Punti di forza e debolezze dell’imperialismo russo

Ripubblichiamo qui un articolo pubblicato su Pagine Marxiste giugno 2022:

La guerra in Ucraina ha portato la Russia in primo piano nella politica mondiale. In Occidente la Russia viene demonizzata come il fantasma rinascente dell’Impero del Male del tempo della Guerra Fredda. Anche a sinistra giudizi e valutazioni variano, nonostante sia caduta ogni pretesa che si tratti di una alternativa economica e sociale al capitalismo “occidentale”. Alcune organizzazioni, la considerano una formazione tout court capitalista e imperialista, mentre correnti “antimperialiste” a senso unico vi vedono il più deciso antagonista del dominio americano, e per questo il “male minore”. Alle volte evitano semplicemente di definirlo un imperialismo, in alcuni casi la Russia viene addirittura definita una “semicolonia” dei paesi imperialisti che le forniscono mezzi di produzione o prodotti di alta tecnologia. 

In questo articolo si sostiene che economicamente la Russia, grazie alla rendita su petrolio e gas, si appropria del plusvalore prodotto da proletari di altri paesi, sui quali il capitale russo non esercita un controllo diretto, e che grazie alla sua parzialmente ricostituita potenza militare, essa esercita una influenza politica superiore al suo peso economico e industriale.

La guerra d’Ucraina si spiega con queste caratteristiche dell’imperialismo russo. Putin, l’artefice della ristrutturazione dell’industria bellica russa, ha ritenuto di avere la forza per riconquistare con le armi il controllo su aree ex-URSS che aveva perso sul terreno economico e finanziario dopo il crollo dell’URSS. Una evidente politica imperialista (revanchista), che si contrappone alle politiche altrettanto imperialiste delle potenze americana ed europee, pronte a includere nella propria area di influenza, economica, politica e militare i paesi che appartenevano all’area di influenza russa.

Di qui la nostra posizione di opposizione a tutti gli imperialismi, a partire da quello di casa nostra, senza però nessuno sconto a quello russo che ha avviato la guerra.

Un’analisi concreta della formazione economico-sociale russa ci conferma che si tratta di una società in tutto e per tutto capitalistica, con una proiezione imperialista nel mercato mondiale, da cui trae plusvalore aggiuntivo rispetto a quanto estrae dallo sfruttamento del proletariato russo (ci riserviamo di approfondire questo aspetto in un prossimo numero), anche se nella forma della rendita mineraria (e agraria), più che attraverso gli strumenti finanziari. Lo stato della borghesia russa possiede inoltre un apparato militare imponente, la cui funzione è quella di estendere l’influenza imperialista oltre il perimetro che la capacità industriale e finanziaria permetterebbe (dalla Siria a Libia, Mali e Repubblica Centrafricana – oltre a Bielorussia, Caucaso e Asia Centrale, e ora l’Ucraina). Certo una influenza ridimensionata rispetto all’epoca dell’URSS, e poca cosa rispetto ai tentacoli dell’imperialismo americano che coprono il mondo intero, ma con la capacità – e la volontà – di contendere ai rivali anche europei il dominio del mondo, anche con la guerra. 

Le rendite del più vasto stato del mondo

La Russia, con 146 milioni di abitanti e 17 milioni di km (che si estendono su 11 fusi orari) è il paese più vasto del mondo, al nono posto per popolazione, e la sua economia si colloca all’11° posto come PIL al cambio corrente, con una quota dell’1,95% (dopo Italia e Canada, prima di Corea del Sud e Australia), ma al 6° posto se calcolato a parità di potere d’acquisto con una quota del 3,3% sul totale mondiale (dopo Cina 18,2%, USA 15,8%, India 6,7%, Giappone 4,0%, Germania 3,4% e davanti a Indonesia, Francia, Brasile, UK). In ogni caso, economicamente, una media potenza.

Il fatto che con meno del 2% della popolazione mondiale la Russia comprende quasi il 10% delle terre emerse determina una super-dotazione di risorse naturali, e delle rendite connesse, soprattutto per quelle relative agli idrocarburi. La Russia è il secondo produttore mondiale di petrolio, dopo gli USA e davanti all’Arabia, con Rosneft seconda società petrolifera per volumi estratti dopo Saudi Aramco; è il secondo produttore mondiale di gas naturale, ancora dopo gli USA (ma con riserve molto maggiori) e con più del doppio del terzo produttore (Iran). Gazprom, il monopolio russo del gas, è il primo produttore mondiale.

