L’inflazione da profitti in assenza di lotte taglia i salari

Pubblichiamo il secondo di due articoli sull’inflazione; nel primo abbiamo parlato di quella degli anni ’70 e ’80 durante i quali le forti lotte operaie ne neutralizzarono gli affetti sui salari; in questo parliamo dell’inflazione degli ultimi due anni, che in assenza di lotte significative dei lavoratori ne hanno drasticamente ridotto i salari reali: fatti e dati a sostegno di una nuova stagione di lotte per il salario e contro la precarizzazione del lavoro.

L’impennata dell’inflazione in tutte le metropoli dalla seconda metà del 2021 ha investito la vita di milioni di persone, abituate da decenni a vedere i prezzi dei prodotti di consumo quasi costanti di anno in anno. Ora all’improvviso i prezzi sugli scaffali dei supermercati e fino al 2022 i prezzi di gas e benzina hanno continuato ad aumentare, provocando la riduzione della quantità di articoli acquistabili con lo stessa quantità di denaro (con lo stesso salario nominale).

I recenti aumenti dei prezzi, che a fine 2022 hanno superato il ritmo del 10% annuo per la prima volta dopo quasi 40 anni, hanno cause ed effetti in parte diversi rispetto agli anni ’70 e ’80. Sostanzialmente si tratta degli squilibri finanziari accumulati nel tentativo degli Stati di attenuare l’impatto della crisi pandemica sull’economia.

Una inflazione da crisi e guerra

Tra le cause c’è in primo luogo l’impennata di spesa e deficit pubblici nel 2020 e prima parte del 2021, volti a mantenere i redditi delle persone e la liquidità delle imprese ai livelli “normali” per evitare insolvenze e chiusure, compensando la caduta della produzione e dei redditi dovuta alle chiusure di alcuni comparti produttivi (ristorazione e pubblici esercizi, alberghi, trasporto aereo, sport e spettacolo, parte della distribuzione non alimentare). L’aumento di sussidi ai lavoratori rimasti inattivi (indennità di disoccupazione, cassa integrazione ed equivalenti), e i “ristori” alle imprese nelle principali metropoli distribuirono trilioni di dollari ed euro di liquidità che solo in parte poteva essere spesa nell’immediato, e che quindi andò ad accrescere i risparmi di famiglie e imprese. Negli Stati Uniti, dove il governo federale non solo versò una indennità di disoccupazione di circa 1500 dollari in aggiunta a quella dei singoli stati, ma elargì sussidi a pioggia a tutti i cittadini, la parte risparmiata del reddito disponibile delle famiglie raddoppiò dall’8,8% nel 2019 al 16,8% nel 2020 e arrivò al 20% nel 1° trimestre 2022; in Italia il risparmio delle famiglie ha raggiunto il livello record del 17,5% sul reddito nel 2020 e si è tenuto su livelli alti nel 2021, per poi scendere al 10% nel 2022.

Le banche centrali misero in atto complesse operazioni di finanziamento dell’economia, centrate sul quantitative easing, con le quali hanno acquistato sul mercato titoli di debito pubblico e in parte anche privato, immettendo sul mercato corrispondenti quantità di denaro (liquidità). Non si trattava di finanziamento diretto del debito pubblico, perché il denaro era pagato alle banche e altri soggetti che avevano acquistato i titoli emessi dai governi, e non era dato direttamente allo Stato. La scommessa era che questa espansione monetaria in forma innovativa non avrebbe generato inflazione. Ad essa si accompagnò una riduzione fino a zero (e anche sotto zero) dei tassi di interesse chiesti dalle banche centrali alle banche per la concessione di liquidità a breve.

Ma quando famiglie e imprese cominciarono a spendere i risparmi accumulati, l’effetto inflazionistico c’è stato, a tutto danno dei lavoratori.

Per alcuni prodotti, soprattutto collegati alle comunicazioni a distanza (scuola a distanza, riunioni in videoconferenza, videochiamate al posto degli incontri di persona) quali pc, tablet, smartphone, microprocessori, dispositivi elettronici sulle auto, vi fu un boom di domanda già durante i lockdown (complici gli acquisti online), che i produttori, soprattutto asiatici, ebbero difficoltà a soddisfare, fatto che favorì un primo aumento dei prezzi.

