e ancor più evidente imbarazzo. Sono più che cauti, se non
ostili, alcuni grandi giornali, come La Repubblica. Sono preoccupati i
vertici militari. Sono incerti dirigenti di spicco dell’Unione. E sono
diffidenti, forse per puntiglio ideologico, alcuni settori della
sinistra radicale e del pacifismo.

Da dove nasce una sfiducia così
diffusa? Dalla paura
, ovviamente. Una paura certo fondata. Nessuno è in
grado oggi di garantire che la forza multinazionale di interposizione,
destinata a dispiegarsi ai confini del Libano, riuscirà a svolgere con
successo il suo compito essenziale: salvaguardare la fragile tregua in
atto, ed anzi andare oltre, costruendo le condizioni di un effettivo
processo di pace. Nessuno può giurare che, all’opposto, le forze che
vogliono la guerra non usino i “caschi blu” a loro esclusivo vantaggio,
per riorganizzarsi e imporre, a tempi relativamente brevi, la loro
logica.
E nessuno può escludere del tutto che, per il nostro Paese, per
l’Italia, l’intera iniziativa possa risultare un “fiasco” politico e
diplomatico – ancora oggi, alla vigilia di importanti summit europei,
la Francia non ha chiarito le sue ambiguità, la Germania ha invece
chiarito la sua determinazione a restarne fuori, altri Paesi, come la
Spagna, non sembrano intenzionati a impegnarsi in Medio Oriente, se non
con forze quantitativamente limitate. Insomma, come ha già detto il
ministro Parisi, questa è sicuramente una missione «pericolosa»: non
soltanto perché espone ad un rischio concreto la vita di molte persone,
ma perché è davvero di grande difficoltà generale.
E tuttavia queste
considerazioni non esauriscono il problema. C’è ben altro, dietro (o
sotto) dubbi, preoccupazioni, ostilità comunque comprensibili e
“lecite”. C’è, a nostro parere, una posizione politica organica: che
teme come il fumo negli occhi il possibile “nuovo inizio” di una nuova
politica estera italiana. Non più appiattita sull’asse Washington-Tel
Aviv, ma collegata fortemente all’Europa. Non più “fedele alleato” di
una strategia di guerra, ma protagonista di un processo di
pacificazione, certo difficilissimo, che ha la pace come propria e
consapevole meta finale. Ed è su questo tipo di resistenza che conviene
concentrare l’attenzione e la riflessione.

La drammatica
situazione del Medio Oriente – è noto – affonda le sue radici in
tragedie lontane, l’ultima delle quali è stata l’ultimo grande
conflitto mondiale. Ora, però, essa si è fatta ancor più insostenibile:
sta diventando, è già diventata, un luogo endemico di guerra –
guerreggiata, simbolica, e perfino indiretta. Quella appena alle nostre
spalle, con l’invasione israeliana del territorio libanese e i raid
aerei di distruzione su Beirut, non aveva solo le caratteristiche di
uno scontro “locale”: è stata, sotto molti aspetti, la prima prova di
una guerra ancor più devastante, tra Stati uniti e Iran, tra Occidente
e Islam fondamentalista. Nonostante il fallimento palmare della
dottrina della “guerra preventiva”, nonostante l’apparente discesa
dell’influenza neocons sulla politica mondiale di Bush, lo scontro
delle civiltà resta in effetti una prospettiva in campo, che né il
governo di Washington né lo schieramento occidentalista hanno davvero
archiviato. Del resto, è proprio la politica dell’Occidente a
determinare squilibri crescenti,
e aree di crisi sempre meno
controllabili, in termini tali che rendono la guerra una prospettiva
sempre più incombente. Ne è un esempio concreto, e scottante, la
crescita attuale della potenza e delle ambizioni egemoniche dell’Iran:
essa è il frutto, uno dei frutti più concreti, della guerra americana
all’Iraq, che ha distrutto, nella sostanza, il paese che costitutiva il
più forte contraltare di Teheran (anche dal punto di vista
dell’espansione del fanatismo religioso) e ha modificato in profondità
l’equilibri
o dell’intera regione.