La produzione di idrocarburi contribuisce al 20% del PIL russo (percentuale che varia con il prezzo del petrolio e gas), e alle entrate statali per quote che vanno dal 28% nel 2020 al 46,4% del 2018, e per oltre la metà alle esportazioni.

Se consideriamo che tutto il settore estrattivo (inclusi quindi carbone e metalli) occupa solo l’1,6% della forza lavoro russa, è chiaro che gran parte del valore da esso derivante è costituita non dal valore creato ex novo, prodotto dai lavoratori russi del settore, ma dalla rendita (soprattutto da gas e petrolio, dato che il prezzo internazionale è determinato dal cartello monopolistico OPEC volto a limitare l’estrazione per tenere alti i prezzi, che la Russia affianca da 5 anni con una quota pari a quella dell’Arabia). Tale rendita fornisce anche tra un quarto e metà delle entrate statali. Sotto questo aspetto la Russia partecipa al carattere di Stato rentier di altri paesi petroliferi, anche se a un livello pari a metà di quello dell’Arabia Saudita (dove il settore petrolifero pesa per il 40% del PIL, 90% delle entrate fiscali e 85% dell’export). Questo significa che la borghesia russa, statale e privata, incamerando la rendita petrolifera con la vendita di petrolio e gas a prezzi pari a un multiplo del prezzo di costo, si appropria non solo del plusvalore prodotto dai lavoratori alle dipendenze del capitale russo, ma anche di una quota del plusvalore prodotto da milioni di lavoratori dei paesi importatori di petrolio e gas.  

Debolezza industriale

Il settore manifatturiero, con meno di 10 milioni di addetti pari al 14% degli occupati, ha subito un forte processo di deindustrializzazione, analogo a quello di USA e Gran Bretagna, e più accentuato rispetto alle potenze europee, nonostante queste abbiano effettuato processi di delocalizzazione verso aree a minor costo del lavoro (mentre il basso costo e alto livello di qualificazione della forza lavoro russa avrebbe dovuto attrarre investimenti dall’estero). 

Un confronto con le altre maggiori potenze industriali dà un basso potenziale industriale della Russia, con una produzione manifatturiera quasi pari a quella del Brasile, a due terzi di quella italiana, un terzo di quella tedesca, poco più di un ottavo di quella statunitense e un diciottesimo di quella cinese. Nella produzione di macchine (mezzi di produzione) la Russia è ancor più debole, con una produzione inferiore a quella del Brasile, inferiore a un quarto di quella italiana e pari a un decimo di quella tedesca o americana (quella cinese è 28 volte quella russa!). Il rapporto di forze non migliora per la Russia se si considera il settore dei mezzi di trasporto.

Questa valutazione è confermata dalla posizione della Russia nella divisione internazionale del lavoro: il suo export è costituito per oltre il 60% da prodotti energetici (petrolio, gas, carbone e derivati), 10% da minerali, 6% cereali e legno: il settore primario pesa per circa i tre quarti dell’export, mentre il manifatturiero per solo il 20%, contro l’80% dell’import. L’import di macchine è pari a circa 5 volte l’export di macchine. Questa è l’eredità catastrofica di sessant’anni di capitalismo di stato semi-autarchico (centrato, come vedremo, sul settore degli armamenti). Ma non significa che sia una semi-colonia. Cosa avrebbe dovuto dire Lenin dello Stato zarista, indebitato con la finanza europea? Eppure lo elenca tra le potenze imperialiste in lotta per spartirsi il mondo nella Prima Guerra Mondiale, e ne denuncia la politica imperialista anche dentro i confini dell’impero (con la definizione “prigione di popoli” e fustigando lo spirito grande russo contro le altre popolazioni, slave e non slave dell’impero, ucraini inclusi).

Metallurgia, nucleare, armamenti

In alcuni settori tuttavia la Russia ha una posizione di forza: nella metallurgia, nell’energia nucleare e negli armamenti.

