Anni ’70 e ’80: le lotte operaie tengono testa all’inflazione

Proponiamo due articoli sull’inflazione.

Il primo riguarda l’inflazione degli anni ’70 e ’80 durante i quali le forti lotte operaie ne neutralizzarono gli effetti sui salari; il secondo l’inflazione degli ultimi due anni, che in assenza di lotte significative dei lavoratori ne hanno drasticamente ridotto i salari reali: fatti e dati a sostegno di una nuova stagione di lotte per il salario e contro la precarizzazione del lavoro.

Migliaia di articoli e studi vengono sfornati sul fenomeno inflazione dal punto di vista del capitale. Il loro focus è principalmente sulla “stabilità del sistema”, cioè come evitare che gli aumenti dei prezzi distorcano i rapporti tra i vari attori economici, con il rischio di far saltare degli anelli del sistema finanziario con ripercussioni sul sistema capitalistico nel complesso. All’interno di questo dibattito, che si traduce in azioni di banche centrali e governi, traspaiono i contrasti di interessi delle diverse frazioni borghesi, alcune favorite dall’inflazione (quelle con debiti a bassi tassi, e/o che vendono a prezzi inflazionati), altre colpite (es. attività a tasso fisso, settori che vendono a credito, come l’immobiliare).

Il nostro punto di vista (pure attento alle contraddizioni del sistema che possono provocare delle crisi, e ai contrasti tra diverse frazioni borghesi) è un altro, e riguarda l’impatto dell’inflazione sui rapporti tra le due classi fondamentali della società capitalistica: proletariato e borghesia, lavoro e capitale.

Una premessa: cos’è l’inflazione?

Diversamente dai tempi in cui Marx scriveva il Capitale, quando ogni moneta aveva un “contenuto aureo” o argenteo determinato (una sterlina = tot. grammi di oro, e la Banca Centrale garantiva la convertibilità della moneta in oro) oggi il denaro non ha un rapporto di valore determinato con alcune merci che funge da “misura del valore”, e il suo valore in termini di merci dipende dalla quantità di banconote / altre forme di denaro liquido in circolazione, con cui i vari agenti economici possono acquistare le merci sul mercato. Se dall’oggi al domani la Banca Centrale Europea moltiplicasse per 10 la quantità di denaro in circolazione (semplificando: gli euro nelle tasche e nei conti correnti dei cittadini e delle imprese europee), questo denaro si riverserebbe sul mercato in quantità superiore alla disponibilità di merci e servizi (ai vecchi prezzi), facendone lievitare i prezzi. Per questo si parla di “moneta fiduciaria”, ossia moneta il cui valore in termini di merci (il prezzo in euro di un kg di pane o di carne, di un paio di scarpe, di un cellulare, di un’auto, di un macchinario, ecc.) si basa sulla fiducia nel fatto che la Banca Centrale, cui lo Stato conferisce il monopolio nell’emissione di moneta, accompagni l’andamento dell’economia fornendole la liquidità necessaria alla dinamica economica, e non stampi moneta in eccesso per darla all’uno a l’altro attore – ad esempio al governo.

In questo primo articolo esaminiamo a larghi tratti l’esperienza dell’inflazione nella seconda metà del XX secolo.

Figura 1

Da mezzo secolo (dalla fine della convertibilità del dollaro in oro, dichiarata nel 1971) le banche centrali hanno affinato i criteri delle politiche monetarie, ponendo quale obiettivo principale la “stabilità dei prezzi”, definita però come crescita annua dei prezzi del 2%. Quindi non zero inflazione, ma bassa inflazione. La loro spiegazione è che un certo tasso di inflazione, che erode il valore del denaro liquido, spinge gli attori economici ad investire anziché tesaurizzare. L’altra spiegazione non detta è che un 2% di inflazione provoca una costante erosione dei salari, a vantaggio dei profitti, e questo è l’effetto principale dell’attuale risalita dell’inflazione a livello globale.