Con il rimbalzo delle attività economiche a seguito della riapertura dei settori oggetto dei lockout, si riversarono sul mercato anche i risparmi accumulati generando una forte domanda di prodotti e servizi, e si crearono delle strozzature sul lato della produzione, che favorirono fiammate inflazionistiche. Un esempio è il settore auto: la mancanza di chip bloccò la produzione di diversi modelli (si calcola che negli Stati Uniti circa 5 milioni di auto non furono prodotte per questo motivo), e la carenza di auto nuove provocò un’impennata del prezzo delle auto usate, fino oltre il 40% (mentre il prezzo delle auto nuove aumentava di oltre il 10%). Negli Stati Uniti questa fu una delle principali componenti che innescò l’inflazione.

Nel secondo semestre del 2021, il boom della domanda di prodotti industriali in gran parte fabbricati in Cina e Sudest asiatico si scontrò con l’insufficienza dei mezzi di trasporto (navi, container) e delle infrastrutture portuali (in California le navi dovevano attendere alla fonda settimane prima di poter sbarcare il loro carico proveniente dalla Cina). Ciò fece impennare di 10 volte i noli marittimi, mentre gli stessi  container divennero oggetto di speculazione. Ciò a sua volta si riverberò sui prezzi al consumo negli Stati Uniti ed Europa, anche perché questi aumenti trovavano una domanda sostenuta dai risparmi accumulati.

A fine 2021 tuttavia le istituzioni internazionali e i centri previsionali propendevano per la tesi che si trattasse di una fiammata inflazionistica “una tantum” destinata a spegnersi una volta risolte le strozzature, e non è possibile dire se così sarebbe stato, perché una nuova, pesante turbolenza si aggiunse il 24 febbraio 2022 con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e tutto quello che ne seguì (oltre a distruzioni e morte): le sanzioni contro la Russia, le ritorsioni russe sulle forniture di gas all’Europa, il blocco navale dell’Ucraina, che fecero mancare gas, cereali, petrolio, olio di semi e minerali, acciaio sul mercato mondiale. Ne nacque una speculazione sui prezzi dei vari articoli, gas in primis, che ne moltiplicò i prezzi, fino a decuplicarli nel caso del gas (e che spinse l’Italia in Africa alla ricerca di fonti alternative), con aumenti a catena per il riscaldamento, l’elettricità, i trasporti, costi e prezzi agricoli, prezzi dei generi alimentari al consumo e, in misura molto minore, i prezzi degli altri prodotti industriali.

Nei mesi tra ottobre e dicembre 2022 l’inflazione annua (prezzi al consumo) in Italia ha raggiunto i massimi, oltre l’11%, poi è andata riducendosi lentamente, fino al 7,6% di maggio 2023, in seguito al parziale rientro dei prezzi dell’energia, anche se i “beni energetici non regolamentati” (benzina, gas ed elettricità sul mercato libero, ecc.) segnano ancora un +20% a maggio ’23 sul maggio ’22.

Molto è stato detto e scritto su che cosa ha spinto l’inflazione, se i prezzi delle materie prime, se quelli delle imprese trasformatrici, se la distribuzione. Se la causa fossero le materie prime, i prezzi avrebbero dovuto rientrare, cioè scendere al punto di partenza (vedi in appendice i grafici tratti da tradingeconomics.com), tranne che per il gas naturale, per il quale il prezzo europeo è superiore a quello internazionale, e a quello ante-guerra, essendo venuto meno il gas russo a basso prezzo via oleodotto, in parte sostituito da gas liquefatto importato dal Golfo e dagli USA. Nella catena di formazione dei prezzi restano le imprese trasformatrici e la distribuzione, che si rimpallano la responsabilità degli aumenti. Probabilmente hanno ragione entrambi, cioè entrambi hanno approfittato della situazione per aumentare i prezzi di vendita ben oltre l’aumento dei costi.