Un punto di forza dell’industria russa è la produzione di acciaio. La Russia è al quinto posto nella classifica mondiale con quasi 72 milioni di tonnellate nel 2020, dopo Cina (14 volte superiore), India, Giappone e Stati Uniti che sono quasi allo stesso livello della Russia. 10 grandi gruppi siderurgici, alcuni presenti anche nell’estrazione, controllano l’80% della produzione. La Russia ha anche forti posizioni nella estrazione e lavorazione di altri metalli, quali l’alluminio, il rame, il nickel, il vanadio e materie prime come gli azotati (per fertilizzanti). Nel 2019 la Russia è infatti risultata: 2° produttore mondiale per il platino, il vanadio e il cobalto, il 3° per l’oro e il nickel,  4° per l’argento e i fosfati, oltre che 6° per l’uranio. Questi settori, in gran parte privatizzati, hanno permesso l’accumulo di grandi ricchezze da parte degli “oligarchi” che grazie alle connessioni politiche hanno potuto prenderne il controllo. 15 delle 100 più grandi imprese russe sono nel settore dei metalli, e 17 dei 34 miliardari più ricchi della Russia sono monopolisti del settore minerario (inclusi i fertilizzanti) e della metallurgia. I metalli costituiscono anche una base indispensabile per tutta l’industria bellica che rappresenta il cuore dell’apparato produttivo russo.

Altro punto di forza: il nucleare. L’azienda statale russa di tecnologie nucleari Rosatom è il risultato della concentrazione realizzata nel 2007 di 350 imprese del settore, civile e militare (dall’estrazione dell’uranio al suo arricchimento alla costruzione di centrali e di ordigni nucleari). Forte di 260 mila addetti, Rosatom afferma di detenere “il primo posto in termini di numero di progetti di costruzione di reattori nucleari realizzati simultaneamente” nel mondo, con un portafoglio ordini di 258 miliardi di dollari a febbraio 2021, di cui circa la metà all’estero, dove operano 35 delle sue centrali nucleari. Realizzerebbe il 76% delle esportazioni globali di tecnologia nucleare con ordinativi esteri del valore di oltre 138 miliardi di dollari a partire dal 2020 – più di ogni altra azienda nucleare nel mondo, secondo l’emittente tedesca DW. Ad agosto 2021, la World Nuclear Association ha contato 38 progetti di reattori nucleari attivi nel portafoglio di Rosatom, in 11 paesi: 10 operativi, 11 in costruzione, 10 sotto contratto e 7 in fase di pianificazione. Rosatom realizza inoltre circa il 43% dell’arricchimento dell’uranio a livello mondiale, così come il 20% della conversione dell’uranio e l’8% della produzione di uranio. Una filiale di Rosatom, Atomflot, gestisce quello che chiama il rompighiaccio più grande e potente del mondo, l’Arktika, impegnato nel “compito strategico” della Russia di “garantire una navigazione regolare tutto l’anno e sicura attraverso l’intera rotta del Mare del Nord”, secondo una dichiarazione del 2020 di un alto funzionario Rosatom.

Un enorme complesso militare industriale

La Russia vanta anche un’altra posizione di punta: è stata il secondo esportatore mondiale di armi convenzionali nel 2016-2020 secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), con vendite di armi convenzionali a 45 stati. Mentre è il diciannovesimo paese esportatore (dietro alla Spagna e davanti alla Polonia) con l’1,7% delle esportazioni globali, ha il 20% dell’export di armi, dietro ai soli Stati Uniti (che a loro volta hanno il 39% dell’export di armi a fronte del 9,5% dell’export globale). Nel 2020, le esportazioni russe di armi e tecnologie militari sono salite a più di 15 miliardi di dollari, secondo quanto riportato dalla TASS, con un portafoglio di ordini di esportazione di oltre 50 miliardi di dollari. Questi dati ci dicono che la debole industria manifatturiera russa ha al suo interno un forte settore degli armamenti, che ha un peso sproporzionato rispetto agli altri paesi.