L’alta inflazione degli anni ’70 e ’80 “sopraffatta” dalla lotta operaia

Una inflazione a due cifre, come quella a cavallo tra il 2022 e il 2023, non si vedeva in Italia da quasi 40 anni (dal 1973 al 1984). Una prima impennata inflazionistica si era avuta nei primi anni ’60, fino all’aumento del 7,5% dei prezzi al consumo nel 1963. Sono anche gli anni che vedono una notevole ripresa delle lotte sindacali, che nel 1962 raggiungono il massimo del dopoguerra con 182 milioni di ore di sciopero. Le fabbriche del triangolo industriale assumono per espandere la produzione nel boom economico. Gli operai, senza la paura della disoccupazione, scioperano per aumenti salariali, e anche scendono in piazza scontrandosi con determinazione con la polizia, come a Genova nel luglio 1960 contro il governo Tambroni, e a Torino (Piazza Statuto) nel luglio 1962, fuori della sede della UIL che aveva firmato un accordo separato con la FIAT. La repressione statale e padronale colpisce duramente i lavoratori: oltre 1.200 arrestati, 90 fermati, 88 licenziati, ma non impedirà al fuoco di riaccendersi più forte pochi anni dopo, e nel complesso l’ondata di scioperi consegue aumenti salariali notevoli: tra il 1961 e il 1965 i prezzi aumentano di circa il 25%, ma i salari del 67%: i salari reali, ossia il loro potere d’acquisto, aumentano di un terzo (+33%). Non ci interessa qui discutere del rapporto causa-effetto tra aumenti dei prezzi e dei salari, ma del rapporto causa-effetto tra scioperi e salari reali: se i lavoratori lottano, sono in grado di conquistare aumenti salariali reali, al netto dell’inflazione.

L’ondata di scioperi iniziati con l’autunno caldo del 1969 (anno in cui si raggiunge il picco di 300 milioni di ore di sciopero) e che continua nei primi anni ’70 (mai sotto i 100 milioni di ore di sciopero) porta a nuovi, forti aumenti dei salari. A spingere questi scioperi è anche il fatto che tra il 1968 e il 1975 vi è una inflazione cumulativa dell’85%; tra il 5 e il 6% annuo tra il 1970 e il ‘72, 10% nel ’73, 19% nel 1974 (lo shock petrolifero). I salari sono parzialmente coperti dagli scatti di scala mobile (introdotta nel 1951), che però sono fortemente differenziati a seconda del livello. In quegli anni, tuttavia, si rivendicano aumenti uguali per tutti, che riducono i ventagli salariali. Coi forti scioperi di quegli anni gli operai ottengono il triplicamento dei salari monetari medi dell’industria, che al netto dell’inflazione significa un aumento del 60% dei salari reali come media. In barba all’inflazione. Nella ripartizione del PIL tra salari e profitti, nel 1975 i salari sopravanzano i profitti di 16 punti (di 2,5 punti nel 1970). I lavoratori conquistano una fetta maggiore di quanto producono.

La borghesia corre ai ripari. Nel 1975 il presidente della FIAT e della Confindustria, Gianni Agnelli, firma con CGIL, CISL e UIL l’accordo sul punto unico di scala mobile. All’aumento dell’1% del costo della vita per le famiglie di operai e impiegati corrispondeva l’aumento di 2.389 lire, pari a quasi l’1% del salario medio dell’industria. Ciò si traduceva in un aumento reale per i salari inferiori a 238.900 lire (corrispondente a circa 1.170 euro del 2023). Lo scopo di questo accordo è quello di placare gli operai che erano in testa agli scioperi, che saranno più che coperti dall’aumento dei prezzi, e così contenere le lotte salariali che gli stessi sindacati confederali fanno fatica a controllare. I lavoratori non dovevano più scioperare per recuperare il potere d’acquisto perso con l’inflazione. Con i rinnovi dei CCNL, o dei contratti aziendali, non ci sarebbe più stato il problema di recuperare l’inflazione, ma si sarebbe trattato sugli aumenti REALI dei salari. E sull’onda del 1969, che in sei anni ha portato un aumento reale del 60%, i lavoratori considerano naturale che il potere d’acquisto dei salari debba aumentare di anno in anno, e continuano a scioperare, anche se non con l’intensità dei primi anni ’70.