Ma qui non ci interessa distribuire le “responsabilità”. In una società divisa in classi ogni  fatto ha un connotato di classe. L’inflazione è un caso lampante: consiste nel fatto che i capitalisti grandi e piccoli vendono le loro merci (i prodotti del lavoro dei salariati) a prezzi più alti di prima, cioè chiedono più denaro per lo stesso prodotto. I lavoratori invece continuano a vendere la loro “merce”, la forza lavoro, allo stesso prezzo (il salario). E’ evidente che in questo modo i padroni si prendono una fetta più grande della produzione sociale complessiva, mentre ai lavoratori che l’hanno prodotta resta una fetta più piccola. Con lo stesso salario possono acquistare meno prodotti. L’inflazione senza aumenti di salario significa aumento dello sfruttamento, di quella parte della produzione di valore che non ritorna ai lavoratori sotto forma di salario, ma di cui si appropriano i capitalisti. Di quanto è questo spostamento della ricchezza dai lavoratori ai capitalisti? 

I borghesi guadagnano, i proletari perdono

Se facciamo il confronto tra maggio 2023 e il maggio di due anni fa, dai dati ISTAT risulta che i prezzi di tutti i consumi sono aumentati  del 14,6%. Per i generi alimentari l’aumento è stato del 20%; le spese per la casa, compresi affitti, acqua, elettricità e combustibili del 45%, i prezzi di trasporti e turismo sono cresciuti come la media, abbigliamento e calzature meno del 5%, e l’unica voce che è diminuita sono le comunicazioni (-3%).  Questo significa che una retribuzione netta di 1.500 euro ha perso circa 220 euro di potere d’acquisto. Ma i lavoratori a basso reddito con figli hanno perso molto di più in proporzione, perché sui loro bilanci i generi alimentari e l’energia, che sono aumenti di più (+20% e +45% rispettivamente), pesano per il 50% dei consumi, contro il 25% per i redditi alti. Tanto che nella sua Relazione sul 2022 la Banca d’Italia afferma che per il 20% delle famiglie a più basso reddito l’inflazione è stata dell’8,5% più alta che per il 20% di famiglie a più alto reddito.

Questi dati significano che, a parità di produzione “fisica”, se (è un esempio, ma vicino alla realtà) prima i lavoratori riuscivano ad acquistare la metà di quello che producevano, ora riescono ad acquistarne solo il 42,7%, mentre i padroni salgono dal 50% al 57,3%[1]. Il rapporto tra la fetta dei borghesi e quella dei proletari passa da 1:1 a 1,34:1, cioè un terzo in più!

Che questo sia più o meno quanto avvenuto negli ultimi due anni, è confermato dalle stesse istituzioni internazionali della borghesia.

Il Bollettino della Banca Centrale Europea (BCE) del 30 marzo 2023 afferma che in Europa i “profitti unitari” (cioè la quota di profitto contenuta in una unità di prodotto) erano aumentati del 9,4% nel 4° trimestre 2022 sul 4° 2021, contribuendo per oltre la metà all’aumento dei prezzi, andando “oltre il mero recupero dei costi” “in tutti i settori principali”.

Figura 1 – Profitti unitari in Italia

Il grafico di Fig. 1 ci mostra che alcuni settori, in particolare agricoltura e industria, sono dei veri e propri profittatori di guerra. I “poveri” agricoltori protetti e sovvenzionati dalla UE e sfruttatori di manodopera immigrata a 3-5 euro l’ora, non solo hanno i margini di profitto più elevati, ma li hanno portati dal 50% circa del valore aggiunto nel 2019-20 fino a oltre l’80% nel 4° trimestre 2022! Per i coltivatori di cereali e oleaginose la messa fuori gioco o quasi delle esportazioni ucraine è stata una cuccagna, di cui non hanno esitato ad approfittare alzando a dismisura i prezzi dei loro prodotti. Ma anche il settore industriale è passato da poco meno del 50% a oltre il 60%; l’edilizia da poco più del 30% a oltre il 40% (effetto bonus 110%). Meno eclatante l’aumento dei profitti nei servizi.

