Libano: la protesta si riaccende nonostante il lockdown

Da un mese in Libano sono riprese le proteste di piazza. Il lockdown imposto per la pandemia aveva temporaneamente liberato il nuovo governo dall’assedio dei dimostranti. Ma senza la possibilità di lavorare e senza ammortizzatori sociali, un libanese su cinque è alla fame, letteralmente. Il virus è meno letale della miseria provocata da una borghesia corrotta e sfruttatrice. Mentre i più ricchi fuggono sui loro charters privati e coi loro capitali verso Atene e Riyadh, i lavoratori e gli strati impoveriti non si arrendono.

Il coronavirus ha momentaneamente oscurato nella nostra mente le guerre in Medio Oriente e Libia, la paura del contagio sembrava, del resto, aver piegato le rivolte.
Ma il Libano torna a ricordarci che nel resto del mondo spesso si muore più di stenti e, letteralmente, di fame che di pandemia. Un’alternativa terribile che unisce gli sfruttati al di là delle frontiere nazionali.
Il primo maggio numerose manifestazioni hanno sfilato per le strade di Beyruth, Nabatiyeh, Tripoli, Tiro, Sidone: meglio morire combattendo insieme, che in casa soli e dimenticati.

Già prima dello scoppio del contagio (che peraltro in Libano non ha ancora raggiunto una fase virulenta: 24 morti al 29 aprile), il Ministero degli affari sociali aveva rivelato che il 45% dei libanesi vive sotto la soglia di povertà (fissata a 1,25 $ al giorno) e il 22% è in uno stato di povertà assoluta. Ma lo stato di emergenza sanitario proclamato il 15 marzo e la chiusura di esercizi commerciali, opifici, edilizia ha lasciato disoccupate migliaia di persone. I lavoretti precari e part-time che prima era possibile trovare non ci sono più, d’altro canto anche la minoranza che svolgeva lavori in regola, non ha comunque nessun istituto paragonabile alla cassa integrazione o all’indennità di disoccupazione. D’altro canto, per la maggior parte della popolazione il consiglio di stare a casa e “tenere le distanze” risulta ironico, visto che si affolla in case piccole e fatiscenti. E questo per i “cittadini” libanesi, perché i quasi due milioni di profughi siriani e libanesi che vivono nei campi sono una possibile polveriera per il virus. Quanto al lavarsi spesso le mani, difficile farlo se non hai l’acqua in casa e le fontane pubbliche garantiscono la fornitura d’acqua solo per alcune ore al giorno. Calate drasticamente le entrate perché non c’è lavoro, non è neanche possibile attingere ai propri risparmi, perché i conti bancari sono bloccati. E se comunque si riesce a racimolare un po’ di soldi, magari vendendo le poche cose preziose che si possiedono, i prezzi dei beni alimentari e di prima necessità sono schizzati alle stelle. Metà delle famiglie libanesi e l’87% dei profughi non ha garantiti due pasti al giorno.

Perché un libanese normale non può accedere ai suoi risparmi?
Il 9 marzo il governo libanese ha dichiarato fallimento, non essendo in grado di pagare gli interessi sul debito, nello specifico l’Eurobond da 1,2 miliardi di dollari in scadenza. E’ la prima volta che succede nella luna storia del Libano. Il governo nato il 21 gennaio ha dichiarato che tenterà di rinegoziare il debito col fondo britannico Ashmore, rivolgendosi per aiuto al FMI. Il nuovo premier Hassan Diab, sostenuto da cristiano maroniti e dai partiti sciiti Amal e Hezbollah, ha cercato di scaricare tutte le responsabilità sul governatore della banca centrale del Libano, Riad Salameh, ma in realtà si tratta di un evento annunciato.
In precedenza il debito era ogni anno ripianato dagli interessi derivanti dai depositi bancari, che fino a metà 2018 superavano “di 3 volte il PIL nazionale” (dichiarazione di Salameh). Il Libano infatti accoglie come Cipro nei suoi forzieri i capitali in fuga di oligarchi russi e plutocrati del Golfo. Ma questi depositi dal gennaio 2019 hanno cominciato a calare quando il debito interno ha raggiunto il 170% del PIL. A questo si è aggiunto un calo preoccupante delle riserve in valuta straniera, fondamentali per garantire la regolarità delle importazioni e un calo delle rimesse degli immigrati. In questa situazione le banche hanno posto forti limitazioni ai prelievi dai conti correnti e ai trasferimenti di dollari. Ma i boss, quelli che hanno un consulente finanziario, avevano già trasferito fra gennaio e febbraio all’estero 5,7 miliardi di $.

Perché i beni alimentari hanno visto in un solo mese aumentare i prezzi del 55%?
E’ saltato l’ancoraggio col dollaro (se prima del 9 un dollaro valeva 1500 lire libanesi, dopo è arrivato a valere 4500 lire libanesi). Una svalutazione che è ancora in corso e che comporta un rialzo tremendo dei prezzi dei prodotti importati. Il Libano importa la maggior parte delle derrate alimentari e quindi gli effetti sono arrivati a breve sulle famiglie, che si vedono fortemente svalutato il poco denaro a disposizione.