Il campione russo degli armamenti è Rostec, anch’essa costituita nel 2007 dal Governo, (con Putin presidente al secondo mandato, 2004-2008), concentrando circa 700 imprese riunite in 14 holding, di cui 11 militari e 3 civili, un enorme conglomerato che occupa un totale di 453 mila addetti, con un fatturato 2017 di 27 miliardi di dollari. Il gruppo spazia dal settore aeronautico ed elicotteristico, all’elettronica, alle armi vere e proprie (tra cui il gruppo Kalashnikov), sistemi d’arma alla farmaceutica e ai materiali compositi, i carri armati (Uralvagonzavod) i camion (Kamaz) e la stessa AvtoVaz di Togliattigrad, oltre alla VSMPO-AVISMA: che produce il 30% del titanio a livello mondiale.

Fuori di Rostec sono rimasti una serie di gruppi per la produzione bellica, tra cui Almaz-Antey, creata nel 2002, dall’unione di una sessantina di imprese e istituti di ricerca, ottavo gruppo bellico mondiale con circa 100 mila addetti, che produce sistemi antiarei, sistemi di guida, missili di vario genere compresi anti-missili, artiglieria navale, droni. UralVagonZavod (circa 30 mila addetti) è un altro grande gruppo della Difesa di dimensioni internazionali, primo produttore mondiale di carri armati (la guerra in Ucraina procurerà nuove importanti commesse), nonché produttore di diversi propulsori per la messa in orbita di satelliti (Proton). Costituita a Kharkiv negli anni ’30 durante il secondo piano quinquennale, il suo stabilimento era stato trasferito sugli Urali durante la guerra, e venne poi parzialmente riportato  a Kharkiv. Nel 2017 le sue attività russe sono state fatte confluire dentro Rostec.

La United Aircraft Corporation (UAC) è un’altra holding creata nel 2006 da Putin tramite la fusione imposta a sei gruppi aeronautici che da decenni erano in concorrenza tra loro: Ilyushin, Irkut, Mikoyan, Sukhoi, Tupolev, e Yakovlev, con circa 100 mila addetti. Produce prevalentemente aerei militari, ma anche aerei commerciali. È uno dei maggiori esempi che dimostra come il capitalismo di stato dell’URSS fosse in realtà poco concentrato, perché gli equilibri politici regionali e interni al PCUS avevano evitato i processi di concentrazione tipici del capitalismo liberista, mantenendo in vita 7 imprese aeronautiche (inclusa l’ucraina Antonov) con un enorme dispendio di capitali. 

Le privatizzazioni hanno provocato processi di concentrazione in diversi settori, compreso quello energetico, ma nel settore militare è intervenuto lo Stato (sotto Putin) a imporre le fusioni tra i gruppi capital statali. Un accordo tra UAC e Antonov per la fornitura di componenti, firmato nel 2010 è stato cancellato nel 2015 a seguito del primo conflitto su Crimea e Donbass. Anche una collaborazione tra Ilyushin e l’indiana Hindustan Aicraft Corp. per lo sviluppo di un aereo da trasporto militare è stata troncata, nel 2016. Oltre a una joint venture con i cinesi, la Sukhoi ha una j-v con l’italiana Leonardo SuperJet International (SJI) per la vendita dell’aereo di linea Sukhoi Superjet 100.

Alla UAC si affiancano: 

Russian Helicopters, risultato della fusione dei gruppi MIL e Kazan, che con 46.000 addetti è al 26° posto tra le maggiori imprese militari del mondo. Ha tra l’altro una joint venture con l’italiana AgustaWestland per la produzione del suo elicottero multiscopo AW139, nello stabilimento di Tomilino, regione di Mosca (con commesse anche del Ministero della Difesa russo).

Tactical Missiles Corporation, con 50 mila addetti in una quindicina di stabilimenti e diversi centri di ricerca e progettazione, produce missili tattici di varia gittata, sistemi di propulsione e testate esplosive. La sua capacità produttiva è presumibilmente spinta al massimo nel corso della guerra in Ucraina, che ne moltiplicherà il fatturato e fa da vetrina per l’export.