A fronte del +9,4% dei profitti, i salari per ora lavorata in Europa sono aumentati del 4,5%, ciò che equivale a un calo del 3,4% dei salari reali (cioè del loro potere d’acquisto). Gli aumenti sono stati “spinti dai servizi non di mercato”, ossia dai pubblici dipendenti, protagonisti delle principali lotte salariali degli ultimi mesi, mentre nelle aziende private gli aumenti sono stati inferiori, con alcune eccezioni (ad es. i metalmeccanici tedeschi, che avevano avviato scioperi di avvertimento, hanno ottenuto aumenti dell’8,5%, anche se su 3 anni, con un consistente anticipo).

Il potere d’acquisto dei salari precipita

Nel suo ultimo rapporto l’OCSE calcola che in un solo anno, tra il primo trimestre del 2022 e il primo del 2023, i salari reali italiani sono diminuiti del 7,3%, a fronte di un calo del 3,3% in Germania, dell’1,8% in Francia, e dello 0,7% negli USA; in Belgio, dove ci sono stati scioperi importanti, i salari sono aumentati del 2,9% (Fig. 2).

Figura 2 – Variazione dei salari reali tra 1° trim. 2022 e 1° 2023, paesi OCSE

Il Financial Times del 31/3 riportava uno studio degli economisti della University of Massachussetts at Amherst, che conclude che i margini di profitto delle società americane sono ai massimi dalla Seconda Guerra Mondiale, e una ricerca della banca d’affari francese Natixis afferma che nel 2022 le imprese europee hanno realizzato il maggior aumento dei profitti dal 2008.

Lo stesso FMI, il Fondo Monetario Internazionale nel suo World Economic Outlook  dell’aprile 2023 cambia musica rispetto alle consuete prediche rigoriste, affermando che in tutto il mondo i salari nominali sono aumentati meno dei prezzi “il che implica una ripida e inedita riduzione dei salari reali”, mentre “i margini di profitto sono aumentati e vi è spazio per assorbire un recupero salariale[i][2]. Parola dei funzionari del capitale finanziario internazionale (diversamente da Marx che seguiva con grande attenzione analisi e dati prodotti dalla borghesia, i molti “marxisti” che continuano a ripetere il mantra di una crisi che non lascerebbe margini per rivendicazioni economiche evidentemente non seguono il metodo materialistico di Marx e ritengono che basti ripetere qualche passo del Capitale più congeniale ai loro desiderata).

Politica monetaria di classe

L’FMI aggiunge anche che i salari reali dovrebbero riprendersi “dato che i mercati del lavoro sono tesi”, ossia la disoccupazione è bassa. Ovviamente non consigliano di scioperare – ci mancherebbe! – ma fanno intendere che l’elevata domanda di forza lavoro e la concorrenza tra le imprese per accaparrarsela dovrebbe farne alzare il prezzo. I lavoratori possono “scioperare con i piedi”, ossia dimettersi per andare a lavorare dove pagano di più, ed è un fenomeno diffuso nei paesi a bassa disoccupazione, un po’ meno in Italia, scambiato nella pubblicistica per “rifiuto del lavoro”. È la soluzione individuale quando il mercato del lavoro è favorevole, ma i sindacati non organizzano la lotta.

Perfino il Governatore della Banca d’Italia, nelle sue considerazioni finali del 31 maggio scorso ha denunciato l’aumento della quota dei lavoratori dipendenti con salari bassi[3] dal 25% di fine anni ’90 al 30%, quale conseguenza dell’aumento del lavoro a termine e part-time, di una “flessibilità del lavoro non accompagnata da investimenti tecnologici adeguati”, tanto che è lo stesso governatore a sostenere “l’introduzione di un salario minimo”, ovviamente “definito con in necessario equilibrio”, quale risposta a “non trascurabili esigenze di giustizia sociale”! Tradotto: l’aumentata “ingiustizia”, oltre a restringere la domanda interna, potrebbe alla fine portare a esplosioni sociali.