Sconfitta FIAT e demolizione della scala mobile

Nel 1980 la FIAT, spinta anche dalle difficoltà di mercato a seguito del secondo shock petrolifero, cambia tattica: dalla carota al bastone, e licenzia 23mila operai. La lotta contro i licenziamenti si conclude con una sconfitta, dopo 35 giorni di blocco di Mirafiori. Ci sarà ancora un’impennata di scioperi nel 1982, poi c’è un declino drammatico, da una media triennale di 50 milioni a 12 milioni di ore tra il 1982-84 e il 1984-86, per non risalire più sopra questo livello. Anche i salari reali vedono gli aumenti crollare a partire dalla fine degli anni ’70: si passa da un aumento dell’83% nel corso degli anni ’70 all’11% negli anni ’80 al +2% nel decennio ’90.

A questo risultato ha contribuito anche la politica borghese. Il presidente del Consiglio Craxi fiuta il vento e nel 1984 taglia tre punti di scala mobile, nel referendum successivo per la revoca del taglio, voluto dal PCI, il taglio viene invece confermato, tanto è forte la campagna contro i salari, per i sacrifici. Nel 1992 sono gli stessi sindacati confederali CGIL, CISL e UIL a firmare con la Confindustria l’abolizione della scala mobile con il pretesto di “privilegiare la contrattazione”. Il risultato è che tra il 1991 e il 1995 c’è un calo del 5% del salario reale industriale, e nei 30 anni tra il 1990 e il 2020 i salari reali italiani scendono del 2,9%.

Se osserviamo la Fig. 2, è evidente la correlazione tra scioperi e aumento dei salari reali, anche se nei primi anni ’80 abbiamo un protrarsi degli scioperi mentre l’incremento dei salari scende al minimo. Ciò è dovuto al fatto che una parte crescente degli scioperi, a partire da quello alla FIAT, ha carattere difensivo: contro i licenziamenti e la Cassa Integrazione, contro l’intensificazione del lavoro, la repressione padronale, ecc. Se confrontiamo invece la curva dei salari reali di Fig. 2 con la curva dell’inflazione di Fig. 1, paradossalmente si potrebbe concluderne che più aumentano i prezzi, più aumenta il potere d’acquisto dei salari…

La borghesia in quegli anni condusse la sua campagna antioperaia sostenendo la correlazione inversa: più aumentano i salari, più aumentano i prezzi. E con questa tesi Craxi tagliò i 3 punti di scala mobile nel 1984, e facendosi interpreti di questa campagna CGIL, CISL e UIL nel 1992 concordarono l’abolizione della scala mobile. Anche se era difficile sostenere che un meccanismo che scatta DOPO l’aumento dei prezzi possa provocare quello stesso aumento di cui è la conseguenza. La formula adottata fu quella della “spirale” o della “rincorsa” prezzi-salari, un modo per confondere le idee tra quale fosse la causa e quale l’effetto.

Figura 2

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat, “L’Italia in 150 anni”.

Il divorzio Banca d’Italia-Tesoro

Vi fu tuttavia un fatto decisivo e rivelatore della causa principale dell’inflazione negli anni ’70. Nel febbraio 1981 il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi scrisse una lettera al ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, nella quale comunicava il “divorzio” tra Bankitalia e il Tesoro. Fino allora quando il Tesoro aveva difficoltà a finanziare il crescente deficit pubblico con l’emissione di titoli di stato, perché “il mercato” non li assorbiva al tasso di interesse offerto, Bankitalia gli andava in soccorso stampando moneta, e usandola per comperare quei titoli di stato non acquistati. Quello che era chiamato “finanziamento monetario del Tesoro”. In altri termini: la Banca d’Italia pagava parte del debito pubblico stampando moneta, e con ciò riducendo il valore reale del denaro in mano a cittadini e imprese.