Di questo complesso militare industriale fa parte anche l’industria spaziale, erede dei grandi investimenti effettuati dagli anni ’60 per la competizione con gli USA nella corsa allo spazio (fondamentalmente per lo sviluppo di tecnologie militari, poi riversate anche nelle telecomunicazioni). L’industria spaziale russa, pur ridimensionata dopo il crollo dell’URSS (al quale deve avere contribuito, date le enormi risorse sottratte ad altri settori), con un crollo dell’80% dei finanziamenti, è stata più volte ristrutturata, tramite la holding Roscosmos che controlla decine di imprese e nel 2020 occupava 170.500 addetti su un totale del settore stimato a 250 mila. Roscosmos si è inserita con successo nel mercato globale dei lanci spaziali (soprattutto satelliti per telecomunicazioni), acquisendo importanti quote di mercato (tra il 30% e il 45%) nel periodo di ritiro della NASA (2010-15) con i lanciatori Proton-M e Soyuz-2, anche se negli ultimi anni il loro peso è stato ridimensionato tra il 10 e il 20%, con la crescente concorrenza europea e dei nuovi arrivati Cina e India.

Combinazione di capitalismo privato e statale

Nel complesso tra il 2000 e il 2019 l’insieme delle imprese pubbliche (statali e municipali) è sceso dal 47% al 39% del totale degli addetti, mentre quelle private sono salite dal 34% al 49%, cui si aggiungono le imprese estere con il 6,5% degli addetti, e quelle miste al 4% (erano il 15% nel 2000). 

I fatti e i dati citati indicano punti di forza e di debolezza nella struttura del capitalismo russo; ai primi va aggiunta una forza lavoro a un livello alto di qualificazione tecnica

Si può affermare che anche sul piano finanziario la Russia ha punti di forza (un basso debito pubblico, elevate riserve valutarie accumulate in anni di forte attivo della bilancia commerciale), e punti di debolezza quale la scarsa capacità di controllo finanziario all’estero tramite l’esportazione di capitali. Lo stock di investimenti esteri diretti da parte di imprese russe, pari a 380 miliardi di dollari nel 2020, è inferiore a quello dell’Italia (596 miliardi e della Spagna (625), ma anche di Svezia, e Corea del Sud, per non parlare di stati come Francia, Germania, Gran Bretagna o Svizzera, che hanno volumi pari a 4-5 volte la Russia. Le grandi imprese russe (solo due tra le prime 100 mondiali) hanno inoltre una limitata proiezione internazionale, concentrata nei settori dell’energia e dei metalli. Primeggia la Lukoil, con il 27% di attività all’estero (tra cui la raffineria di Priolo (Siracusa), acquisita nel 2009, che lavora petrolio russo), insieme a Gazprom (6% di attività all’estero) e Rosneft (6%). Esse si collocano al 9°, 10° e 11° posto tra le maggiori società energetiche del mondo per fatturato. Complessivamente le grandi multinazionali russe con attività estere oltre 1 miliardo di dollari sono 15, tra cui 4 energetiche, 5 nei metalli, con in testa En+ dell’oligarca Oleg Deripaska, primo produttore mondiale di alluminio fuori della Cina, 2 nei trasporti, 1 chimica e 2 conglomerate, per un totale di 105 miliardi di dollari di attività estere, pari allo 0,5% delle attività estere delle prime 100 multinazionali mondiali. 

Media potenza economica, grande potenza militare

Ciò significa che nonostante abbia dei punti forza in alcuni settori, complessivamente i capitali russi hanno una limitata proiezione internazionale, sia sul piano industriale che finanziario, una capacità da media potenza imperialista, mentre solo il suo complesso militare industriale è da grande potenza.

Il settore militare è l’erede del mastodontico apparato militare dell’URSS, che in esso aveva investito gran parte del capitale accumulato, nel tentativo di giocare sul piano militare il ruolo di “superpotenza” concorrente degli Stati Uniti, pur avendo una base produttiva pari a circa un terzo (anche rispetto alla CEE), e in una condizione di semi-autarchia, con livelli inferiori di produttività. La conseguenza dell’ipertrofia (rispetto alla “norma” dei paesi capitalistici) del settore militare, al quale furono destinati anche i migliori scienziati e tecnici, è stato il nanismo del settore beni di consumo, con produzioni a base locale, di bassa qualità (dall’alimentare all’abbigliamento, prodotti per la casa ecc.). L’opposto di quello che dovrebbe essere una società socialista, volta al soddisfacimento dei bisogni. Qui le esigenze militari dell’imperialismo russo venivano spacciate come necessità di difesa di un inesistente “socialismo”, e tradotte in termini nazionalistici nella competizione tecnico-scientifica della “coesistenza pacifica” per lo spazio e nell’accumulo di migliaia di missili e testate nucleari oltre che di carri armati ed aerei da guerra. 