Ma il parametro che la FED, la BCE e le altre banche centrali tengono più sotto osservazione non è tanto il tasso di inflazione, bensì quello di disoccupazione: la stretta monetaria deve frenare il credito alle imprese (ed eventualmente far fallire quelle più indebitate), provocando un rallentamento o recessione delle attività economiche fino a che la disoccupazione aumenti a sufficienza per cambiare i rapporti di forza sul mercato del lavoro e contenere le spinte salariali… Anche la politica monetaria è una politica di classe, antioperaia.

Risparmi falciati

Prima di tornare sulla questione inflazione-salari in Italia, è utile accennare ad altre ripercussioni dell’inflazione: non solo aumenta i redditi della borghesia nel suo complesso a scapito di quelli dei lavoratori, ma ha impatti diversi anche sui patrimoni. Leggiamo nella Relazione Banca d’Italia sul 2022 che: “Nel 2022 l’elevata inflazione ha inciso significativamente sul valore reale delle attività e delle passività finanziarie di famiglie e imprese. Le prime, che detengono una ricchezza netta positiva, ne sono state penalizzate; le seconde, per le quali i debiti sono tipicamente superiori alle attività finanziarie, hanno invece beneficiato di una diminuzione delle passività nette in termini reali.”[ii]

Bankitalia stima che la perdita della ricchezza finanziaria netta delle “famiglie” (termine che mescola i proletari con ricchezza zero e le famiglie borghesi che possiedono gran parte della ricchezza) sia stata pari al 14,4% a prezzi costanti. Ma per le imprese che hanno contratto prestiti o emesso obbligazioni, l’inflazione significa svalutazione di questi stessi debiti, e i tassi di interesse sui prestiti (ad es. del 5%) che erano onerosi con una inflazione dell’1-2% diventano negativi in termini reali con un’inflazione del 7,6%. Secondo Bankitalia l’inflazione ha determinato una riduzione di 693 miliardi della ricchezza finanziaria netta delle famiglie, e un aumento di 332 miliardi di quella delle imprese. Anche lo Stato ha il suo tornaconto dall’inflazione, perché riduce l’incidenza del debito pubblico sul PIL, ed è più facile pagare gli interessi dato che le entrate fiscali (sia dirette che indirette) aumentano con l’inflazione.

Ai lavoratori italiani il bollino nero delle metropoli per i bassi salari

Torniamo alla questione dei salari in Italia. L’inflazione si è portata via in media circa un settimo del potere d’acquisto dei salari (-14,6% da maggio 2021 a maggio 2023), ma circa un quinto per le famiglie a basso reddito. E questo dopo che nei 30 anni tra il 1990 e il 2020 i salari italiani erano diminuiti del 3% in termini reali, mentre quelli francesi e tedeschi erano aumentati del 30% circa (vedi Fig. 3). Il salario medio francese, che nel 1991 era inferiore del 10% circa a quello italiano, ora lo supera di circa il 20%; quello tedesco, che 30 anni fa era di poco superiore a quello italiano, ora lo supera del 30% circa. L’inflazione ha quindi fortemente aggravato una situazione di bassi salari che si era andata deteriorando nei tre ultimi decenni di sostanziale assenza di lotte operaie.

Figura 3 – Salario medio in Germania, Francia e Italia, 1991-2021, in dollari

Fonte: Elaborazione su dati OCDE

Ciò non dipende solo dal fatto che nel trentennio l’Italia ha avuto una crescita economica inferiore a Francia e Germania. L’Italia è il paese con la quota più bassa dei salari, e la quota più alta dei profitti sul prodotto interno lordo:

Tabella 1 – Salari e profitti in % sul PIL
 Retribuzioni lordeRetribuzioni netteSurplus operativo
Italia41,029,947,3
Francia52,239,334,3
Germania52,443,138,5
Fonte: Eurostat

La massa dei profitti, rilevata come “surplus operativo”[4], in Francia (907 miliardi) è uguale a quella dell’Italia (902 miliardi), mentre i salari in Italia (782 miliardi) sono poco più della metà di quelli francesi (1.380 miliardi).