Le proteste si sono concentrate nelle aree più povere, dove una famiglia di cinque persone dei quartieri poveri ha un reddito in media di 120€ al mese. Tripoli, collocata a Nord, è la seconda città del paese per abitanti, ma anche la più povera e quella che è in prima linea nell’accoglienza ai profughi provenienti dalla Siria, essendo a 30 km dal confine. E’ la città dove il potere politico, più che altrove, è un groviglio di influenze clientelari e dove i servizi sanitari, le scuole, i trasporti sono da un decennio in condizioni disastrose. A maggioranza sunnita, Tripoli ha subito i raid sanguinosi di Hezbollah in ottobre e novembre 2019. Qui la disoccupazione dei giovani arriva al 60% e quella totale al 45% (dati ONU 2018). E la povertà dei più stride a confronto della sfacciata ricchezza delle grandi famiglie. Qui nelle piazze fino a gennaio si riunivano attivisti, si tenevano dibattiti. Poi il lockdown. Il governo ha aggiunto all’emergenza sanitaria il coprifuoco notturno, segno che l’occasione per stroncare ogni forma di protesta organizzata era troppo ghiotta. Ma dal 1 aprile, come in tutto il Libano, sono ricominciate le proteste anti-governative.

E’ stato ucciso il manifestante Fouaz al-Semaan, 26 anni. Non una vittima accidentale. L’azione brutale della polizia ha colpito un giovane che assieme alla sorella Fatima era stato uno dei leaders “non conformisti” di ottobre.

A livello nazionale da giorni il coprifuoco non è più rispettato, i piccoli negozi e ristoranti riaprono di notte per solidarietà coi manifestanti. Sui giornali online sono comparse offerte di un rene, per sfamare le proprie famiglie. Alcuni, spinti dalla disperazione, hanno tentato di darsi fuoco.
Ma poi ad andare a fuoco sono state le banche, spesso saccheggiate, in particolare dopo i funerali di Fouaz.
La risposta del governo è sempre e solo mobilitare la polizia che spara con proiettili veri. Nessuna parvenza di riforme o di correzione della corruzione dilagante, nemmeno un tentativo di tenere sotto controllo il mercato nero di alimentari, benzina, disinfettanti, mascherine.

Il governo ha distribuito 140€ in prodotti alimentari a 100 mila famiglie (quando le famiglie in stato di grave bisogno sono cinque volte tanto secondo il quotidiano francese La Croix del 13 aprile 2020). Comunque è un segno che il governo libanese è preoccupato che la situazione esploda. Allo scoppio della pandemia Hezbollah ha cercato di recuperare consensi tornando a fornire assistenza medica e distribuendo cibo. Ma suscitando più repulsione che gratitudine perché molti libanesi lo vedono chiaramente come un mezzo per rinsaldare le catene che li opprimono.

Il sistema sanitario assente
I due terzi dei libanesi non si possono permettere visite mediche, si deve pagare tutto e se ci sono pochi spiccioli si contratta col farmacista l’acquisto della medicina meno cara.

Il sistema sanitario è stato infatti totalmente privatizzato. Chi può si assicura. Quando cominciarono ad arrivare i profughi siriani, molte associazioni umanitarie occidentali hanno inviato medici, attrezzature e farmaci per assisterli. E hanno scoperto che i loro ambulatori nei campi erano frequentati anche da molti libanesi. Che talvolta mugugnavano per il fatto che i profughi “sono trattati meglio di noi”. L’Unhcr (l’agenzia ONU per i rifugiati) nel 2016 aveva constatato che l’arrivo dei profughi, per assurdo, aveva garantito alla popolazione libanese più servizi sanitari e di migliore qualità. L’alternativa per questi libanesi è la beneficenza interessata di organizzazioni locali rigorosamente distinte sulla base di criteri clanici o religiosi, un’altra faccia cioè delle storture contro cui i giovani libanesi sono scesi in piazza l’autunno scorso.

I creditori esteri hanno spesso dichiarato ai giornali che il Libano “viveva al di sopra delle sue risorse”.
Ma il Libano non è un indifferenziato tutt’uno indebitato. Da un lato ci sono i mercanti, gli agrari, i finanzieri che portano all’estero i capitali accumulati sul sudore dei proletari libanesi e profughi (compresi i palestinesi) sottopagati. Dall’altro la moltitudine di chi vive molto al di sotto delle risorse che ha prodotto con il suo lavoro. Borghesia e ceto politico corrotto si appropriano di gran parte della spesa pubblica e ovviamente non pagano neanche una lira di tasse. Da qui il debito pubblico. Non è “il Libano”, ma la sua borghesia, a vivere parassitariamente.

La ripresa delle lotte ci dice la profondità della sofferenza dei libanesi, ma anche che le loro proteste non sono un fenomeno passeggero e che le reti organizzative hanno retto al tentativo di repressione.
“Non abbiamo più nulla da perdere” gridano i manifestanti a Beirut.
Un esempio di determinazione e coraggio per tutti gli sfruttati.