L’imperialismo URSS aveva bisogno della superiorità militare in Europa proprio perché non disponeva della superiorità economica. Esso doveva mantenere il controllo sulla sfera d’influenza nell’Europa orientale, concessagli dagli USA a Yalta per sottrarla al rivale tedesco sconfitto e diviso, e lo poteva fare solo con mezzi militari, non essendo il Comecon in grado di competere con la CEE in termini di integrazione economica e mercato comune. Lo testimoniano le repressioni delle rivolte operaie in Polonia nel 1953, Ungheria nel 1956, e della “primavera di Praga” nel 1968, cui fece seguito il movimento polacco di Solidarnosc nel 1980. La rapida uscita di tutti i paesi dell’Est dall’influenza russa dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989 costituisce la controprova dell’assenza di una integrazione economicamente vantaggiosa per questi paesi e i loro ceti dominanti. 

L’attuale apparato produttivo russo è l’erede, ridimensionato, di quello sovietico, e Putin è stato l’artefice del salvataggio della sua componente più importante e più tecnologicamente avanzata, il complesso militare industriale, mediante concentrazione per decreto negli anni 2002-2011, nella forma del capitale di stato, dopo che i tentativi di ristrutturazione con metodi di mercato o tramite alleanze politiche erano falliti, o avrebbero portato parte dell’apparato militare russo nelle mani di gruppi stranieri. Putin è l’incarnazione di questi gruppi del complesso militare industriale, che dispongono di più di un milione di lavoratori altamente qualificati. La concentrazione e ristrutturazione diretta da Putin tramite i suoi uomini ha reso economicamente produttivi (di plusvalore) i gruppi dell’industria bellica anche grazie a un forte export di armi. Su questa base industriale Putin ha riorganizzato le Forze Armate, consolidandone la posizione di “secondo esercito del mondo” secondo gli esperti.

È questo rafforzamento militare che costituisce la base materiale dell’evoluzione della politica estera russa, dalla prospettiva di inclusione nel sistema a guida americana (con Eltsin e la prima presidenza Putin) a quella di ripristino della Grande Russia. 

La politica estera russa dopo il crollo dell’URSS

Inizialmente la Russia di Eltsin si era avvicinata alla NATO, e si parlava addirittura della sua possibile adesione. Nel 1994 la Russia aderisce al programma Partnership for Peace della Nato, e nel 1997 Russia e Nato firmano l’Atto Fondativo sulle Relazioni Reciproche, la Cooperazione e la Sicurezza, inteso a sviluppare una collaborazione. Quando dopo l’11 settembre 2001 (l’attentato alle Torri Gemelle) gli USA invadono l’Afghanistan, la Russia ha un atteggiamento collaborativo con la Nato (offrendo basi logistiche e trasporti). Nel 2002 viene costituito il Consiglio Permanente Congiunto Russia-Nato, luogo di consultazione e concertazione.

Parallelamente, nel 1997 la Russia è cooptata nel club del G-7, che diventa G-8, delle maggiori potenze imperialiste a chiara egemonia americana. Putin è nominato primo ministro da Yeltsin nell’agosto 1999. In pochi mesi sopprime con il ferro e il fuoco l’indipendentismo ceceno (seconda guerra cecena): è il suo battesimo politico, su basi nazionaliste, con il quale conquista la popolarità che lo porta a sostituire il dimissionario Eltsin il 31 dicembre 1999 e a vincere le elezioni presidenziali a fine marzo 2000. Al tempo stesso la guerra cecena è convergente con la campagna USA contro il “terrorismo islamico” nel Medio Oriente. Nei primi anni 2000 la Russia, con l’economia in difficile ripresa dopo il default del rublo del 1998, e i settori industriali in ristrutturazione e in via di spartizione tra i vari potentati (oligarchi), la Russia punta le sue carte sull’integrazione nel mercato mondiale: in cambio di materie prime, soprattutto energetiche, e armi potrà acquistare sul mercato globale i mezzi di produzione e beni di consumo che non è in grado di produrre all’interno. 