Che i profitti sono alti lo verifichiamo in numerosi bilanci aziendali dei grandi gruppi: ad es. il gruppo Stellantis (che include la FIAT) ha realizzato 16.8 miliardi di euro di profitti nel 2022: 2.800 euro di utile netto per ognuna dei 6 milioni di auto prodotte; e oltre 61.000 euro per ognuno degli oltre 272 mila dipendenti! Ogni mese ogni lavoratore ha prodotto 5.000 euro di profitti! I profitti superano di gran lunga la massa dei salari. E Stellantis ha graziosamente assegnato il 12% dei profitti ai lavoratori, 1.879 euro agli italiani, 4.300 ai francesi (in aggiunta a un aumento del 5,3% per il carovita), 13.874 agli americani (in realtà questi bonus non vanno a diminuire i profitti, ma sono parte del costo del lavoro 2023, sulla cui base saranno calcolati i profitti del 2023). Il gruppo Barilla ha realizzato un margine operativo lordo di 56.000 euro per dipendente, utile netto di 26,551 euro per addetto. Aumenti che ritroviamo sugli scaffali dei supermercati, ma non in busta paga.

Banca Intesa, la più grande banca italiana, ha realizzato un utile netto di 5,5 miliardi, pari a 78.571 euro per ciascuno dei 70 mila dipendenti, e l’amministratore delegato Carlo Messina ha deciso di accordare tutti i 435 euro medi di aumento mensile chiesti dai sindacati. Un aumento che ben pochi lavoratori possono sognare, ma pari a meno di un euro su 10 di profitto. D’altra parte la Fig. 1 mostra come questo boom dei profitti non è limitato ai grandi gruppi, ma si è avuto per l’insieme dell’economia. Quello però che stiamo rischiando di avere è non la conquista di aumenti con la lotta, ma una elargizione aziendal-paternalistica di aumenti salariali più o meno modesti in imprese dove gli affari vanno a gonfie vele – per “fidelizzare” i dipendenti e garantirsi la pace sociale – mentre la massa dei lavoratori vede ridursi ulteriormente il proprio potere d’acquisto, e la classe si frantuma, stratifica e divide ulteriormente.

Sindacati confederali accondiscenti

Ad oggi, le confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL, che vantano milioni di iscritti, non hanno chiamato alla lotta, ma si sono affidate al “taglio del cuneo fiscale”, da anni  chiesto ad alta voce dalla Confindustria. Il governo Draghi ha introdotto 2 – 3 punti di sgravio dei contributi trattenuti in busta paga e versati all’INPS per compensare parte degli aumenti delle bollette; il governo Meloni il primo maggio ha varato il taglio di altri 4 punti da luglio fino a dicembre 2023. In teoria i lavoratori si dovrebbero trovare un netto in busta paga più pesante del 6-7%, ma dato che questo sgravio contributivo (a differenza degli ex 80 e poi 100 euro “di Renzi”) va ad accrescere l’imponibile IRPEF, ed è tassato al 25% (35% oltre i 2.333 euro), il vantaggio sul netto si ridurrà al 4,5-5,25% nel migliore dei casi, rispetto a una perdita salariale del 14-20%. Un intervento che, mentre tampona solo per una piccola parte l’aumento del costo della vita, e solo per sei mesi, permette ai padroni di non sborsare un euro in più per i salari nonostante stiano incassando prezzi aumentati sulle vendite, e gli stessi organi padronali, dal FMI alla BCE abbiano provato che ci sono ampi margini di profitto per permettere ai salari di recuperare l’aumento dei prezzi. Mentre tagliava il reddito di cittadinanza e reintroduceva i voucher allo stesso valore orario (€7,50) di 5 anni fa, che valgono solo 6 euro di allora, il governo Meloni ha fatto quest’altro grosso regalo ai padroni con le tasche già gonfie di profitti, che va a svuotare le casse dell’INPS per il pagamento di pensioni, Cassa Integrazione, Disoccupazione. Per cui o saranno ulteriormente tagliate pensioni, CIG e NASPI, o qualcuno sarà chiamato a pagare con le tasse il buco aperto nell’INPS. È facile indovinare che quel qualcuno saranno di nuovo i lavoratori dipendenti che già pagano gran parte dell’IRPEF.