In altri termini: veniva messa in circolazione una crescente quantità di denaro senza un aumento corrispondente della produzione di merci, e ciò (semplificando) determinava inflazione, ossia l’aumento del prezzo delle merci in termini di lire, e la svalutazione della lira rispetto alle “monete forti”. Tra il 1970 e il 1980 la lira si era svalutata del 63% sul marco tedesco, da 170 a 464 lire per marco. Settori economici in difficoltà avevano tratto un vantaggio dalle successive svalutazioni, dette “competitive” perché riducevano il prezzo dei prodotti italiani in termini di marchi, franchi o dollari. Ma questo vantaggio era effimero, perché l’inflazione faceva risalire i costi in lire e richiedeva sempre nuove svalutazioni, che facevano a loro volta aumentare i costi delle importazioni (ad es. di materie prime) minando la competitività.

La stessa borghesia italiana era divisa su questa politica inflazionistica. Il “finanziamento monetario del Tesoro” costituiva di fatto una “tassa occulta”, nel senso che parte della spesa pubblica al posto di essere coperta con le imposte era fatta pagare con l’inflazione che significa riduzione del valore del denaro posseduto da persone e imprese. Lo stesso Umberto Agnelli, amministratore delegato della FIAT nel 1980 poco prima di passare la mano a Cesare Romiti per muovere guerra agli operai, aveva chiesto una nuova svalutazione della lira (per rendere più competitivi i prezzi delle auto FIAT). Ma l’anno prima l’Italia aveva aderito al primo tentativo di unione monetaria europea, il Serpente monetario, che richiedeva la stabilità della moneta, ossia la riduzione dell’inflazione. Il “divorzio” Banca d’Italia-Tesoro era quindi finalizzato a preparare l’Italia alla moneta europea. Una scelta fatta dal capitale finanziario, di salire sul bastimento monetario europeo, consapevole dei grossi rischi che il capitalismo italiano avrebbe corso se avesse continuato a navigare da solo tra crescenti onde generate dalle tempeste finanziarie. Ciampi che mette il governo davanti al fatto compiuto, e spiega la scelta con la necessità di una stabilità finanziaria (e monetaria) per poter attrarre i capitali esteri (all’acquisto di titoli di stato e privati).

Anni ’90: stabilizzazione sulla pelle dei lavoratori

Nel 1980 l’inflazione aveva raggiunto il ritmo massimo del dopoguerra con un +21,1% dei prezzi al consumo sull’anno precedente. Dopo il “divorzio” l’inflazione scese sotto il 10% nel 1985, per collocarsi tra il 5 e il 6% a fine anni ’80 e scendere sotto il 3% nella seconda metà degli anni ’90. Il 1992 è un anno cruciale: vede infatti non solo l’abolizione della scala mobile, ma la firma del Trattato di Maastricht che impone la convergenza di inflazione, tassi di interesse e deficit pubblici quale condizione per partecipare all’Unione Monetaria, e l’ultima, drastica svalutazione della lira (del 24% sul marco e del 32% sul dollaro).