Ma anche il G-8 non è una società di mutuo soccorso: è l’associazione dei maggiori briganti imperialisti, in lotta tra loro per la spartizione del mondo. Nessuno fa sconti a nessuno, in questo mondo di lupi valgono solo i rapporti di forza. La Russia è ammessa nel club in quanto potenza sconfitta nell’implosione dell’URSS: deve rinunciare ad ogni pretesa di monopolio o privilegio nei rapporti con gli Stati ex Comecon e con le stesse ex repubbliche sovietiche. Tra i briganti è aperta la caccia per occupare quegli spazi, economicamente e militarmente. Se economicamente è la Germania ad avere la parte del leone nell’Europa Orientale, con gli investimenti in loco che procurano manodopera qualificata a buon mercato alle sue imprese industriali, sul piano militare sono gli Stati Uniti ad occupare l’area con l’espansione della Nato, facendo leva sulla diffidenza di questi paesi non solo nei confronti dell’imperialismo russo, ma anche di quello tedesco (che con la Russia ha un rapporto ambiguo, di rivalità ma anche complementarietà economica che può riprodurre convergenze come quella del Patto Hitler-Stalin per la spartizione della Polonia, che diede il via alla Seconda Guerra Mondiale). Nel 1999 aderiscono alla Nato Polonia, Cekia e Ungheria, nel 2004 i paesi baltici Estonia, Lettonia, Lituania insieme a Cekia, Slovenia, Romania e Bulgaria, nel 2009 Croazia e Albania… Per la Russia è la fine dell’impero.

Le frizioni tra la Russia e gli altri membri del G-8 si acuiscono con le reciproche recriminazioni sulla mancata ratifica/applicazione del Trattato sulle Armi Convenzionali in Europa (la Russia comunica la sospensione della sua applicazione nel dicembre 2007, in risposta anche alla installazione dello “scudo” antimissilistico in Polonia e Cekia da parte della Nato). Le tensioni si acuiscono con la guerra tra Russia e Georgia del 2008 che porta alla secessione dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia dalla Georgia. Ma la rottura definitiva avverrà dopo che l’“Euromaidan” sancisce l’uscita dell’Ucraina dalla sfera di influenza russa, e Putin porta avanti l’annessione della Crimea e l’appoggio ai secessionisti del Donbass: gli altri 7 briganti sospendono la Russia dal G-8 e impongono sanzioni contro questo sgarro manu militari al principio della concertazione (che peraltro essi non hanno osservato con l’espansione ad Est della UE e della Nato). Nel 2018 sia tedeschi e italiani (I governo Conte) che lo stesso Donald Trump propongono il rientro della Russia nel G-8, ma Putin rifiuta affermando che gli basta il G20 (il club che include i grandi “emergenti”, tra cui i BRICS – Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). La “guerra fredda” USA/Cina, scatenata da Trump, offre un quadro geopolitico che permette alla Russia di uscire dall’isolamento nel suo confronto con l’Occidente-NATO. Nel frattempo estende la sua presenza militare all’estero. Oltre alle basi russe rimaste in Bielorussia, Armenia, Georgia (Ossezia del Sud e Abcasia), Kazakistan, Kirghizistan,Tagikistan, Transnistria, Siria, la Russia sta costruendo basi militari soprattutto in Africa: Egitto, Sudan, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico. 

Cannoni e sanzioni

Lanciando l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022, Putin ha ritenuto che la Russia avesse il “diritto” (cioè la forza per) di riprendere il controllo su questa ex repubblica federata, scivolata nella sfera di influenza “occidentale”, senza subire contraccolpi eccessivi. Nel calcolo di Putin è certamente entrata anche la sconfitta Nato in Afghanistan, con l’abbandono degli USA che hanno messo gli alleati davanti al fatto compiuto, che faceva presumere una reazione limitata del fronte Nato, simile a quella post-Crimea, con sanzioni relativamente blande e sostenibili per l’economia russa, e una crescente divaricazione tra gli USA e gli alleati europei, troppo dipendenti dalle fonti energetiche russe per troncarne il flusso, altrettanto vitale per le loro economie quanto per le casse statali e per gli approvvigionamenti tecnologici e di beni di consumo della Russia.