Se l’inflazione di oggi permette ai capitalisti di accrescere la propria quota della ricchezza svalutando i salari e di fatto aumentando lo sfruttamento, dal quadro che abbiamo fatto nella prima parte di questo articolo è chiaro che la vera “variabile indipendente” da cui dipende la ripartizione tra salari e profitti è la lotta operaia, e non a caso un trentennio a bassa inflazione, ma senza scioperi, ha portato al peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Solo la lotta può invertire la spirale discendente di salari e condizioni di lavoro.

L’unica soluzione è la lotta

Diversamente che in altri paesi anche europei, in Italia non ci sono stati scioperi per aumenti salariali, tranne che in diverse aziende della logistica da parte del SI Cobas, per il rinnovo del premio di risultato, con aumenti dell’ordine di qualche centinaio di euro l’anno, che coprono solo una piccola parte dell’aumento del costo della vita. SI Cobas e Adl Cobas hanno indetto uno sciopero nazionale per il 22 settembre per il rinnovo del CCNL con la rivendicazione di aumenti di 200 euro netti. Nonostante il fatto che questi due sindacati di base sono i più rappresentativi nei maggiori hub della logistica, non sarà facile rompere il monopolio della contrattazione di CGIL, CISL, UIL, sostenuto dalle aziende. Anche le imprese di questo settore hanno realizzato consistenti profitti negli ultimi anni, e ci sono grossi margini per strappare significativi aumenti salariali. DHL nel 2022 ha realizzato 8,4 miliardi di utili operativi (4,1 nel 2019), pari a 21.266 euro per ciascuno dei 395 mila addetti nel mondo; il gruppo Geoport/DPD, di cui fa parte BRT, ha realizzato 13.900 euro di utili per addetto; il gruppo UPS 13,1 miliardi pari a 27.000 dollari per ciascuno dei 481 mila addetti (negli Stati Uniti mentre scriviamo stanno decidendo se scioperare per il rinnovo del contratto in scadenza).

Se lo sciopero della logistica non si limiterà a una giornata, ma sarà l’avvio di un autunno di lotta – e la rivendicazione di 200 euro netti in questa situazione può infondere l’energia necessaria – potrà strappare alle imprese della logistica concessioni significative, e soprattutto essere da esempio per il risveglio degli altri settori operai. L’apertura di vertenze separate per il rinnovo dei singoli CCNL rischia tuttavia di frammentare ulteriormente le condizioni dei lavoratori, settore per settore, con i più deboli che perderanno ulteriore terreno. La rivendicazione di un salario minimo di almeno 10 euro l’ora avrebbe il pregio di sollevare le condizioni degli strati inferiori di lavoratrici e lavoratori. PD e Cinquestelle stanno utilizzando questa rivendicazione (limitata a 9 euro l’ora, che equivalgono a poco più di 7,5 euro di due anni fa) propagandisticamente, nella speranza di recuperare voti da chi ha smesso di votare, ma c’è da chiedersi perché non l’hanno introdotto quando erano al governo e avevano i “numeri” per farlo: se ne sono ben guardati per non toccare gli interessi di piccola borghesia e “cooperative” (il maggiore “azionista” del PD), che sui bassi salari si sono arricchiti e si arricchiscono.

E farebbero altrettanto quando tornassero al governo.  Occorre che la rivendicazione del salario minimo di 10 euro l’ora (su 14 mensilità) diventi l’obiettivo unitario e unificante di tutte le categorie, insieme alla rivendicazione di 200 euro netti per tutti, per far crescere un movimento generalizzato di lotta su scala nazionale e che sappia coinvolgere nei territori i milioni di lavoratori delle mini e micro imprese che di fatto non dispongono dell’arma dello sciopero. Un salario minimo di 10 euro conquistato con la lotta avrebbe un significato politico ben diverso dalla (vana) attesa di una elargizione parlamentare, e insieme a un forte aumento salariale per tutti permetterebbe ai lavoratori di riprendersi ciò che padroni e padroncini hanno tolto loro con l’inflazione.