L’abolizione della scala mobile fu organica alla scelta dell’Unione Monetaria, nel senso che CGIL, CISL e UIL accettarono la scelta di far pagare ai lavoratori gli aggiustamenti per “mettere i conti in ordine” e salire sul bastimento dell’Unione monetaria: i salari italiani, senza più il paracadute della scala mobile, vennero svalutati di un quarto-un terzo rispetto ai salari europei e americani. Durante la recessione del 1993, i profitti rimasero alti proprio grazie alla riduzione dei salari reali favorita anche da un’ondata di licenziamenti[1]. La stabilizzazione della lira fu fatta pagare ai lavoratori. Come evidenziato anche in Fig. 2 nel periodo 1993-96 i salari reali diminuirono di oltre il 5%. Bisognerà infatti attendere la metà del primo decennio degli anni 2000 per recuperare i livelli salariali del 1991. Anzi, secondo l’OCSE i salari reali del 2020 erano ancora inferiori del 2,9% a quelli del 1990 – unici in Europa. I lavoratori percepirono questo peggioramento con ritardo, quale effetto dell’adozione dell’euro nel 2001. Secondo le statistiche ufficiali il passaggio all’euro non fu accompagnato da una impennata dei prezzi[2]

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Le lezioni che possiamo trarre dalla storia dell’inflazione nella seconda metà del secolo scorso:

  • L’inflazione, ossia i prezzi delle merci in termini delle unità di conto monetarie, è un fatto prevalentemente monetario, effetto delle modalità di finanziamento della spesa pubblica e della correlata emissione di moneta da parte delle banche centrali;
  • Essa ha tuttavia un effetto distorsivo rispetto alla ripartizione del (reddito) prodotto e della ricchezza accumulata, e sui rapporti tra creditori e debitori, tra capitale e salario. C’è chi ci perde, e chi ci guadagna.
  • L’impatto immediato dell’inflazione sui salari è quello di ridurre il loro potere d’acquisto, ma la storia mostra che il fattore determinante per il potere d’acquisto dei salari è la capacità di lotta dei lavoratori salariati e stipendiati: i maggiori avanzamenti nel potere d’acquisto dei salari furono infatti conquistati negli anni di alta inflazione, mentre nell’ultimo trentennio di bassa inflazione, ma ancor più basso livello degli scioperi, i salari reali sono diminuiti;
  • La stabilizzazione finanziaria dell’Italia negli anni ’90 è stata realizzata a spese dei salari, dell’occupazione e della salute dei lavoratori, senza intaccare i profitti dei capitalisti grandi e piccoli, con il contributo attivo delle Confederazioni sindacali;
  • La scala mobile dei salari ha certamente contribuito a proteggere i salari dall’inflazione, ma il suo potenziamento nel 1975 per volontà della stessa Confindustria ha avuto lo scopo di attutire la combattività operaia, che l’alta inflazione accendeva: obiettivo raggiunto nell’arco di un decennio, dopo il quale, rifluita la capacità di lotta, è stata smantellata. A riprova che nessuna conquista economica all’interno del rapporto di lavoro salariato (sfruttamento) può dare risultati duraturi per la classe in sostituzione delle sue lotte.

R.L.

I numeri positivi indicano un avanzo del bilancio pubblico, quelli negativi un disavanzo. Il saldo primario non include gli interessi sul debito.


[1] “La ristrutturazione, indotta dalla recessione, di larghi settori dell’industria e dei servizi, accompagnandosi a riduzioni di personale senza precedenti, ha provocato una generale impennata della produttività. La situazione depressa del mercato del lavoro e il mantenimento del quadro di politica dei redditi definito nel 1992 e nel 1993 ha ridotto al minimo la dinamica delle retribuzioni contrattuali. Il conseguente calo del costo del lavoro per unità di prodotto ha consentito un forte incremento dei margini di profitto, in marcato contrasto con la loro compressione durante la precedente fase del ciclo. Grazie all’aumento della redditività, l’andamento discendente degli investimenti industriali ha raggiunto il punto di svolta verso la fine del 1993 e si è convertito in una crescita sostenuta già nel primo semestre del 1994 (Commissione CE, Relazione Economica annuale 1995, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:51994DC0615&from=nl, nostra evidenziazione).

[2] Calcolati al cambio ufficiale di 1936,27 lire per euro

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