Nonostante le forti tensioni, che riemergeranno, tra imperialismi europei e USA, il fronte occidentale non si è finora spaccato, e le sanzioni sono state pesanti sul piano finanziario e tecnologico – solo in futuro sapremo quanto abbiano inciso sulla produzione bellica russa. La misura maggiormente discussa in sede UE, su pressione degli Stati Uniti e del governo ucraino, è stata il blocco dell’acquisto di petrolio e gas russi. Mentre scriviamo i paesi UE hanno raggiunto un accordo per l’embargo al 90% del petrolio russo entro fine 2022 – escluso quello che giunge all’Ungheria via oleodotto, e il blocco delle assicurazioni sulle petroliere russe (mercato controllato per il 95% dalle compagnie europee). Questa misura potrebbe danneggiare fortemente anche l’export di petrolio russo verso paesi non europei. Già a fine maggio affluivano in Europa 500 mila barili di petrolio russo al giorno, solo un quinto rispetto ai mesi pre-guerra. La Russia ha cercato di rimediare offrendo petrolio a prezzi scontati anche del 35% rispetto a quello di mercato a paesi come l’India. Nel 2021 la Russia ha esportato petrolio e derivati per 179 miliardi di dollari, oltre il 36% dell’export totale, e 54 miliardi di gas naturale, pari all’11%. Il petrolio ha fornito il 44% delle entrate statali della Russia. Se gli europei acquisteranno più petrolio da altri paesi, e le quote dei paesi Opec+Russia restassero invariate, avremmo però un graduale riorientamento dei flussi petroliferi, dalla Russia verso paesi terzi, e dall’Opec verso i paesi europei, senza un danno significativo per la Russia. I paesi OPEC sono tuttavia sotto pressione da parte di USA ed europei perché sospendano le quote di estrazione concordate con la Russia, aumentando la propria produzione a scapito di quella russa. Ma ciò potrebbe anche aprire una nuova guerra dei prezzi tra Russia e Arabia, e far crollare il prezzo del barile. Più pesante sarebbe il blocco dell’import di gas russo in Europa, perché la Russia non potrebbe trovare alternative all’Europa in tempi brevi (un gasdotto, e neppure gli impianti di liquefazione e rigassificazione richiedono anni e ingenti capitali). Ma neanche gli europei tra cui l’Italia possono trovare fonti alternative in tempi brevi.

Il Piano A di Putin, che puntava sul crollo del governo Zelensky nei primi giorni di offensiva soverchiante contro Kyiv, è fallito con pesanti perdite per l’esercito russo data la tenuta politica e militare dello stato ucraino. La Russia è quindi passata al Piano B, la conquista territoriale, concentrando il grosso delle sue forze sul Donbass e il Sud Est dell’Ucraina, conquistando Kherson, Mariupol, e gran parte della provincia di Lugansk. Il Donbass è ricco di carbone, ferro, gas, e concentra il grosso dell’industria pesante dell’Ucraina, comprese produzioni militari, e di elettrodomestici. La sua conquista mutilerebbe l’industria ucraina rafforzando significativamente quella russa. La sproporzione delle forze militari in campo è tale che le sorti della guerra dipendono soprattutto dai massicci rifornimenti di armi all’Ucraina da parte dei paesi Nato, USA e Gran Bretagna in testa.

La parola è alle armi, ai massacri, alle distruzioni. La guerra è al tempo stesso una guerra di invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e una guerra di logoramento degli USA e paesi Nato contro la Russia, con carne da cannone ucraina (un centinaio di morti al giorno, ammette Zelensky). Una guerra imperialista da entrambi i lati, combattuta sui campi di battaglia come sui vari mercati, pagata dalla popolazione ucraina (a parte i profittatori di guerra) oltre che da quella russa con migliaia di vittime tra i soldati. Il crescente sforzo bellico russo, nel quadro di sanzioni sempre più pesanti, potrà portare a un deciso peggioramento delle condizioni di vita in Russia, e all’estendersi dell’opposizione al governo e alla guerra. Se non sarà l’opposizione dei proletari internazionalisti a fermare, in Europa come negli USA e in Russia, la politica di guerra dei propri governi, i proletari pagheranno ovunque con il peggioramento delle condizioni mentre in Ucraina prosegue il massacro di civili e proletari in divisa.

RL