Questa mobilitazione deve andare di pari passo con, e dare forza a, la mobilitazione decisa nell’assemblea di Milano dell’11 giugno contro la guerra, per un fronte unico dei proletari contro entrambi i blocchi imperialisti, in guerra per spartirsi i frutti dello sfruttamento dei lavoratori e delle risorse naturali ucraine usando i proletari russi e ucraini come carne di cannone.

R.L.

Figura 4

Fonte: https://www.eticapa.it/eticapa/contrazione-dei-salari-reali-in-italia-rapporto-oil/

Figura 5: Variazione salari reali 1° trim. 2023 su 1° 2022, paesi OCDE

Appendice

Figura 6: Andamento dei prezzi petroliferi (Brent) 2014-2023

Figura 7: Andamento dei prezzi del gas naturale, 2014-2023

Figura 8: Andamento dei prezzi del grano, 2014-2023

Figura 9: Andamento dei prezzi dell’acciaio, 2014-2023

Fonte: https://tradingeconomics.com/


[1] Si è applicata una riduzione pari al 14,6% per la quota dei salari ossia di 7,3 punti del PIL, a fronte di un aumento analogo della quota che va alle imprese.

[2] WEO aprile 2023

Prefazione del Consigliere Economico del FMI, Pierre Olivier Gourinchas:

“Dobbiamo preoccuparci del rischio di una spirale incontrollata salari-prezzi? A questo punto, non ne sono convinto. L’inflazione dei salari nominali continua a rimanere molto indietro rispetto all’inflazione dei prezzi, il che implica un declino ripido e senza precedenti dei salari reali. Dato che i mercati del lavoro sono tesi [bassa disoccupazione –ndr], è improbabile che questa situazione continui e i salari reali dovrebbero riprendersi. I margini aziendali sono aumentati negli ultimi anni – questo è il rovescio della medaglia di un ripido aumento dei prezzi, a fronte di un modesto aumento dei salari, e in media dovrebbero essere in grado di assorbire l’aumento del costo del lavoro. Finché le aspettative di inflazione rimarranno ben ancorate, questo processo non dovrebbe andare fuori controllo. Tuttavia, potrebbe volerci del tempo.” [nostra traduzione]

[3] Definiti come inferiori al 60% del salario mediano, soglia che nel 2022 era pari a 11.600 euro l’anno.

[4] Il surplus operativo, o margine operativo lordo, è pari al valore aggiunto meno il costo del lavoro: esso comprende, oltre ai profitti lordi (prima degli interessi e delle imposte), anche il reddito misto dei lavoratori indipendenti, concettualmente scomponibile in salario e profitto.


[i] WEO aprile 2023

Prefazione del Consigliere Economico del FMI, Pierre Olivier Gourinchas:

“Dobbiamo preoccuparci del rischio di una spirale incontrollata salari-prezzi? A questo punto, non ne sono convinto. L’inflazione dei salari nominali continua a rimanere molto indietro rispetto all’inflazione dei prezzi, il che implica un declino ripido e senza precedenti dei salari reali. Dato che i mercati del lavoro sono tesi [bassa disoccupazione –ndr], è improbabile che questa situazione continui e i salari reali dovrebbero riprendersi. I margini aziendali sono aumentati negli ultimi anni – questo è il rovescio della medaglia di un ripido aumento dei prezzi, a fronte di un modesto aumento dei salari, e in media dovrebbero essere in grado di assorbire l’aumento del costo del lavoro. Finché le aspettative di inflazione rimarranno ben ancorate, questo processo non dovrebbe andare fuori controllo. Tuttavia, potrebbe volerci del tempo.” [nostra traduzione]

[ii] Relazione Banca d’Italia sul 2022, pag. 52.

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