Ora, certo, l’Iran di Ahmadinejad costituisce un pericolo molto serio,
non solo per la sicurezza di Israele, non solo per le armi nucleari di
cui può arrivare a dotarsi, ma per il ruolo ideologico, politico e
militare che può svolgere nell’intero Medio Oriente devastato,
instabile e sofferente – dove c’è un popolo, quello palestinese, al
quale viene a tutt’oggi negato il diritto elementare ad uno Stato
proprio, ad una condizione basica di dignità.
Ma come intervenire,
allora, prima che la tendenza alla catastrofe divenga dominante, e
incontrastabile? L’unica arma a nostra disposizione è anche quella più
antica e allo stesso tempo moderna: la politica. L’unico soggetto che
possa sperare di usarla, con successo, è anch’esso antico e moderno,
l’Europa.
E l’unico luogo in cui essa è immediatamente sperimentabile è
proprio il Libano: per ragioni geografiche e geostrategiche, ma anche
per ragioni politico-culturali.
A tutt’oggi, con le sue 17 tra etnie e
culti religiosi, con la sua mescolanza di islamici, cristiani maroniti,
drusi e molte altre confessioni, il Libano è l’ultimo presidio
mediorientale della tolleranza e della convivenza tra diversi: nel
momento in cui o ricadesse, più o meno, in mani siriane, o dovesse
subire, da capo, l’umiliazione dell’occupazione israeliana, il Libano
perderebbe non tanto l’indipendenza, ma la sua natura di “terra di
confine”. Nasce qui l’idea, per altro non nuova, di una forza
multinazionale che, “interponendosi” tra il Libano e Israele, può forse
in realtà “interporsi” tra le diverse soggettività politiche oggi tra
di loro incompatibili.
Un contingente che, ovviamente, non può né fare
né vincere la guerra, ma che è al servizio di un progetto politico ben
più ambizioso: ricostruire, nella regione, un “ordine politico
ragionevole”, rispettoso dei diritti dei popoli, e capace di
ripristinare vere regole di convivenza.
Garantire la sicurezza degli
israeliani, certo, come chiede ogni giorno il Corriere della sera, ma
anche quella dei libanesi e degli arabi. Favorire, con la sua presenza,
il processo di “costituzionalizzazione” di Hezbollah
, e la sua
integrazione nell’esercito libanese – oggi lontano dallo standard
necessario di efficienza. Consentire alla pacificazione di tramutarsi
in processo di pace, per il quale ovviamente serviranno ben altri
strumenti – commissioni miste, conferenze, trattative – e molti altri
protagonisti. Ma, senza questo primo passaggio, il processo neppure
comincerà. Così come senza la conferenza di Roma, dagli effetti pratici
così apparentemente ridotti non avrebbe potuto mettersi in moto il
meccanismo essenziale che forse si va mettendo in moto: l’uscita
dall’unilateralismo americano, la rottura di una prassi fondata sul
fatto compiuto – gli Usa si muovono, l’intendenza seguirà. Essenziale,
e rilevantissimo, è che esso si dispieghi sotto le bandiere,
nient’affatto formali, dell’Onu. Da quanto tempo questa sigla – che è
l’unica alternativa al governo imperiale del mondo – non compariva in
una iniziativa internazionale consistente? E da quanto tempo l’Italia,
il governo italiano, non compariva come prim’attore di un tentativo di
questa natura? Proprio gli ostacoli che a tutt’oggi vi si frappongono,
ne esaltano – se così si può dire – la necessità e il valore. L’Italia,
come ci ha insegnato il mezzo secolo di potere democristiano, può fare
una politica estera propria soltanto alla condizione di sbarazzarsi del
suo statuto di colonia, e di esercitare, come può, la sua naturale
vocazione al dialogo attivo tra Europa e Mediterraneo.
Da questo punto
di vista, la missione Unifil è anche un contributo concreto alla
nascita – sempre drammaticamente tardiva – di un’autonoma soggettività
europea.

Naturalmente, come dicevamo all’inizio, tutto questo,
per ora, è soltanto un progetto. Importante, necessario e denso di
rischi. Un progetto che implica un’assunzione vera di responsabilità,
anche per chi – come noi – colloca la politica di pace (e il pacifismo,
e la nonviolenza) al vertice della propria scala di valori. Se ci sono
chiare le ragioni per le quali molti poteri più o meno forti, molti
commentatori più o meno rispettabili, sono contrari alla missione
libanese – e guardano preoccupatissimi all’ipotesi, molto oramai
credibile, che essa abbia una leadership italiana – molto meno
comprensibili ci sono le motivazioni analoghe e contrarie che spingono
al no qualche area della sinistra radicale, e dei movimenti. Se si teme
che i caschi blu possano risultare una mera “copertura” della non
sopita aggressività del governo di Tel Aviv, si fa un’analisi distorta:
Olmert, come del resto i “falchi” nordamericani, subisce l’iniziativa,
dopo una campagna bellica che si è risolta, per lui, in un disastro,
militare e politico, e che ha sfatato, forse per la prima volta in
termini clamorosi, il mito della invincibilità dell’esercito di
Israele. Se si ritiene che la politica del ministro degli esteri
D’Alema resti, nell’insieme, subalterna agli interessi degli Usa e
dell’occidente, si fa torto, ancora una volta, ai fatti: come hanno
dimostrato le ruggenti polemiche sulla passeggiata libanese del nostro
ministro degli esteri, e la sua capacità di dialogare con tutti,
nessuno escluso, Hezbollah compresi.
Se si dice che Unifil, in ogni
caso, è solo il timido inizio di un processo che deve coinvolgere ben
altri soggetti, luoghi e decisioni, si dice una mezza verità che, come
spesso capita, finisce per farsi bugia intera. Per essere pacifisti
conseguenti, oggi, è essenziale provarci. Provare ad esserci. Bandire
ogni pur legittimo desiderio di fuga. E puntare tutto sul filo di
speranza che abbiamo – per trasformarlo, magari, in una robusta gomena.

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